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Spavalderia e dopo

Al mio risveglio, avevo il cuscino bagnato di lacrime,

Un solo giorno lontano da lui sembra mille anni...

Ho bisogno di amore perché sono parecchio giù di corda.

Leola P. Wilson e Wesley Wilson

Poco importa chi sia a rompere una relazione. Che sia tu o lui, il dolore è lo stesso.

Dormi con un uomo per quasi cinque anni, annusi l’odore del suo sudore, senti le sue gambe pelose che ti sfiorano di notte, e sei legata a lui. Quando se ne va, è come un’amputazione. E vai in giro in cerca d’una stampella di legno, pur sapendo che non servirà a niente.

Poco importa che tu sappia o meno che quell’uomo non va bene per te. Poco importa che tu sappia che quell’uomo non va. Alla fine di una storia d’amore, aderisci alla scuola di pensiero di Stella Kowalski: ci sono cose che succedono al buio tra due persone, che fanno sembrare giusto tutto quello che succede alla luce.

La prima notte fu la peggiore. Mi costrinsi a dormire sola nel mio attico, disseminato di cose di Dart... e della sua puttanella. Quella ragazza era davvero un fenomeno. Il suo sbrindellato reggiseno e le sue mutandine macchiate erano insolentemente stesi ad asciugare sopra il mio lavabo; sul cassettone c’era l’astuccio semiusato delle sue pillole anticoncezionali; e sul comodino, c’era il suo profumo (Charlie!).

Passai in rassegna le sue cose con rabbia e curiosità. La borsa da trucco tutta sporca e piena di pezzetti sbriciolati di cosmetici dozzinali che io non avrei mai usato, il serpente arrotolato della doccetta per le irrigazioni vaginali infilato in un sacchetto di plastica, nella borsa. La vestaglia di acrilico, a fiori rosa e verde acqua, le pantofoline, consunte e sporche, di spugna verde acqua. Contemplai la possibilità di fare un collage con tutti quegli oggetti (e le foto trovate prima) e intitolarlo: “La puttanella di Dart”. Ma il dolore era troppo grande, perciò lasciai che l’ira trionfasse sull’arte e gettai tutto quanto dalla finestra. Il finestrone della mansarda si apriva con una manovella e poi andava girato sui lati. (Era stato fatto in Germania a caro prezzo e poi spedito in America.) Quando lo si apriva, si aveva l’impressione di poter saltare giù dal sesto piano... ma resistetti alla tentazione. Dalla mansarda sentivo pulsare il cuore del quartiere, il sibilo degli pneumatici sull’asfalto bagnato (s’era messo a piovere), l’attrazione della finestra aperta.

Gettai in strada tutte le stronzate della puttanella senza nome: pillole anticoncezionali, completo per l’irrigazione vaginale, scatoletta del trucco: tutto. Il kit del trucco si ruppe e si sparpagliò sulla strada, mille frantumi di uno specchio rotto che portava sfortuna (a lei, speravo, non a me... ma chi poteva dirlo?). La doccetta delle irrigazioni parve rimbalzare, poi il sacchetto che la conteneva si ruppe e il tubo di gomma si snodò sulla strada come un boa constrictor che avesse ingoiato un pallone. (Detesto le ragazze che stanno sempre a deodorarsi la passerina: credevo che Dart non fosse il tipo da farsela con una di quelle; pensavo capisse il valore degli odori naturali.) Gettai fuori tutto il resto della roba, poi richiusi la finestra e crollai sul letto, troppo desolata anche per piangere.

Non c’è tradimento peggiore di quando un amante porta un’altra donna nel tuo letto. Perfino il materasso vibra del loro rapporto sessuale, interrompendoti il sonno, e i tuoi stessi sogni sono contagiati dal loro amore traditore. Sai che parte centrale avevi nel loro amore, sai in che misura vi partecipavi, e questo ti fa gelare il sangue. Inutile dirsi che ormai il loro amore è diluito, indebolito dal fatto di non essere più segreto. Inutile dirsi che ora anche loro provano un senso di perdita. Te ne stai lì sdraiata nel letto senza riuscire a trovare la posizione buona per dormire. La schiena, il fianco, lo stomaco, l’altro fianco sono tutti formicolanti del loro sesso, con la pelle d’oca, come se il letto fosse infestato di cimici.

La città ti ribolle intorno. La grande e fumante città da Roma di fine impero. Auto della polizia che urlano, ambulanze che sfrecciano per le vie, coperchi di bidoni della spazzatura che cadono con fracasso sull’asfalto, bottiglie rotte, le radio portatili che vomitano in continuazione canzoni sulla marea di ormoni, il crescendo del testosterone che cerca l’estrogeno e viceversa, il palpitare dell’universo.

Tutti hanno qualcuno, solo tu sei sola. Tutti stanno strofinandosi inguine contro inguine, coscia contro coscia, e tu sei tutta sola.

Di colpo ti assale l’amore. Vorresti ricordare solo i brutti momenti, ma ecco che invece tutti i bei ricordi ti sommergono. Vuoi odiarlo, ma l’amore è ancora lì, che pulsa come un cuore tolto dal petto. Vuoi dimenticare, e invece non puoi fare altro che ricordare.

La costa dalmata d’estate e Dart steso al sole come un giovane dio. Le tenere venuzze purpuree delle sue palpebre. L’oro del suo petto. Il segno di un taglio sulla fronte, là dove il parabrezza una volta lo bloccò in un incidente d’auto causato dalla droga nella Bucks County. Dart che uccide un serpente testa di rame, mozzandogli di netto la testa con un colpo di fucile. Dart che ti scopa sul pavimento della casa nel Connecticut. Dart che dardeggia. Dart che se ne va. Dart che ritorna.

Sì, Dart ritorna certamente.

Ma questa volta ne dubito. L’imbroglione ha bisogno della vittima che si fa truffare, per essere reale. L’ubriacone ha bisogno dell’alcool. Il drogato dell’ago. Il cazzo, della fica. Dove è finita tutta la mia gratitudine, tutta la mia grazia?

Mi alzo, accendo la luce e vado al bar. E lì, in un mobiletto a specchi disegnato da Ettore Sottsass apposta per questa mansarda, ammiro la sfilata di bottiglie: Chivas Regal, Jack Daniel’s, Stolichnaya, Beefeater, Canadian Club, Pernod, Lillet, Cinzano, Nolly Prat... Le bottiglie mi stanno davanti con le loro ambrate trasparenze cristalline. Le bottiglie mi invitano e mi stuzzicano.

Che differenza fa? mi chiedo. Perché no?

Stappo il Chivas (anche se non ho mai amato in particolare lo scotch) e mi sfido a berne una sorsata. La bevo. Poi un’altra. E un’altra. Appena la testa comincia ad annebbiarsi, capisco di essere nei guai. Verso il liquore nel lavandino e rompo la bottiglia per terra.

Le riunioni del’AA mi hanno tolto il gusto di bere. Una volta bevevo, aspettando il clic nella testa (come dice Brick in La gatta sul tetto che scotta) e invece adesso odio sentirmi la testa annebbiata. Appena comincia l’annebbiamento, so che sono condannata: condannata a una settimana di depressione, tristezza e odio per me stessa. Condannata alla lunga caduta a spirale fino in fondo alla tana del coniglio.

Mi agito e mi rigiro nel letto, aspettando che l’alcool mi esca dall’organismo. Quell’aria timida e imbarazzata di Dart mi tormenta. Ricordo che è stata lei, la puttanella, a dire tutto, a parlare per lui, e la cosa mi rattrista. Voglio consolare Dart, non incolparlo. In qualche modo so che Dart è vittima della sua stessa debolezza e disperazione... e che è molto più sperduto di me. Odia la sua dipendenza più di quanto non la odi io, eppure non conosce altro modo di esistere.

L’aspetto infernale della situazione, è che capisco Dart maledettamente bene. È il mio bambino, il mio tesoro, il mio uomo e io voglio nutrirlo, proteggerlo, anche se intanto lui mi massacra. Se Dart dovesse scrivere la sua parte della storia, cosa scriverebbe? Che quella cattivona di Leila lo castrava e lo faceva sentire debole? Capisco il problema di essere il modello e non l’artista. Una volta, alla scuola d’arte, ho fatto da modella per un amico – un pittore figurativo di nome Mikhailovich – che mi dipinse per un mese (per amore, suppongo), ma la cosa non mi era piaciuta affatto. Ricordo la sensazione di essere sotto l’incantesimo di un’altra persona, il senso di magia nera, e ricordo anche la sensazione di non avere il controllo di me stessa... Dart si sente sempre così. Dart sta cercando di controllare me, portando la puttanella nel mio attico, scopandola nel mio letto.

Impossibile. Riaccendo la luce, mi vesto, sfoglio il libretto dell’Anonima Alcolisti, in cerca d’una sede aperta tutta la notte. Coi fianchi fasciati di denim, mi avventuro fuori, cercando un rifugio al mio dolore. Mentre cammino, indifferente al pericolo, mi sembra di vedere il libro della mia vita scorrermi rapidamente davanti agli occhi. Quanti anni mi restano ancora per dipingere? Potrei morire stanotte stessa per queste strade, o potrei avere ancora uno, due, dieci, venti, trenta anni. Più di metà della mia vita è già trascorsa. I caratteri a stampa piccoli già si confondono sulla pagina, quando tento di leggerli senza occhiali. Le mie mestruazioni sono già diventate o troppo lunghe o troppo corte. Già mi dolgono le ginocchia e le giunture dei gomiti, quando piove. Non ho tempo di stare a piangere su Dart. Ho un lavoro da fare.

Trovo la riunione (in una squallida chiesa a pochi isolati dal mio attico) e incontro la mia gente: vagabondi, barboni, senzatetto.

La riunione notturna è tanto un rifugio che un luogo di preghiera e di guida. Vecchi che non hanno altro da mangiare che questi dolcetti zuccherati, nient’altro da bere che questo caffè o questo tè tiepidi.

Che squallido mucchio di straccioni! Certi uomini sono completamente sdentati, uno parla da solo nell’ultima fila di queste seggioline di legno frusto. Le donne potrebbero essere battone, pazze, senza casa, malate, moribonde. New York è sempre più una città di grande povertà e grande ricchezza. In questa Londra di Hogarth la gran signora in abito firmato disdegna il mendicante che la importuna per la strada. Ma nel Programma siamo tutti allo stesso livello.

La riunione non è ancora cominciata e tutti gironzolano per la stanza, bevendo caffè e salutandosi l’un l’altro. Tutti estranei, ma legati insieme dalla gentilezza e dalla volontà di cercare di essere onesti. Mi piace il distacco dell’AA dai valori che dominano sul resto della nostra società. Altrove, avidità, falsità e egoismo sono la regola. Qui, invece, generosità, verità, umiltà. Sono nervosa perché stanotte ho bevuto e dovrò dirlo, ma c’è qualcosa di terapeutico, di salutare già solo nell’essere qui, in questa stanza. L’amore è quasi palpabile. Da qualche parte, la mia mente sana è qui che mi aspetta.

Qualcuno mi si avvicina e mi batte una mano sulla spalla.

Dapprima sono restia. Sembra una barbona, con la faccia che nuota nella ciccia, gli occhi sepolti tra le rughe. In testa ha un cappellino rosso di maglia con delle paillette penzolanti e per vestito, una tenda di poliestere rosso.

“Louise?” mi dice la donna esitante. “Louise?”

“Sì.”

“Sono Rivka Landesman, ricordi? Music and Art?”

La guardo sbalordita. Quella stracciona che guazza nel grasso è una mia ex compagna di liceo... una pittrice di talento, che era riuscita a esporre in una galleria prima di me, una che io un tempo invidiavo, perché pareva ce l’avesse fatta, mentre io ancora lottavo per il mio primo riconoscimento come pittrice. Rivka era un prodigio già al liceo. Era nel giro di Andy Warhol, aveva fatto dei film con lui, aveva venduto le sue opere a importanti collezionisti, tutti parlavano e scrivevano di lei... e poi di colpo era scomparsa. Erano anni che non ne sentivo più nulla.

“Come stai?” le chiesi. Era una domanda ridicola. Lo vedevo da me, come stava. Peggio di me.

La mia gentilezza sciolse qualcosa dentro di lei: un’ondata di autocommiserazione.

“Be’,” fece, “quando il mio quarto matrimonio... quello con l’italiano... è andato in pezzi e lui se l’è filata con tutti i miei risparmi, ho veramente toccato il fondo. Non ci crederai, ma quest’ultimo anno ho perso tutto. Mia figlia è partita per il college, il mio innamorato è sparito in Italia con un milione di dollari miei e tre quadri di Andy. Ho subito una parziale isterectomia, i miei ormoni sono andati a farsi fottere, sono aumentata di quaranta chili, mia madre è morta... spero che l’AA mi possa aiutare. Non so dove altro andare. Sono così vicina al suicidio, come non lo sono mai stata.”

Qualcosa si ritrae in me davanti all’autocommiserazione. Sento che Rivka sta per gettare la presa su di me e che non mollerà. Mi sento in trappola, claustrofobica. Ma quando qualcuno ti tende la mano in cerca d’aiuto, devi aiutarlo.

“Louise,” dice lei, “con che galleria sei adesso? Credi che potrebbero dare un’occhiata al mio lavoro?”

“Non lo so,” dico, con la sensazione improvvisa di venire borseggiata. “Non sono qui per farti da agente, sono qui perché bevo.”

“Certo,” dice Rivka, “ma tu sei così fortunata. Hai sempre avuto più successo di me. Sei sempre stata nel posto giusto al momento giusto. Sempre sulla cresta dell’onda.”

La guardo incredula. Mi sta insultando e allo stesso tempo intrappolando in un senso di colpa. “Tramare” a una riunione! Non c’è limite a quanto in basso si può cadere!

“Sei così carina. Hai sempre degli uomini. Hai sempre i critici in palmo di mano. Non hai idea di come sia stata dura, per me...”

Adesso sta veramente esagerando. Vorrei mettermi a urlare, a rinfacciarle la sua lagnosità e il suo egoismo, dirle che probabilmente ha finito per scocciare tutti quelli che avevano cercato di aiutarla, ma poi mi rendo conto che questa reazione è esattamente il motivo per cui sono venuta qui: per vedermi riflessa in questa donna, per vedere quello che potrei diventare, se non mi riprendo, se non sono dura con me stessa, per vedere l’esempio di una donna che spreca la sua vita nel vittimismo.

“Rivka,” le dico gentilmente, “se vuoi che ti aiuti a smettere di bere, ci posso provare. Non ho un periodo molto facile neanch’io, ma forse in qualche modo posso aiutarti... però per favore non mi insultare cercando di farmi sentire in colpa perché mi metta a cercare di piazzare i tuoi quadri. Non è di questo che tratta il Programma e tutto quello che tu stai facendo mi mette in difficoltà.”

Lei mi guarda, senza capire.

“Allora non mi vuoi aiutare?”

“Sì, che voglio aiutarti, ma non voglio che tu mi insulti e mi manovri. Sto lottando anch’io. Stanotte ho bevuto dopo un mese che non bevevo più e mi sentivo meglio di quanto non mi fossi mai sentita in vita mia. Sto ancora cercando di fare un passo alla volta. Sto ancora cercando di imparare a condurre la mia vita. Il successo mi ha portato a dover subire pressioni diverse da quelle che hai subito tu, ma sempre di pressioni si tratta. Non c’è competizione, tra noi due. Siamo due esseri umani che barcollano. Il Programma mi ha portato a vedere la mia vita in termini spirituali e io stasera ho mandato tutto a puttane – forse perché non potevo sopportare che la mia vita stesse davvero migliorando. Rivolevo indietro il mio dolore. Ho fatto un piccolo patto con Dio, che sarei diventata sobria se lui mi avesse restituito il mio amante, e infatti l’ho riavuto per un po’, e questo mi ha messo fuori strada. Ma Dio non gioca secondo le nostre regole. E noi non possiamo fare i bambini petulanti e dire: ‘Be’, se Dio non gioca secondo le mie regole, io non gioco più, mi distruggerò, ecco!’ Non abbiamo questa scelta. Possiamo solo scegliere se vivere o morire, non possiamo stare a cavalcioni. E se vogliamo vivere, non possiamo fare altro che sottometterci, non al nostro volere, ma a quello di Lui, di Dio.”

“O di Lei,” disse Rivka.

“Giusto,” dissi. “Lei. Lui o Lei non ha importanza. È una specie di vanità anche discutere sul sesso di Dio. Qui stiamo parlando di anima, del dono della vita... e se scegli di affermarlo o di negarlo. È di questo che si tratta.”

Stavo cercando di convincere Rivka... o piuttosto volevo convincere me stessa?

Rivka sbatté gli occhi. Un lampo d’intuizione.

“Mi sembra quasi di capire, di vedere,” disse.

“Ma certo. Tu sei una pittrice.” L’abbracciai. Non riuscivo nemmeno a circondarle tutto il corpo con le braccia, ma la strinsi a me.

Isadora: Mi viene la pelle d’oca quando la nostra eroina si lancia in sermoni sul bere e la droga. Dopotutto, è da poco sobria anche lei.

Leila: Sono proprio quelli che sono a stento sobri, a predicare con più ardore. Quando hai veramente superato il vizio, non hai più bisogno di predicare.

Isadora: Non capisco dove vuoi andare a finire, con questo capitolo. Sento puzza di Epifania. Epifania sulla Bowery. Dio... detesto le Epifanie.

Leila: Sei diventata così cinica, con l’età. Che ne è stato della vecchia Isadora, che aveva paura ma volava lo stesso?

Isadora: Non me lo chiedere. Ci vorrebbe un altro libro, per dirtelo.

La riunione venne richiamata all’ordine dalla segretaria, che pareva una battona, con quella micro minigonna di pelle nera, un top rosso, un enorme fiocco rosso tra i capelli e sandali rossi col tacco a spillo. Difficile dire quanti anni avesse. Comunque tra i diciotto e i trenta, pensai. Ma aveva un’aria dura, quell’aria dura che ti lascia la vita per la strada. Sapevo che in confronto alla mia, la sua vita era difficile. Solo a vedere il suo corpicino impertinente e vivace e sentirla leggere spigliatamente il preambolo, mi veniva da piangere. Ero così contenta di essere lì alla riunione, così felice di avere una riunione cui andare.

L’oratrice ci venne presentata come Lenore B. Un fragoroso applauso. Evidentemente era nota ai membri dell’AA.

Lenore B. era una donnina nera e sparuta, sui cinquanta o sessanta anni, che raccontò una storia da fare rizzare i capelli. Un marito che la picchiava, un figlio morto ammazzato per le strade di Harlem, una figlia con un tumore al seno, una madre con un tumore polmonare, un fratello con l’AIDS. A certi toccano dosi extra di sofferenza, e Lenore era appunto una di loro. All’AA ero finalmente arrivata a capire la storia di Giobbe e perché Dio abbia il diritto di scorticarci per punirci per la nostra arroganza e il nostro egoismo. Era una buona lezione, una lezione che ricevevo spesso alle riunioni, ma che mi usciva di testa appena uscivo dalla stanza. Ora, sentendo Lenore, mi tornò in mente. Mi chiesi cosa ne pensasse Rivka. Che importava. Mi chiesi cosa ne pensassi io.

Lenore parlava della sua vita e intanto la mia mente vagava. Guardai la lista dei Dodici gradini e capii che si poteva spendere la vita intera in ciascuno di loro. Avrei potuto fare un quadro concettuale con le liste dell’AA – ma non mi sarei arrischiata a farlo, per paura di guastarne la magia.

Lasciando che i vari gradini mi vagassero per la mente, mi concentrai sul sesto, qualcosa sull’essere “interamente pronti” a lasciare che Dio eliminasse i nostri difetti di carattere – che era poi l’argomento della riunione di quella sera. Cosa significava “interamente pronti”? Significava che eri pronto ad aprire a Dio il tuo cuore. Significava che volevi davvero migliorare. Significava che avevi superato l’autocommiserazione. Significava che eri “interamente pronta” ad ascoltare la tua mente sana.

E io, lo ero? Assolutamente no. Ero ancora troppo attaccata al mio dolore e alla mia autocommiserazione, troppo attaccata a Dart, troppo attaccata alla mia ostinazione.

Come spesso succede alle riunioni, l’oratrice e io eravamo sulla stessa lunghezza d’onda di pensiero.

Lenore B. disse: “Vedendo mio fratello morire di AIDS, mi sono chiesta se credevo veramente nell’anima o fingevo solo di crederci. Perché mio fratello perse la fede, alla fine della sua malattia, e per poco non la persi anch’io. Era un spettacolo terribile: i tumori gli uscivano dalla lingua, un odore stomachevole, un corpo devastato. Io lo curavo e molte volte avevo voglia di bere, ma ancora più spesso avevo voglia di maledire Dio per le sofferenze di mio fratello. E per le mie. È stato il sesto gradino a salvarmi. Specie due parole, di questo gradino. Le parole ‘interamente pronto’. Ero ‘interamente pronta’ a rinunciare alla carne? No, non lo ero, finché non vidi la carne di mio fratello marcire e andare a pezzi. La morte non è uno spettacolo piacevole. E nemmeno la malattia. Pensiamo di essere troppo grandi per la malattia e la morte. Pensiamo di essere al disopra della carne. Ma la carne è lì come una lezione. Quando l’abbiamo imparata, passiamo oltre. Benedico il giorno in cui Dio si prese mio fratello Harold. Benedico il giorno in cui lo vidi, là, un povero mucchietto di ossa e di carne puzzolente. Fino a quel giorno, non credevo di essere mortale. Ma adesso ci credo. Adesso sono interamente pronta. E se dovessi scordarmene, Dio mi manderebbe un altro promemoria...”

Si sente una specie di rantolo in fondo alla stanza. Molti di noi si voltano a guardare; un vecchio barbone dell’ultima fila si stringe il petto e si piega in due.

Spinta da una forza che non capisco, mi precipito al suo fianco. La faccia dell’uomo diventa rigida e bluastra, poi l’uomo cade in avanti e batte la testa contro la spalliera della sedia con un tonfo. Crolla per terra, puzzolente di sudore, di piscia e di escrementi: l’odore della miseria. Ha la testa girata da un lato, sbatte le palpebre e vedo che quanto resta d’uno dei suoi occhi è d’un azzurro velato. Muove la bocca... sdentata. Un sottile rivoletto di saliva gli scivola fuori dall’angolo della bocca e finisce per terra. Penso a Dart, che amava i vagabondi, si identificava con loro, avrebbe addirittura voluto girare per la città a mettere addosso una coperta a tutti loro, come una specie di giovane Holden. E cerco di fingere che quel pesante pezzo di carne in disfacimento sia il mio bel Dart. Perché lo è.

Il buco rosso della bocca dice: “Glielo avevo detto che non bisognava andare in mezzo al lago... ma credete che mi abbia dato retta? Nossignore. Mai. Gli avevo detto che la zattera non lo avrebbe retto, ma credete che mi abbia dato retta? Nossignore... Finito. Finito, tutto finito... l’estate, finito... e l’inverno... e le belle bevute... Glielo avevo detto, avevo cercato di dirglielo...”

Il viso color ardesia dell’uomo assume un’espressione di pace assoluta, mentre la sua mente scivola in qualche estate dimenticata, su qualche lago dimenticato, con un amico mai dimenticato. Forse adesso sono insieme. Allora tutti i muscoli del suo viso si rilassano. Ecco, è interamente pronto. E allora la sua vescica si allenta e io mi trovo in ginocchio in una pozza di piscia che gli esce dai pantaloni puzzolenti.

La calma del suo viso bluastro, mentre l’urina gli zampilla intorno, bagnandogli anche le ginocchia e i polpacci, mi fa pensare di avere davanti un bambino tornato dalla sua mamma. La vita è così dura per certe persone: non riescono mai a prendersi cura di se stesse. La morte deve essere un tale sollievo. Non più fingere. Non più dover tenere duro. La pozza tiepida di pipì nel letto si raffredda e diventa appiccicosa tra le gambe. Il ritorno alla mamma, al grande seno.

Ora sono tutti in piedi attorno a noi.

Nello sbalordimento di vedere con quanta rapidità si passa dalla vita alla morte, dico solo: “Dio, dio.”

“Amen,” dice Lenore, alle mie spalle.

Molti piangono. Qualcuno è andato a chiamare un’ambulanza, anche se è evidente che ormai al nostro amico l’ambulanza non serve più. E Rivka è scappata via. Non è interamente pronta. Forse un giorno lo sarà.