10

Ballata triste

Appena torno a casa

faccio cambiare

serratura e chiave.

J. C. Johnson

E così feci cambiare la serratura. Non avevo scelta, veramente. Non fu una cosa allegra. Quando arrivò il fabbro, piansi. Ma non potevo assolutamente permettere che la piccola puttanella tornasse nel mio letto. Era insopportabile. Avevo perso Leila da qualche parte tra New York e il Connecticut e dovevo ritrovarla. Cambiare la serratura era il primo passo.

Non era facile. Non facevo che pensare a Dart. Al suo cazzo. Al suo dolce sorriso un po’ sbieco. Ai muscoli dei suoi bei polpacci. Ai suoi glutei. Al suo cazzo.

Di notte, a letto, sentivo la sua mancanza in modo viscerale, mi mancava nel ventre, nel cuore, nella punta delle dita. Quando amavo Dart, lo amavo così intensamente che mi faceva male perfino la punta delle dita e adesso le mie dita sentivano la sua mancanza. Pareva che sentissero ancora la sua pelle sotto di loro. E le mie narici. Le mie narici sentivano ancora il suo odore.

Non è facile rinunciare all’alcool e a un amante tutto nello stesso tempo. Una cosa per volta sarebbe già stato abbastanza. Ma non avevo altra scelta. Nella bottiglia non restava più niente per me. Niente se non tristezza e dolore. Non potevo ingannarmi dicendomi che bere avrebbe migliorato le cose. Anzi, poteva solo peggiorarle.

Così mi rivolsi alla letteratura popolare femminile. Donne che amano troppo; Uomini che odiano le donne che li amano; Donne intelligenti, scelte stupide... tutti i libri che promettono la guarigione dalla maschiodipendenza. Non arrivai fino ai gruppi di terapia per maschiodipendenza o all’Anonima sessisti. Per un folle istante, pensai di andare all’Anonima sessisti per incontrare degli uomini, ma alla fine riuscii a non farlo. La sola idea faceva ridere la mia mente sana.

I libri erano già qualcosa. Ti dicevano tutto quello che c’era di sbagliato nella tua relazione (lasciando pesantemente intendere che era tutta colpa tua), ma non ti dicevano come trovare una buona relazione. Eri masochista? una donna zerbino? una sessodipendente? Ti ingozzavi di dolci per placare il tuo senso di solitudine? Di vino? Di erba? Di coca? Be’, segui questi semplici dodici passi e tutto andrà meglio. Bastava concentrarsi sulla guarigione. Bastava essere interamente pronta.

A quanto pare, nessuno scriveva libri del genere per uomini. Erano le donne, che dovevano essere interamente pronte a rinunciare ai loro vizi. Erano le donne a essere legate a bastardi senza cuore. (Forse era per via delle percentuali: sette milioni di donne in più degli uomini; perché mai gli uomini dovrebbero comportarsi bene?) Certe volte pensavo che questi libri facessero parte della cospirazione delle donne autrici per accalappiare gli uomini delle altre donne. Perché se ogni lettrice avesse seguito gli adamantini consigli di quei libri, un sacco di uomini sarebbero stati liberi e sarebbero tornati sul mercato. Questa fu per un po’ la mia teoria... finché non mi accorsi che non teneva conto del fatto che molti di quei libri erano scritti da uomini. Che fossero omosessuali, che speravano di far tornare in circolazione qualche altro uomo, disgustato dall’intero sesso femminile?

E chi poteva biasimare gli uomini, per essere disgustati dell’intero sesso femminile? Gli uomini sono così vulnerabili... tutta la loro vulnerabilità penzola nuda tra le loro gambe. Spaventati dalle loro madri, dalle donne che urlano... in fondo cosa ci chiedono? solo un po’ di dolcezza e di tenerezza. Non c’è da meravigliarsi che torme di donne urlanti li spaventino. Non reagirei anch’io con rabbia e paura, se fossi un uomo? Nella mia mente sana, so che è così.

Cercai di dedicarmi agli affari. Negli spasimi dell’agonia della mia relazione con Dart, quando tutto andava a rotoli, non avevo lavorato gran che, come è facile immaginare.

Dopo il successo dei fotogrammi di Dart/Trick, che avevano fatto di Dart/Trick una specie di star di Soho, con tutti gli annessi e connessi, specie droga e fanciulle, il mio lavoro era andato in malora. Come si può dipingere, quando non si sa mai se e quando il tuo amante tornerà a casa? Meglio essere come Georgia O’Keeffe, sola sulla sua mesa, sotto le nuvole sospinte dal vento (con un giovane stalliere che ti regge il cavalletto e un altro bel giovane per catalogare il tuo lavoro – mica scema, Georgia). Meglio vivere in splendido isolamento che cercare l’amore nei posti sbagliati.

E così, ora che Dart se n’era andato e io ero rimasta in bilico sullo scoglio della mia precaria sobrietà, cercavo di tornare agli affari. Invitata dal mio mercante, un certo André McCrae (della McCrae Gallery) a uno dei tumultuosi ricevimenti a casa sua sulla Quinta Avenue, accettai, anche se ultimamente m’ero fatta vedere sempre meno.

André era un sintomo di tutto quello che non andava nel mondo dell’arte. Non capiva un accidente d’arte e non aveva idea di cosa gli piacesse. Gli piaceva quello che si vendeva, e più si vendeva, più gli piaceva. Se non si vendeva più, smetteva subito di piacergli. Se poi si vendeva e l’artista moriva, gli piaceva ancora di più. La sua idea del perfetto artista, era l’artista morto... preferibilmente morto all’apice della fama. Una volta, prima che firmassi il contratto con lui, André mi disse, durante una cena a Cornwall Bridge, che preferiva di molto trattare artisti morti. “Loro non ti vomitano addosso tutto quanto.” Avrei dovuto prenderlo come un avvertimento, ma non lo feci. Pensavo che sarei riuscita a manovrare André... il che basta a dare un’idea di quanto mi sbagliassi.

Un afoso mercoledì sera di luglio, andai quindi con la DART dal Connecticut a New York e parcheggiai nel garage del Carlyle, poi mi diressi a piedi verso l’appartamento di André tra la Quinta e la Settantaquattresima. A New York un party estivo è un evento raro, che si può tenere solo il martedì o il mercoledì sera; le altre sere della settimana, la città è tutta dei poveri. I ricchi sono negli Hampton, a Vineyard Haven, Newport, Nantucket, nel Maine, al Cape, in Toscana, in Grecia, a Venezia, nel sud della Francia.

André e sua moglie hanno inventato un sistema unico per salvare il loro matrimonio: appartamenti separati in edifici adiacenti sulla Quinta Avenue. La festa di stasera è nell’appartamento di André, il più grande dei due.

Andare alle feste perfettamente sobria è una novità, per me... una novità che mi fa un po’ paura. Vedo troppo, sento troppo, mi rendo conto di tutte le bugie che la gente racconta.

Salgo con l’ascensore rivestito di pannelli ed esco al quattordicesimo piano – in realtà è il tredicesimo, ma in questo palazzo si passa dal dodici al quattordici per evitare la scarogna. Per la verità l’appartamento occupa il tredicesimo e il quattordicesimo piano. Conoscendo André, è probabile che si sia fatto fare uno sconto, per questo.

André non è nato André, e suo padre non si chiamava McCrae più di quanto il mio non si chiamasse Sand. André McCrae è un personaggio che si è fatto da sé. Nato a Arbit Malamud in Lituania negli anni venti o trenta, ha esordito come pellicciaio, ma ben presto ha scoperto che si ricavava più grana dalle tele che dalle pelli.

Il suo primo quadro, come ama raccontare a chiunque sia disposto ad ascoltarlo (e con André spesso non si può fare diversamente), gli venne dato come parte di un accordo di divorzio dalla sua prima moglie. Le storie apocrife sul primo matrimonio di André si sprecano: si dice che fosse sposato con una Rothschild, una Churchill, una Vanderbilt, una Rockefeller... forse con tutt’e quattro insieme. Comunque lei era ricca, sfidò casta e classe per sposare quel piccolo, intraprendente ebreo dalla testa rossa (uno e cinquantasette con le scarpe col rialzo interno) per poi rimpiangere questo colpo di testa per tutta la vita. Lo liquidò con un Van Gogh (ancora oggi appeso in anticamera dell’appartamento più grande – insieme con l’altro, di più recente acquisizione). Il Van Gogh (il cui pezzo compagno è alla Phillips Gallery, a Washington) rappresenta i giardini pubblici di Arles nel 1888, con un uomo e una donna che camminano in mezzo alla vegetazione estiva.

Van Gogh è l’artista perfetto, per André, perché è il suo esatto contrario. Questo tormentato artista che in vita sua non ha mai venduto nemmeno una tela – eccetto al fratello, come una specie di scopata per pietà – ma era trascinato da un’intima furia a dipingere, rappresenta tutto quello che André non sarà mai e perciò speranze che non può né comperare né vendere: fuoco intimo, intima certezza, la trascinante forza del genio.

“Come stai, tsatskeleh?” mi dice André, aprendomi personalmente la porta e senza aspettare la risposta. (André ostenta il suo yiddishkeit per shockare i goyim. Ci dà dentro soprattutto in presenza di gente come i Getty, i Dupont, i Mellon, che lo trovano carino. Una specie di cucciolo ebreo.)

Sally si precipita ad ammirare il mio vestito.

“Non me lo dire, lasciami indovinare. Zoran? Karan? Koos?”

“No. Riprovaci.”

“Krizia?”

“No.”

“Te lo sei fatto tu? Sei così brava!”

“No, è un vecchio Zandra Rhodes.”

“Avrei dovuto saperlo.” Sally è così magra da sembrare malata di AIDS, anche se probabilmente non ha mai praticato abbastanza sesso da poterlo prendere. Lei e André hanno uno di quei matrimoni tipo il-matrimonio-è-un-contratto, così cari al cuore dell’élite del nuovo denaro di New York. Più che scopare, possiedono insieme delle cose. È il loro tipo di sesso.

Sally porta la taglia trentotto e andare a letto con lei deve essere più o meno come andare a letto con una bicicletta. Ha i capelli di un rosso delirante – anche se sicuramente tinti a caro prezzo da Monsieur Marc – e i suoi gioielli art déco sono sempre abbaglianti. Perlomeno le coprono le ossa dello sterno, che altrimenti sporgerebbero. Porta uno Scaasi a sbuffo sulle gambe che sembrano bastoncini dello shangai ed è la signora dal bacio non-toccatemi. Accende e spegne il sorriso come fosse un bulbo di lampadina in un albergo economico. Non si sa mai cosa stia pensando. André è più trasparente.

Anche alle feste a casa sua, André continua a scrutare la stanza per vedere se c’è qualcuno di più importante con cui parlare della persona con cui sta in quel momento. Quando sta con te, hai sempre la sensazione che stia per schizzare via come una freccia. Come un dardo. Dart. Tutto ti ricorda Dart.

“Come sta Dart?” chiede André.

“Andato,” dico.

“Era solo questione di tempo,” fa lui. “Cosa bevi?”

“Tab, Perrier...”

“Roberto te ne porta subito un bicchiere,” dice, facendo un cenno al maggiordomo sudamericano, mentre schizza al capo opposto della stanza per parlare con una tale che somiglia a Lady D, ma non lo è. André ha la delicatezza di un elefante e il campo visivo di una zanzara.

La stanza sembra galleggiarmi intorno. Tutta quella gente che ride senza allegria, tutti quegli occhi lampeggianti che girano frenetici per la stanza. I party di André hanno sempre un’infarinatura di regalità, un pizzico di Hollywood, un famoso giornalista televisivo, di quelli che leggono i notiziari, un paio di baroni della carta stampata, un paio di magnati di Wall Street, un paio di palazzinari: tutti opportunamente sposati con mogli che, come gli abiti di certi designer, si trovano solo nelle taglie da trentotto a quarantaquattro. Le taglie oltre il cinquanta sono rigorosamente escluse. Ci sono gli artisti, naturalmente gli artisti di André – ma sono un po’ come animali dello zoo che si comportano al meglio. Ai party di André gli artisti hanno sempre l’impressione che i loro sforzi siano vagamente periferici all’evento centrale della serata: comprare e vendere. Spesso finiscono per ubriacarsi o farsi tranquillamente, per poi buttarsi in stato di incoscienza sul letto della camera per gli ospiti o andare discretamente in bagno a vomitare, forse per la nausea che suscita in loro la vicinanza di quel beau monde a cui il successo ha dato loro il diritto di accesso.

Sally mi prende per mano e mi conduce da un gruppetto di stupidelle: sei donnine taglia quaranta identiche a lei a parte il colore dei capelli (sono tutte bionde con colpi di sole) e le gambe scheletriche, in bilico sui tacchi a spillo.

Riconosco i loro nomi dalla colonna mondana di Liz Smith e le loro facce dal marchio centrale: qualche chirurgo plastico quest’anno ha inventato quel mento appuntito. Hanno tutte quella mascella affilata come un rasoio che nemmeno la natura potrebbe concedere a una ventiduenne. Sembrano tutte felici di conoscermi. Non passa molto, prima che venga reclutata per fare la mia particina per varie malattie chic, come l’AIDS, mal di cuore, cancro, le piaghe di moda di questi tempi. Una biondina vuole un mio disegno da mettere all’asta, un’altra la mia compagnia a “una cenetta molto esclusiva”, dove verranno messi all’asta i due posti accanto a me, un’altra ancora vuole che vada a dare una lezione nella scuola di sua figlia. Dovrei sentirmi onorata dalle loro richieste di farmi cortesemente spillare denaro di tasca, ma sono sicura che se chiedessi a una di queste ineffabili signore di darmi la sua collana di smeraldi, mi guarderebbe inorridita e chiamerebbe subito la polizia. Ma si sa, il tempo e il lavoro di un artista non valgono niente, a meno, ovviamente, che non vengano trattati da André.

Rispondo gentilmente, mi tengo sul vago. Poi vedo qualcuno che conosco tra la folla, e attraverso la sala.

È Wayne Riboud – il ciclista del Nevada che è diventato il divo del momento riproducendo con meticolosa precisione banconote di dollari, yen, franchi e lire e scambiandoli con generi di prima necessità, come cibo e abiti. A New York è diventato di moda appendere il denaro al muro. Niente simbolismi arcani. Fare a scarica barile: è tutto quello che conosciamo sulla terra e tutto quello che ci serve sapere.

“Come stai, piccola?” mi chiede Wayne, sbirciandomi nella scollatura.

“Sono ancora viva.”

“Va tanto male?”

“Peggio.”

“Il tuo ragazzo ti ha piantata?”

“Mmmm.”

“Con chi?”

“Ha importanza?”

“No,” dice Wayne. “Finisce sempre allo stesso modo: puttanelle, conti da pagare e tristezza. La gente per bene mi annoia. Perché non potrebbero volersi bene, una volta tanto, per cambiare?”

“Tu ci riesci?”

“No. E tu?”

Rido. “Sinceramente, non so, Wayne.”

“Vuoi che ce la filiamo?”

“Dove?”

“Potremmo andare a ballare. Da Nell’s... se non è già chiuso. Da qualche parte. Potremmo fare il giro della spazzatura di Manhattan, andare a sentire Bobby Short al Carlyle.”

“Non così come sei vestito.”

“Potremmo filarcela in campagna. Da te o da me?”

Wayne fa un’espessione vogliosa alla Groucho Marx.

“Prima voglio circolare un po’.”

Wayne annuisce e va in quel posticino. Mi avvicino al migliore amico di André, Lionel Schaeffer, un tale gruber yung che al confronto André sembra Percy Bysshe Shelley.

“Leila, micina,” dice Lionel. “È un sacco che non ti si vede. Cosa fai di bello?”

“E tu, che fai?”

Non avrei dovuto chiederglielo. Lionel comincia a sciorinare una litania di quello che ha comperato negli ultimi due mesi. Due società. Un capolavoro di un antico maestro. Una villa a Beaulieu. Un appartamento a Pechino (“Pechino è la città del futuro,” dice Lionel). Jon Bannenberg gli sta rifacendo il design della sua goletta, la Lion’s Share (in genere gli uomini danno alle loro barche il nome della moglie o della figlia. Lionel invece l’ha chiamata col proprio nome: una chiave per decifrare il suo carattere). “Sono a New York solo per un giorno. Domani parto per Parigi, per spassarmela con tu sai chi, poi vado a Londra per incontrarmi con Jon a proposito della mia bagnarola – il suo modo scherzosamente sprezzante per indicare la sua goletta – poi a Venezia a un certo ballo di beneficenza in un certo palazzo affittato da certi amici di Lindsay.” Lionel ha vinto la lotteria della shiksa perfetta, con questo matrimonio. Mi indica la sua terza moglie, Lindsay, una donna sui trentacinque anni che sta rapidamente diventando una copia della seconda moglie, Lizbeth, e della prima moglie, Shirley: tutte due emaciate frequentatrici di balli di beneficenza.(Che sia la fotografia la ragione dell’equazione anoressia uguale bellezza? Queste donne sono molto fotogeniche, ma di persona sembrano degli spaventosi teschi ambulanti. Significa forse che l’immagine è diventata tanto più importante della cosa stessa?)

Isadora: Sì! E tu non sarai mai abbastanza magra!

Leila: O abbastanza ricca!

“Leila!” gorgheggia Lindsay.

“Lindsay!” gorgheggia Leila, abbracciando Ms Quattrossa.

Lindsay è in abito corto, un Lacroix con gonna color ciliegia a campana, sottogonna nera e passamaneria d’oro sul bolero di velluto nero. Sembra Rossella O’Hara quando si fa un vestito con i tendoni di Tara. È di due teste più alta di Lionel, che coi suoi occhi celesti sporgenti, i capelli trapiantati e l’abito di taglio perfetto, potrebbe occuparsi di qualsiasi ramo d’affari: dal crack all’arte, dall’editoria al cinema alla finanza.

La verità è che ha fatto fortuna coi giornali, ha ereditato delle edicole dal padre, Izzy Schaeffer, che girava sempre con un omino di nome Lefty Lifshitz, armato di pistola. Izzy e Lefty non erano ignoti a Meyer Lansky, anche se a sentire Lionel parlare oggi si potrebbe pensare che suo padre fosse un concertista di violino – mito che gli piace perpetuare perché effettivamente Izzy suonava non tanto il violino quanto la gente. Lionel dà un sacco di soldi alla New York Philarmonic e alla Metropolitan Opera e ogni volta che scuce un assegno da un milione di dollari, Rogers & Cowan dedicano subito all’evento un’ampia copertura da parte dei media. L’anno scorso è stato eletto “filantropo dell’anno” dalla Manhattan Inc., ha ricevuto la Legion d’onore in Francia e l’Ordine dell’Impero britannico in Inghilterra. Queste onorificenze non sono esattamente comperate, ma è sorprendente come la gente, che pure dovrebbe saperla più lunga, sia tanto ingenua sui motivi della filantropia. Lionel e Lindsay si muovono in ambienti mondani, in cui fare donazioni di milioni di dollari alle organizzazioni culturali è di rigore, come l’abito Lacroix e la cravatta Turnbull and Asser.

Lionel apre la giacca per farmi vedere qualcosa. Dentro, sulla fodera di seta stampata a disegnini, vedo le sue iniziali L.S. e sotto una piccola etichetta che dice, a caratteri di seta: “Turnbull and Chung”. Lionel ride.

“Che te ne pare? Mi ero fatto fare trentasette completi di cachemire a Hong-Kong e li ho convinti a farmi questa etichetta, Turnbull and Chung. Non volevano assolutamente, ma alla fine l’ho avuta vinta io.” E fa il gesto universale per indicare il denaro, stropicciando insieme il pollice e l’indice.

Rido e abbraccio Lionel. È capace di scherzare su tutto, per questo mi piace.

“Se osi fare una cosa del genere alla tavola calda Principessa di Venezia, ti ammazzo,” dice Lindsay, una ex hostess di Kansas City, che non capisce lo scherzo e mai lo capirà.

“Leila, baby,” dice Lionel, “se mai ti dovessi liberare di quel tuo stallone, non rivolgerti agli estranei, d’accordo?” Guarda il mio vestito e alza le sopracciglia. “Mamma mia, che poitrine!” Lo fa davanti a Lindsay per tenerla in riga. Lei finge di non badarci, ma prima di allontanarsi mi fissa brevemente.

“A lei non piace farlo,” dice Lionel. “E tu sai che io non ne ho mai abbastanza, gattina mia. Dove vai quest’estate?”

“Nel Connecticut. A dipingere.”

“Nel tuo famoso silo fallico?”

“Esatto.”

“E lo stallone, dov’è?”

“Se ne è andato?”

“Stammi a sentire... ti chiamo, quando torno dall’Europa, d’accordo? Magari arrivo con l’elicottero fin dalle tue parti.”

“Chiamami,” gli dico. E vado in cerca di Wayne. Può darsi che abbia proprio bisogno di un miliardario volgare, vestito con abiti Turnbull and Chung. Non sarà mai peggio di Dart.

Dov’è finito Wayne? Non l’ho più visto da quando è andato in bagno.

Giro per l’appartamento sterminato, che è stato recentemente rifatto da qualche nuovo arredatore di moda, che deve avere il vizio di fare continuamente la spola avanti e indietro da Londra. Sono presenti tutte le ultime tendenze: una stanza è in mobili Biedermeier e dipinti impressionisti; un’altra è piena di importanti pezzi del Seicento in lacca e oro, con nature morte olandesi del Seicento, di uccelli morti e frutta, appese alle pareti: un’altra è piena di sedie vittoriane con le zampe di leopardo, candelieri e tavoli fatti con coma di cervo e roba del genere, e dipinti preraffaelliti. La casa è un vero pot-pourri. Sally ogni tanto dice scherzando di essersi trasferita alla porta accanto perché lei e André non andavano d’accordo sull’arredamento. Lei è per il moderno-minimalista-Bauhaus, lui per l’eccesso a tutti i costi.

Il letto, per esempio, che vedo entrando nella stanza matrimoniale che si affaccia sul verde di Central Park, un tempo appartenne a Enrico VIII. Un magnate un po’ più alto di André, non ci sarebbe entrato. Ma questo orribile letto Tudor a quattro colonne ha un baldacchino rivestito all’interno di specchi, un impianto stereo costruito nelle quattro colonnine e un televisore che sorge minacciosamente da un antico baule da marina, con fasce d’acciaio, ai piedi del letto. (Questa boîte dei media un tempo apparteneva a un marinaio dell’Invincibile Armada.)

Quando entro nella stanza da letto, vedo Wayne steso seminudo sul letto di André, mentre sta facendo alzare e abbassare il televisore, ridendo follemente. L’odore dolciastro dell’erba riempie la stanza.

“Vieni qui con me?”

“Tu sei matto, Wayne. Vado a chiamare André.”

“Chiamalo pure. Lui si aspetta che ci comportiamo da pazzi. Siamo qui per questo. ‘Fa’ una retata dei soliti sospetti,’ dice alla sua segretaria. ‘Vedi un po’ se la tsatskeleh viene in macchina dal Connecticut e se il ciclista viene in bici da Soho.’ Siamo lo spettacolo di contorno del suo circo Barnum. Sai cosa diceva Barnum?”

“No. Cosa diceva Barnum?”

“Nessuno è mai rimasto al verde sottovalutando il gusto del pubblico americano. È per questo che io gli vendo del denaro. Una volta facevo dei bei nudi e delle nature morte, bei cieli luminosi alla Turner, folli astrazioni alla Pollock. Adesso invece do alla gente qualcosa di cui conosce già il valore: soldi. Che vadano a farsi fottere. Tutta la faccenda mi fa venire il voltastomaco. Vieni a letto?”

“No, Wayne.”

“Cosa cazzo fai, lì in piedi? Dai, vieni a letto?”

“Rimettiti i vestiti e andiamocene da questo mortorio.”

“E dove?”

“Dovunque. Da Nell’s. Il giro della spazzatura. Il Connecticut.”

“Scopi con me se mi metto un cosino di gomma?”

“No.”

“E se non me lo metto?”

“Può darsi.”

Wayne ride e salta giù dal letto.

Do una controllatina al suo pene, ma chi può dire, in simili circostanze?

“Vedo che mi stai occhieggiando l’arnese,” dice Wayne.

“Già.”

“E...?”

“Francamente, mi lascia piuttosto freddina.”

“Che puttana,” dice Wayne, ridendo.

Ci dirigiamo verso il Connecticut, fuori città e tra le colline dello “Stato della noce moscata”. A lasciarsi alle spalle la città, ci si sente la testa sgombra e il cuore che balza in petto.

Wayne, mister macho, guida come un ubriaco. Anzi, è ubriaco ma non vuole lasciarmi guidare, sostenendo di non essere affatto sbronzo. Continuo a dirgli che voglio guidare e lui continua a dirmi di no. Ogni volta che si gira a dirmi di no, mi arriva una zaffata di fiato puzzolente di alcool. Tutto il suo corpo puzza di alcool e di erba: prima di diventare sobria non lo sentivo, questo odore, ma adesso mi travolge. Stomachevole.

“Fammi guidare, Wayne,” dico. “Dopotutto è la mia fottuta auto.”

“Baby, sto benone,” dice lui andando quasi a sbattere contro la barriera laterale, mentre imbocca la rampa curva che porta al Triborough Bridge.

“Fammi guidare... sei ubriaco.”

Non sono ubriaco,” dice lui con voce impastata, girandosi verso di me e andando quasi a sbattere nella cabina del pedaggio. Wayne ha quei buffi dentini che sono per tre quarti gengive. Sembrano dei Chiclets. Ha i capelli color biondo sabbia, gli occhi verdi strabici e il naso piatto e all’insù, da irlandese. Un folletto ubriaco. Penso a tutte le volte che mi ubriacavo e mi facevo con Dart, per poi fare l’amore in modo folle, e mi rendo conto di essere uscita da quel mondo, ormai, isolata dagli uomini, dal sesso e dalla sobrietà. Chissà, forse non scoperò mai più. Non posso sopportare l’odore che ha addosso quest’uomo. Trasuda odore di alcool e di erba dai pori. Come mai non me ne sono mai accorta prima?

La cocaina non mi è mai piaciuta molto, ma l’erba e il vino erano le mie droghe preferite. Per la verità, forse non erano tanto il vino e l’erba, quanto il sesso... sì, il sesso era la mia droga preferita. Il sesso cancellava il resto del mondo, per me. Il sesso era il mio oppio, il mio sedativo, il mio laudano, il mio amore. Il sesso era ciò che usavo per cancellare il dolore della vita... l’erba e il vino erano solo strade per arrivare al letto. Apri la bocca e chiudi gli occhi. Apri le gambe e chiudi gli occhi. Apri il cuore e chiudi gli occhi.

Mi torna in mente il verso di una poesia che leggevo a scuola: “Cera per ricevere e marmo per conservare”. Il cuore di Don Giovanni. Il Don Juan di Byron. Il cuore di Dart. Cera per ricevere e marmo per conservare. Non voglio innamorarmi di nuovo di Don Giovanni.

Immagino un quadro su questa intuizione, usando materiali di marmo – falso marmo – e cera vera. Si potrebbe intitolare Don Juan e tratterebbe tutte le variazioni sul tema. Il cuore di marmo. Il cuore di cera. Il cuore senza cuore, spietato.

Ma anch’io sono una Donna Giovanna, penso, e Dart era una specie di vendetta karmica, la vendetta per la mia stessa volubilità in amore. Vivevo per il sesso, per innamorarmi dell’amore, per spezzare (o perlomeno per collezionare) cuori... e Dart è stata la vendetta divina. Quello che dai, ricevi, dicono nel Programma. Dart era la manifestazione visibile della mia stessa dipendenza.

Gesù. Wayne è quasi andato a sbattere contro un lampione. L’auto scoperta, l’autista sbronzo... potrei anche morire. O peggio ancora potrei restare menomata e invalida. Ho due gemelle da crescere, del lavoro da fare.

“Ferma immediatamente l’auto.” (Ah, la mia mente sana non mi ha del tutto abbandonata!)

“Dai, piccola, non seccare,” dice Wayne e va di nuovo quasi a sbattere contro il guard-rail. “Sto perfettamente bene.”

Mi aggrappo al sedile terrorizzata. Sbandiamo a destra e a manca, descrivendo pigri serpenti intorno alla riga bianca della mezzeria.

Sono paralizzata. Ecco la voce dell’autorità maschile che mi dice “di non seccare”.

“Non seccare, Leila.” Una volta era divertente. Ubriaca, salivo su un sacco di auto che sbandavano e pensavo che fosse divertente. Non lo è affatto.

“Ferma l’auto, Wayne.”

“Conosco un posto,” fa lui. “Lascia che ti porti in quel posto che conosco.”

E continua a sbandare. Cerco di prendere il volante, ma lui si libera con uno strattone. L’auto ondeggia da un lato all’altro della strada, mentre noi due lottiamo.

Non so se è più pericoloso resistere o non resistere.

“Va bene, portami nel tuo posto,” dico.

Wayne guida come un pazzo verso Westchester, fa stridere le gomme su strade secondarie, finché non trova un piccolo locale immerso nel fogliame della sera estiva.

Parcheggia l’auto di sghembo, come capita, intasca le chiavi, mi abbraccia e mi pilota dentro.

Jukebox strepitante. Gente che beve. Ragazze al bar che alzano gli occhi su di noi appena entriamo.

“Salve, ragazze,” dice Wayne sdolcinato. “Volete scopare un vero artista?”

Le ragazze non sembrano molto impressionate.

Wayne trova uno sgabello al banco in mezzo alle bellezze – tre ragazzine i cui anni messi insieme sono meno dei miei, penso con una fitta al cuore. (Non è vero, naturalmente, ma da sobria mi sento una specie di vecchia marinaia.)

Vado nella toilette delle signore, lasciando Wayne beato tra le belle. Faccio pipì, mi lavo, mi aggiusto il trucco. Mi do una lunga occhiata nello specchio. Il mento sta cominciando a afflosciarsi un po’ e i cerchi sotto gli occhi sono più marcati. Mi sento vecchia. La mia spavalderia mi ha portato fin qui, ma ora mi chiedo se la spavalderia basti. Vorrei tanto qualcuno che mi coccolasse, si occupasse di me. Mi sembra di sbattermi in giro da sola ormai da anni. Ah, cosa non darei per un uomo che si prendesse cura di me, un paparino al quale andare a raccontare i miei guai... non sarebbe dolce, tanto per cambiare? Qualcuno che mi comperasse un Rolex d’oro, o un abito da cowboy o un’auto?

Mio padre non è mai stato un tipo del genere, anche quando c’era. Il ricordo più tenero che ho di Dolph è di quando mi faceva gli uccellini Origami o plasmava l’argento come caramella mou per farmi qualche gioiellino.

Quando mia madre morì, ho trovato una delle spille di mio padre a impolverarsi nel suo portagioie. C’erano le mie iniziali a lettere d’argento intrecciate in un cuore d’argento. Louise Zandberg, nota anche come Leila Sand. Cera per ricevere e marmo per conservare. Come il ricordo di mio padre. Oh, sono i nostri paparini che ci legano a tutte le nostre schiavitù, premendo nelle nostre mani di bambine il pacchetto dell’amore drogato. Papà! va e viene. Scappa. Lascia mammina e figlioletta e lei molto tempo dopo brama sempre l’uomo che fugge come un dardo.

Esco dal bagno e torno al bar. Wayne è circondato da belle ragazze e flirta. Col braccio intorno alle spalle d’una ricciolina rossa sui diciotto anni, che ride, ride e fa cin cin col bicchiere con lui, senza badare al fatto che puzza di alcool e guida come un pericolo rosso.

Mi avvicino, siedo anch’io al bar e sento Wayne che dice alla ragazza di chiamarlo a New Yok e le scribacchia il suo numero di telefono su un tovagliolino di carta umido. Un’altra ragazza, accanto alla prima, mi guarda per un po’ avidamente, poi fa: “Ehi, ma io ti ho visto in televisione. Non facevi quei quadri enormi del tuo ragazzo o qualcosa del genere?”

“Mi devi scambiare con qualcun’altra.”

“Macché. Non dimentico mai una faccia, io. Tu avevi quel bel ragazzo e lo fotografavi. C’era un programma su di te in televisione. Ehi, ma è fantastico. Ehi, Liza, ehi, Jennifer.” Si gira verso le due amiche. “Questa ragazza è fantastica! Fotografava quel fusto in costume. Dov’è adesso lui? Era così carino.”

“Se ne è andato per la strada degli uomini carini.”

“Ma allora eri proprio tu. Accidenti. Sei fantastica. Quanto vorrei fare anch’io l’artista!”

Wayne sembra seccato di non essere più il centro dell’attenzione.

“Ragazze, non mi amate più?” Fa il broncio.

“Posso chiederti una cosa?” È Jennifer, la ragazza coi lunghi capelli neri sulla schiena e un miniabitino di garza, a parlare.

“Certo,” dico.

“Perché ci innamoriamo sempre dei bastardi? Voglio dire, c’è qualcosa nel loro essere bastardi, che ci eccita?”

Rido. “La prima donna che saprà rispondere a questa domanda verrà fatta santa!

“Ma tu ti innamori dei bastardi?” dice la sua amica Liza, quella coi capelli biondi lisci e un visetto da angelo scandinavo.

“L’ha appena detto,” la interrompe Jennifer. “È proprio come noi.”

“È quella che una mia amica inglese definisce La grande questione dell’uomo malvagio,” dico con un caricato accento inglese. “ ‘Più bastardi sono, più noi ci scaldiamo,’ dice la mia amica.”

Le ragazze mi guardano in attesa di una risposta.

“Ma non ti fai mai furba?” chiede Jennifer.

“Dipende,”dico.

“Da che cosa?” chiede Liza.

“Dal fatto se alla fine capisci o no che il Grande Paparino non torna a casa e che devi farti tu da Paparino.”

Le ragazze mi guardano con gli occhi spalancati, piene di reverente ammirazione.

“E come si arriva a questo punto?” chiede Jennifer.

“Quando ci arriverò, te lo dirò,” dico infilando una mano nella tasca di Wayne per riprendermi le chiavi dell’auto.

Lui crede che lo stia palpeggiando, così fa una specie di espressione alla Piero il fortunato. Poi capisce che sto solo riprendendomi le chiavi dell’auto.

“Devo prendere una cosa dal cassettino,” dico. “O dal cazzettino, come lo chiamo io.”

“D’accordo, piccola,” dice Wayne, pensando che ci sia in vista qualcosa di sessuale.

Prendo le chiavi, esco dal locale, salgo sulla DART, avvio il motore e parto per il Connecticut da sola. Wayne può trovare la strada di casa con le sue bellezzine o meno. È affar suo.

Può darsi che nessuno mi scoperà più finché campo, ma almeno vivrò... e questo, per ora, mi sembra già abbastanza.