12

Il milionario per bene

Ho una Cadillac Eldorado
con la ruota di scorta sul dietro.
Ho un conto corrente da Goldblat
ma non ho te.

Calvin Carter

Danny Doland di Dallas aveva una Porsche. Danny Doland di Dallas era alto, grasso, cinquantenne, divertente e assolutamente ricco sfondato. Danny Doland era la risposta alle preghiere di una ragazzina di dieci anni.

“Sposalo,” disse Mike.

“Sì, mami,” disse Ed.

Venni presentata a Danny Doland in occasione di un appuntamento alla cieca. Da un mio ex innamorato, di nome Tyler Levinsky, che aveva appena sposato la shiksa dell’anno. (Un altro: la categoria è affollata.) Tyler era asciutto, cinquantenne, ricco (anche se non ricco come Danny Doland) e si occupava di antiquariato. Voleva vedermi convenientemente sposata con uno dei suoi amici, in modo che potessimo fare gite in quattro e lui avesse modo di fare ogni tanto una visitina nel mio letto. Fu senza dubbio per questo nefando motivo che mi presentò al suo socio, Danny, che collezionava di tutto, dall’arte importante ai libri rari, ai grossi pezzi d’antiquariato, ai vini pregiati ed era disposto a considerare l’idea di acquistare anche me. Non ho mai pensato che ci fosse qualcosa di strano nel fatto che una persona appena disintossicata si innamorasse di un collezionista di vini. Perché no? pensavo. Potevo benissimo resistere a tutti quegli châteaux dai nomi altisonanti. E Danny era intelligente, generoso, texano e un grande parlatore. Prima di diventare antiquario, aveva fatto l’editore a Londra. (Il suo denaro era di vecchia data – vecchia per il Texas, almeno – ereditato e ancora verde.) Era colto. Era spiritoso. Aveva pubblicato premi Nobel e romanzieri da strapazzo e sapeva fare divertenti imitazioni degli uni e degli altri. (Per esempio, si drappeggiava in una stola di leopardo e faceva Jackie Collins. Oppure imitava alla perfezione la monotona cantilena di Isaac Singer.) Come se queste credenziali letterarie non bastassero, aveva una splendida tenuta nei Berkshires, un tempo di proprietà di un amico di Edith Wharton – una villa all’italiana vicino a The Mount, chiamata Lunabella. Lunabella aveva la sua serra, la sua piscina coperta (che comunicava con la piscina scoperta mediante un passaggio segreto), la sua sala da ballo (con il soffitto a volta dipinto come un cielo stellato). Edith Wharton ci aveva invitato Mr Fullerton, ma lui non c’era mai andato.

Danny Doland di Dallas era la mia ultima possibilità di salire a due a due sull’arca con l’argenteria. Danny Doland di Dallas era il mio ultimo tentativo di normalità. Se ero finita nei guai cercando il mio dybbuk, il mio amante-demone, allora sarei stata certo al sicuro con questo corpulento borghese per bene, che aveva aste da Sotheby’s e suite al Claridge, che dava cene per otto (alle otto), prima delle quali faceva veramente le prove delle sue battute e sui segnaposti scriveva frasi insultanti ma lusinghiere sugli ospiti, come in quelle feste in cui l’ospite d’onore alla fine viene lodato e insieme bonariamente insultato dai presenti.

Non fraintendetemi, ero follemente innamorata di Danny Doland. Non sono, ne sono mai stata, una cinica avida cacciatrice di denaro. Quando Danny e io ci incontrammo a quella prima cena nei Berkshires, a Wheatleigh, in una calda serata estiva, i nostri sguardi si incrociarono e capitolammo.

I suoi occhi erano d’un azzurro slavato, piccoli e scintillanti. Era calvo, col doppio mento e un gran pancione, mimetizzato dalla sua altezza – meno che a letto. Portava bretelle gialle e cravattino rosso. Aveva un bastone con l’impugnatura d’argento, che a volte faceva roteare. Portava boxer di seta col monogramma DD ricamato su una gamba. A volte portava anche le ghette. Nella mia mente contorta, tutte queste cose erano in qualche modo sinonimo di sicurezza. (Non ero abituata a uomini che portassero mutande, tanto meno mutande fatte su misura.) Avevo avuto un pupattolo goy e Danny Doland non era il pupattolo di nessuno. Non sapevo certo che Danny Doland avesse anche lui la mano sui comandi come Dart – anche se in un altro senso.

A quella prima cena, la nostra fitta conversazione cancellò il resto del mondo. Danny amava l’Italia, Turner, Blake; collezionava i miei fotogrammi. Pronunciava “business” come fosse “bidness” e importante come fosse “importante”. Seguiva da anni il mio lavoro e possedeva uno dei miei primi dipinti di cui avevo perso le tracce. Mi passò come un lampo per la testa l’idea che avrei potuto riaverlo sposando Danny. Ma anche senza questo, mi sarei innamorata di lui per il suo fascino fatale. Perché Danny era divertente, tenero e pieno di calore. Era come andare a letto con una tazza di cioccolata calda. Dopo cinque anni in cui ero andata a letto con un autodafé, sembrava attraente. Andai a Lunabella con Danny e finii nel suo letto.

Cioccolata calda. Anche le immagini che usavamo a letto, avevano a che fare col cibo.

“Voglio versarti sciroppo al cioccolato sul cazzo e leccartelo via,” gli dicevo.

“Dovrai prima battermi sul tempo,” diceva Danny (senza però spiegare come avrebbe fatto a piegarsi fin lì).

In un’epoca di uomini che rifuggivano da ogni genere di impegno, Danny era l’opposto. Mi regalò un gioiello al secondo appuntamento (una spilla art déco: “Siamo fidanzati,” disse), mi chiese di sposarlo al terzo e al quarto mi regalò un’agenda filofax di pelle d’elefante col suo nome (o le sue iniziali) scritte accanto al pranzo e alla cena su tutte le pagine. Progettava safari in Kenia e castelli in affitto sul Reno. Mi avrebbe comperato il piano nobile di un palazzo sul Canal Grande, e un motoscafo per arrivarci. Mi avrebbe costruito una follia stile italiano a Lunabella, per farci il mio studio. Mi avrebbe comperato una Aston-Martin per andare nella sua casa di campagna e una Silverado per andare al suo ranch nel Texas. Penso che la mia dea me lo avesse mandato per mettere alla prova la mia risolutezza, perché dopo questa incredibile azione incalzante a tutto campo, Danny Doland si ammosciò. E ora arriva la parte più strana della storia: la cosa non mi preoccupava più di tanto. L’impotenza, dopotutto, è una garanzia contro l’AIDS. E poi, avevo appena avuto una relazione basata sul sesso bruciante e sapevo che questo non risolveva tutti i problemi. Forse avevo avuto già abbastanza sesso in vita mia ed ero destinata a trascorrere gli anni del mio declino alle aste. Ma a Danny Doland invece importava, eccome. Era distrutto dal fatto che io fossi a conoscenza del suo segreto sessuale.

E da quel momento, cominciò a vendicarsi con me.

Fu una cosa molto sottile, all’inizio. In principio, quando il nostro accordo era perfetto – dappertutto meno che a letto – progettavamo nozze, restauri e acquisti: l’amore negli anni ottanta non era forse solo il preludio all’acquisto di una proprietà immobiliare? E nelle classi più alte, di opere d’arte?

Danny Doland fece disegnare da un architetto una follia che sarebbe dovuta essere il mio studio a Lunabella. Questo studio era identico al corpo principale della casa, solo che era nascosto in un fitto di alberi e non aveva finestre.

Di sicuro si trattava di una svista. L’architetto sicuramente non pensava che io dipingessi in una casa priva di finestre.

Ma Danny Doland aveva i suoi buoni motivi. I lucernari del tetto avrebbero fornito tutta la luce necessaria. E le “finestre” sarebbero state copie di finestre in calcare e marmo.

“Ma perché?” chiesi.

“Così possiamo tenere l’intera struttura sotto controllo climatico, tesoro. Per conservare le opere d’arte.”

“Ma se non posso guardare fuori e vedere il cielo e le montagne, come faccio a creare l’arte?”

Danny Doland mi guardò coi suoi occhietti azzurro pallido, dello stesso colore dell’oxford per camicie.

“Dolcezza,” disse, “avremo una perfetta luce da nord controllata dai lucernari con schermi azionati elettronicamente. In questo modo avremo sotto controllo la galleria con le opere tue e dei maggiori artisti contemporanei, come Graves, Bartlett, Schnabel, Sherman, Natkin, Frankenthaler, Twombly, Johns, chiunque piaccia a te, la tua collezione personale – e di sopra potrai dipingere in condizioni che garantiscono che il tuo lavoro non si deteriorerà mai. Ma pensaci, tesoro!”

Mi immaginai mentre cercavo di dipingere in un mausoleo senza aria, senza canto d’uccelli, senza la farfalla (o la vespa) che di tanto in tanto si posava sul mio lavoro in corso, e rimasi inorridita. Era la vita, in definitiva, quello che Danny pensava di escludere, in nome della conservazione dell’arte. Ma come potevo creare l’arte senza la vita che le infondesse forza?

Al sesso potevo anche rinunciare. Ma potevo rinunciare anche all’aria?

Isadora: Adesso lo dici!

“Caro, devo avere almeno una finestra che si apra,” dissi.

“Ne parlerò con l’architetto, dolcezza,” disse Danny, “ma posso dirti fin d’ora che dirà che è una cattiva idea. Sei mai stata alla Beinecke Library?”

“Ma certo, amore. Ho studiato a Yale, ricordi?”

“Certo che ricordo, dolcezza. E devi ricordare quanto sia vitale tenere l’aria sotto debito controllo.”

“Ma io voglio dare intensità all’aria, liberarla da ogni controllo, voglio che turbini intorno agli occhi dello spettatore, voglio che l’energia shakti balzi fuori dal quadro e cambi la tua vita...”

“Che idea romantica, tesoro. Senti... tu dipingi con tutto il tuo cuoricino e lascia che sia io a preoccuparmi di conservare l’opera, d’accordo?”

Pensai al marito di Elisabeth Vigée-Lebrun, che aveva speso tutti i soldi che lei aveva guadagnato come pittrice alla corte di Maria Antonietta.

La Rivoluzione francese, la tua migliore amica e il tuo soggetto preferito decapitata en famille, e all’improvviso scopri che tuo marito ha speso tutto il tuo gruzzolo! Senza un soldo, te ne sei andata nel 1789... che anno, per andarsene da casa senza un soldo! – in giro per le corti d’Italia, Austria, Germania, Russia, ricostruendo di nuovo la tua fortuna, dipingendo paesaggi. In Francia, continua il bagno di sangue. Il tuo ex marito, che potrebbe anche esser Danny Doland, s’è messo a navigare secondo il vento che tira e fa il battitore d’asta per il nuovo governo. Torni a casa nel 1802, rifiuti di incontrarti col dannato piccolo Napoleone e riparti immediatamente per l’Inghilterra, dove Sir Joshua Reynolds, che detta il gusto dell’epoca, acconsente a lodarti, anche se sei una donna. Eccoti di nuovo a Parigi, a dipingere alla corte napoleonica, pubblichi i suoi Souvernirs e muori a ottantasette anni. Che vita! Se Vigée-Lebrun è riuscita a cavarsela durante la Rivoluzione francese, perché dovrei gettarmi alla cieca tra le braccia di Danny Doland?

“Caro,” dissi, “hai mai letto le memorie di Elisabeth Vigée-Lebrun?”

“Lebrun? Lebrun? E chi era costei, tesoro?”

“La pittrice di corte di Maria Antonietta, e poi alla corte di Napoleone... una pittrice che visse del suo pennello e riuscì a sopravvivere in tempi molto difficili.”

“Non faceva quei ritratti femminili tanto carini?”

“Mmm,” risposi io, decisa ad avere le finestre e l’aria pura.

“Senti tesoro, lascia che tratti io con l’architetto e tu pensa a dipingere. So cosa è meglio per te, dolcezza. Non hai già avuto abbastanza fatiche, nella tua piccola vita? Ora, dolcezza, hai bisogno di qualcuno che ti protegga, che si prenda cura dei tuoi affari, in modo che tu sia libera di creare. Io sono bravo in questo, tesoro. E mi darebbe un tale piacere!”

Mi struggo, davanti a questo tono così dolce e affettuoso. Del resto, il modo di parlare di Danny mi ha sempre fatto struggere. Con quel suo buffo miscuglio di Dallas e Londra, il suo modo di parlare è stata la prima cosa di cui mi sono innamorata. Questo e la sua statura.

“Come può un uomo così alto e così ricco non desiderare di proteggerti?” mi chiede la mia mente sana.

“Penserò a un modo,” dice la mia ossessione.

Quanto alla protezione, la voglio, naturalmente... non la vogliamo tutte? E chi può volerla più d’una vagabonda cronica, una transfuga, come dicono in Inghilterra? Non si può sempre vivere nel trambusto. Non si può essere sempre sole. Vado ad abbracciare Danny Doland, ma lui mi respinge.

“Benissimo, allora è deciso, tesoro.”

“Purché non ti aspetti che io dipinga in un mausoleo,” dico.

“Chi ha mai parlato di un mausoleo?” chiede Danny. Ma capisco che nel suo dolce modo si è offeso e sta accumulando un altro motivo di rancore per il futuro.

Dopo questo contrattempo, Danny cominciò a eliminare completamente ogni contatto fisico.

La cosa ebbe inizio in modo piuttosto innocente. Avevo notato che ogni volta che Danny e io passavamo la notte insieme a Lunabella (non stavamo mai a casa mia), lui dormiva sopra le coperte se io stavo sotto e si teneva le mutande se io ero nuda.

Una cosetta da nulla, in fondo. Di cosa ci si poteva lamentare? Eravamo amanti adulti, di mezza età. Avevamo le nostre abitudini, la nostra vita, la nostra casa e i nostri figli. (Lui aveva un figlio a Choate e l’altro a Le Rosay). Ma evidentemente Danny Doland non mi voleva stringere tra le braccia. Le parole di A Fine Romance continuavano a ronzarmi nella testa.

Una sera d’estate, raccolsi tutto il mio coraggio e gliene parlai.

“Non sono molto bravo ad abbracciare,” disse lui. “Non me ne fare una colpa, tesoro.”

Certo un’osservazione provocatoria da fare alla tua fidanzata, alla tua nuova amante, all’amore della tua vita. Ma cercai di essere matura e di non reagire.

“D’accordo,” dissi a Danny. “Non siamo obbligati a stare appiccicati a filo doppio. Va bene, tesoro.” E mi girai, andai a dormire e feci ardenti sogni erotici su Dart. (Dormendo con Danny, sognavo sempre Dart.)

Quando questa manovra di distanziamento non funzionava, Danny alzava la posta.

Una sera portò a casa pigne di videocassette erotiche (con titoli come Lussuria a Las Vegas, o Verginella fa carriera a Los Angeles, oppure Follie di cuoio) e propose di guardarle. Io ero dispostissima. Avevo ancora tutti i reggicalze e l’attrezzatura varia che avevo comperato per Dart, quando la sobrietà lo aveva reso impotente, e non avevo niente in contrario a portarli a Lunabella. Indossavo reggicalze e mutandine di pizzo nero anche quando le mie compagne della cabala d’arte femminista li consideravano un tradimento e ora che quelle bardature erano diventate chic, non ci vedevo nessun male. Gli uomini reagiscono agli stimoli visivi, pensavo. Non sono evoluti come le donne.

Così, mi agghindai tutta in pizzo nero, poi mi misi con Danny a guardare Verginella fa carriera a Los Angeles, un porno con un livello di produzione stranamente buono in cui si vedeva l’ingenua verginella che lo faceva con una serie di pupattoli goy a Malibu, Santa Monica, Bel Air, Beverly Hills.

Ero sbalordita. Il video voleva farci credere che la verginella, la giovane starlet, riusciva a fare carriera nel cinema, facendo pompini a produttori, direttori del cast e pezzi grossi dello studio (uno dei quali somigliava moltissimo a Dart), quando sanno tutti benissimo che lusinghe del genere sono troppo comuni nel mondo del cinema per influire minimamente sulla carriera di chicchessia.

La pornografia in fondo è molto innocente. Presume che ci sia una specie di giustizia sessuale a questo mondo. E ogni volta che gli sceneggiatori sono a corto di idee, aumentano il numero dei partecipanti nel letto: fallacità numerica.

Danny era molto eccitato dalla Verginella. Io no. Non molto. Ma ero eccitata dal fatto che Danny fosse eccitato. Di solito mi ci volevano secoli di lavoro con la lingua e le dita, la saliva e il baby oil, per riuscire a fargli avere una specie di erezione. Ma questa volta Danny scattò subito in azione. Entrò dentro di me. E si ammosciò.

Di nuovo Verginella. Di nuovo baby oil. Schiena a schiena e ventre a ventre. Danny e io continuiamo a provarci... finché, alla fine, esausti, ci addormentiamo.

Diventai un’esperta di pomo video. Cominciai a pensare di fare un quadro sui porno video in onore della mia relazione con Danny. Non ero ancora disposta a rinunciare, ma pareva che lui invece lo fosse.

“Mi sento sopraffatto da te, dolcezza,” mi disse finalmente una notte a Lunabella. “Tutta la tua insistenza per la felicità coniugale...”

“La mia cosa?”

“La tua insistenza per il matrimonio. E tutta la tua pressione sessuale, dolcezza. Mi sento sopraffatto.”

In quel momento mi sentivo piuttosto sopraffatta anch’io.

“Danny,” dissi, “sei tu che hai insistito per il matrimonio, non io. E sei tu che hai fatto del sesso un problema capitale. Io sono soddisfattissima di te. Ti amo...”

“Inadeguato come sono...”

“Io ti amo. E non ti trovo affatto inadeguato. Forse sei tu, che pensi di esserlo.”

“Lascia perdere queste balle psicologiche, tesoro.”

“Tesoro,” dissi, “non voglio bisticciare con te. Smettila. Per favore smettila ora, prima che tutt’e due diciamo cose che poi rimpiangeremmo.”

“Tu pensi che il sesso sia importante, tesoro; io semplicemente no.” Tutte le coppie hanno un argomento sul quale tornano in continuazione. E quello era il nostro. Lo avevamo trovato subito e non ce ne scostammo mai.

“Bene, il sesso è importante,” dissi, “ma non è l’unica cosa che conti tra due persone. Per favore, non bisticciamo.”

“Tu pensi che il sesso sia la cosa più importante tra due persone. Tu lo pensi. Ammettilo. E io non sarò mai lo stallone cui tu eri abituata. Avrei dovuto incontrarti quando avevo vent’anni.”

“Io non voglio lo stallone cui ero abituata, Danny. È per questo che l’ho buttato fuori.”

“Tu senti la sua mancanza, tesoro. Ammettilo. Ti manca.”

“Questa conversazione è ridicola.”

“Ammettilo, dolcezza.”

“Non voglio fare questo discorso.”

“Ammettilo.” Danny si alzò, cambiò il video, si mise le mutande e sprofondò nel letto. Rimase là steso, sotto il peso del suo pancione tremolante. Un nuovo filmetto apparve sullo schermo. Lussuria a Las Vegas. Uno dei croupier somigliava terribilmente a Dart. Avrei giurato che era Dart. Ma come diavolo poteva aver fatto una carriera nel cinema così fulminea? Un giorno però sarebbe successo, un giorno sarei stata a letto con un Danny impotente e sullo schermo avrei visto Dart che faceva l’amore con delle puttanelle in un porno film. Era inevitabile. Giustizia ideale.

Guardai Lussuria a Las Vegas, come se ne andasse della mia vita. Era Dart o era un’illusione? Granada o Asbury Park? Stavo impazzendo? Cosa era successo alla mia mente sana?

Danny intanto aveva cominciato a masturbarsi col baby oil e con l’immagine di Dart (o del suo sosia) come aiuto visivo. A Fine Romance, un bel romanzo davvero. Cosa avrebbe fatto Fred Astaire? Lui si masturba; lei sta seduta con gli occhi incollati al video del suo ex amante (o del suo sosia); e il mondo intero pensa che l’abbiano fatto fare loro.

Danny si masturba con aria provocatoria, come per dire: chi ha bisogno di te? Quando ha finito, mi guarda per avere la mia approvazione.

“Sesso sicuro,” dico, e scendo in cantina.

La cantina di Danny è una meraviglia. Fotografata da Architectural Digest, con i fari che illuminano i contenitori di vino e l’umidità perfettamente controllata, la cantina sta sotto Lunabella come il diamante grosso come il Ritz stava sotto il castello incantato di Scott Fitzgerald. Gironzolo per la cantina, come Teseo nel labirinto, osservo le varie bottiglie di Bordeaux rari e scelgo un Mouton del 1945 per ubriacarmi. Col cuore che galoppa stappo il vino come mi ha insegnato Danny, prendo un bicchiere dal bar della cantina, verso, faccio roteare il liquido rosso rubino sul fondo del bicchiere, annuso e il nettare arriva sul mio palato fino.

Si sarebbe potuto dire che durante le settimane con Danny non avevo bevuto. Be’, non esattamente. Ma ho assaggiato, annusato e imparato varie cose su aroma, bouquet e retrogusto. (Della mia storia con Danny più tardi avrei detto: “Buon aroma, ma pessimo retrogusto.”) E non ho frequentato le riunioni dell’AA. Posso controllarmi da me, ho deciso. È quello che nel Programma viene definito “atteggiamento presuntuoso”.

Ma erano tutti così contenti della mia relazione con Danny: André, il mio gallerista; Sybille, la mia analista; le gemelle; la loro madrina buona, Lily. Perché? Perché Danny è ricco. Perché è di Dallas. Perché ha una villa su tutt’e due le sponde dell’Atlantico (per non parlare dei suoi vari appartamenti). Perché mi regala gioielli (e porno video). Perché finalmente ho un milionario per bene, come si addice alla mia condizione di artista famosa. Nessuno pensa che sono una bevitrice che si è innamorata di un collezionista di vini per copertura. Nessuno, eccetto Emmie. Però in questo periodo evito Emmie. Non le telefono più, da quando mi sono innamorata di Danny Doland. E lei, sapendo che io devo toccare il fondo a modo mio, ha chiamato di tanto in tanto, ma senza insistere. Vorrei quasi che l’avesse fatto.

Solo un sorso, penso, col naso già nel bicchiere di vetro Tiffany. Poi un altro. E un altro. E poi tutto il bicchiere.

Che sapore ha, dopo tutte queste settimane di astinenza? Metallico, dolce, aspro, come il liquore per un ragazzino. Sento in testa il ronzio, la sensazione greve, densa che precede la sbornia, ma niente clic. Giro per la cantina leggendo le etichette, col bicchiere in mano.

Ecco gli châteaux di Pomerol: Pétrus, Trotanoy, Lafleur, La Conseillante, Rouget, Le Gay, Bon-Pasteur, Petit-Village, Clos René, La Violette, La Croix-de-Gay... Ed ecco i castelli di Margaux e Médoc: Palmer, La Lagune, Malescot Saint-Exupéry, La Tour-de-Mons, Paveil de Luze, Camuet... E di Graves: Haut-Brion, Domaine de Chevalier, Carbonnieux...

(Non è tanto il vino a ubriacarmi, quanto questi bei nomi francesi, che mi scivolano sulla lingua ancora più in fretta del vino.)

Gli châteaux di Pauillac: Latour, Mouton-Rothschild, Lafite-Rothschild, Pichon-Longueville, Comtesse de Lalande... Di Saint-Emilion: La Tour-Figeac, Troplong-Mondot, Couvent-des-Jacobins, La Clotte, Ripeau, Villemaurine... (Non siamo ancora usciti dal Bordeaux, e sono già brilla.)

Giro tra le etichette, pensando ai grandi castelli della Francia, ai bei fiumi serpeggianti, alla Loira, al Reno scintillante, al sole che splende sugli otri di Bordeaux. Claret, lo chiamano gli inglesi, come se desse chiarezza. In vino veritas, come se bere portasse la verità. Ma a me porta solo lacrime. Piango e bevo, stesa sul pavimento freddo della cantina, e continuo a scolare la bottiglia. Il disegno dell’etichetta mi invita a entrare in un mondo di châteaux e fiumi scintillanti, di fredde cantine e sole caldo. Ma qui, per terra, sono come sospesa nel tempo e vedo tutte le parti della mia vita mescolate alla rinfusa, come in un caleidoscopio.

Il silo d’argento. L’abito anni venti di raggi di luna. Il cazzo di Dart. La lettera di Dart sul tempo e l’eternità. I corpicini delle gemelle odorosi di cioccolata. Dolph, Thom, Elmore, Dart, Danny. La mia mente vola, come un tempo con la marijuana – notti in bianco, sveglia accanto a Dart, dopo tanto fare l’amore. (L’erba lo faceva dormire, mentre teneva sveglia me: un paradosso, per una coppia così ben assortita.) Ecco dove mi ha condotto la mia egira: in una cantina sepolta sotto un seminterrato dei Berkshires, a bere claret e a sentirmi triste?

Mi alzo barcollando, giro per la casa, passando in rassegna i tesori di Danny; la sua collezione d’arte (opere di Monet, Modigliani, Warhol, Sand), la sua collezione di cristalli (Lalique, Galle), i suoi pezzi d’antiquariato (Regina Anna, Giorgio I, Biedermeier). Penso alla mia vita, come a un pezzo di questa collezione. Cene con barzellette preparate. La collezione d’arte giusta. La gente giusta. Aria controllata climaticamente, battute, vino, quadri. Penso di nuovo a Elisabeth Vigée-Lebrun, alla Rivoluzione francese, all’anno 1789, a vivere fino a ottantasette anni! Gli artisti possono essere incredibilmente longevi. Potrei avere altri quarantaquattro anni di pittura. Dovrò proprio passarli a dipingere senz’aria pura?

Puah! penso. La figlia di Dolph torna a casa.

In reggicalze e calze di seta, con sopra una vestaglia di seta e a piedi scalzi, parto nella notte sulla DART, senza patente, senza denaro, senza niente.

Corro in piena notte attraverso i Berkshires, col mio abbigliamento da film pomo, sentendo l’aria estiva fresca sulle mie guance brucianti, cantando La mia bella se n’è andata, a squarciagola.

Finché lo vedo nello specchietto retrovisore, Darth Vader sulla sua moto, l’uomo mascherato, il mio dybbuk, il mio amante-demone. Non è andato affatto a Hollywood. Mi sta seguendo! Proprio qui, nei Berkshires, vuole raggiungermi e farmi sua sul ciglio della strada. Il mio cuore diventa leggero. La fica mi si inumidisce. Ah, Dart, lo sapevo che saresti tornato! Il fascio di luce del faro della sua moto trapassa il mio portabagagli. La sirena trafigge il mio cuore.

La sirena? Da quando Dart ha una sirena?

Darth Vader sfreccia a lato della mia auto e cerca di costringermi ad accostare. Scherzo un po’ con lui, in un’allegra caccia su per la collina e giù per la valle, sempre più eccitata mentre la sua sirena urla e urla. Alla fine mi costringe a sterzare e a uscire di strada, sul ciglio morbido.

“Dart!” grido, ma le parole mi muoiono in gola. Perché il poliziotto motociclista somiglia molto a Dart... come il croupier e il regista della porno-star.

“Patente, signora,” dice il poliziotto, guardando il mio esiguo abbigliamento.

“Ooops!” faccio io. “Non ci crederà, agente, ma ho fatto giusto un salto in farmacia a comperare dei pannolini per il mio bambino, che ha la diarrea.”

Il poliziotto evita di guardarmi negli occhi.

“Per favore, mi mostri la patente, signora,” dice il sosia di Dart, sbirciandomi la scollatura. Mi viene l’idea da sbronza di slacciargli la cerniera e prenderlo lì, seduta stante. O sarebbe considerato tentativo di corruzione di pubblico ufficiale?

Isadora: Si può sapere perché ogni volta che la nostra eroina si trova in presenza di un pubblico ufficiale, riesce solo a pensare di succhiargli il cazzo?

Leila: Chi è adesso, a usare quella parola?

Isadora: Non cavillare sul vocabolario. Rispondi alla domanda.

Leila: Perché il sesso non è mai una cosa distinta dalla politica.

Isadora: Andiamo, finiscila. Questa non è la Terra della Scopata. Qui si tratta semplicemente di una multa per eccesso di velocità.

Leila: Che la mia omonima (e tua alter ego) spera di evitare. Finché una donna è giovanile e nubile, desiderata dagli uomini, non può resistere all’idea di giocare la sua ultima carta vincente.

Isadora: Quel nome non è soggetto a copyright?

Il resto è storia (la storia è donna, si diceva negli anni sessanta). Pizzicata nella cittadina del Massachusetts di New Egremont, dalla polizia di New Egremont, incriminata per eccesso di velocità, abbigliamento indecente, ubriachezza e altri delitti del puritano New England, messa in libertà dietro cauzione pagata da Danny e André, in loco parentis, e rimandata, con vergogna, al mio silo. Per un pelo non sono stata protagonista di un titolo in prima pagina del New York Post, solo perché era una giornata molto calda nel medioriente, ma il mio nome è uscito comunque in un trafiletto sul Time: “Incriminata per guida in stato di ubriachezza, la famosa pittrice Leila Sand si è dichiarata colpevole di guida pericolosa.” Al volante in stato di ubriachezza, dicono nel Programma. Al cavalletto in stato di astinenza: ecco il rischio che correvo sposando Danny. Un altro tipo di prigione.

Dichiarata colpevole, con sospensione della patente, tornai al mio silo come se fossi agli arresti domiciliari.

Danny sparisce. Emmie ricompare. Lei, Lily e Natasha e Mike e Ed si rendono garanti per me. E la polizia permette che invece di andare in un istituto di riabilitazione, mi sottoponga alle cure della dottoressa Sybille Panoff di Cornwall Bridge, Connecticut, che tra le altre qualifiche ha anche una laurea in Terapia della famiglia e Cura dell’alcolismo e della tossicodipendenza.

Salvata un’altra volta, ma perché? Dove sono ora le mie menadi e il cristallo? E dov’è, dov’è la mia mente sana, quando ne ho più bisogno?