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Spiritus contra Spiritum

È una lunga strada, ma so
che troverò la fine.

Bessie Smith

La casupola di Sybille, col tetto di stoppie e la cigolante ruota del suo mulino, era la perfetta scenografia per una strega di Walt Disney. Piena di cimeli teatrali — in gioventù (un numero indeterminato di anni fa) Sybille aveva fatto l’attrice — questa casetta aveva la strana aria di uno di quei bizzarri negozietti di antichità del New England, dove la merce si mescola con gli oggetti di proprietà del padrone, per cui non si sa mai bene cosa sia in vendita.

“Tè? Caffè?” mi chiede Sybille.

“Mouton del ’45,” rispondo ridendo.

Sybille mi lancia un’occhiataccia e sparisce in cucina col suo lungo vestitone di seta nera. La seguo.

Mentre lei si dà da fare con teiera e tazze, io parlo.

“Be’, Danny Doland è stato di certo una delusione. Ho sentito dire che è partito per l’Hampshire, dove difficilmente capitano gli uragani.”

“Non eri fatta per sposare un civile,” dice Sybille. Non è chiaro se usi la parola “civile” nel senso che ha nel mondo dello spettacolo, dove serve per indicare qualcuno che non è dell’ambiente, oppure in senso militare. Per quanto le piacesse il denaro di Danny, ora si capisce che lo considerava un intruso, perché era “in affari”.

“Tu non lo sai, cara,” continua, “ma stai per iniziare una vita completamente nuova. Stai lottando per nascere, come un bambino, Dart e Danny sono marginali.”

Tiro un profondo sospiro.

“Be’, anche la mia ultima chance di normalità se ne è andata...” aggiungo.

“Cara, l’antiquariato, come anche il mercato dell’arte, negli anni ottanta sono l’equivalente del mercato immobiliare. Qualsiasi piccolo, avido gruber yung con un po’ di parlantina può riuscirci. Credono di essere tanto intelligenti perché vendono arte, ma in fondo non fanno altro che vendere! Le arie che si danno! Si direbbe che sono loro, a creare la merce. Tu non devi fare parte della collezione di nessuno. Tu sei la tua collezione.”

Sybille mi rivolge il suo bel profilo elegante. Con i suoi cinquantaquattro chili di peso e uno e ottanta di altezza, potrebbe fare ancora Cleopatra o Gertrude o Lady Macbeth e affascinare tutta la platea.

“Sybille, penso che resterò sola per tutto il resto della vita - intendo dire senza un uomo. Ho paura di loro. E anche per loro è così!”

“Molti, non tutti.”

“Ma la loro paura mi rende così triste. Per tutta la vita, ci insegnano ad aspettarci da loro guida e sostegno. Poi arriviamo alla mezza età e scopriamo che sono terribilmente fragili. È triste in senso cosmico. Ne intuisco il gioco, e mi fa piangere. Io voglio un compagno, e trovo solo gigolò o bambini spaventati di mezza età.”

“Per ora sei destinata a restare sola con le tue figlie. Stare soli non è poi così terribile! Guarda me.”

“Siamo sempre sole. E loro passano sempre alla ninfetta successiva. È che noi donne siamo maledettamente troppe, e loro, troppo pochi. Non possiamo avanzare delle pretese, altrimenti loro scappano. A noi tocca fare tutti i compromessi possibili. È maledettamente ingiusto.”

“È un’occasione.”

“Capirai, che occasione!”

“Sì, l’occasione di ritrovare la tua mente sana,” dice Sybille, “di stabilire la testa di ponte della tua mente sana dentro di te, in modo che anche da sola, non sarai mai sola. L’occasione di imparare a parlare con te stessa in modo dolce e gentile, di imparare a prenderti cura di te. Per quanto io sia sola, sono sempre in compagnia della mia mente sana. Voglio che anche tu ci riesca.”

Guardo Sybille smarrita, come sempre. Ma comincio a capire cosa vuole dire.

“Leila, ci vuole coraggio per condurre una vita,” dice Sybille, versando del tè. “E per condurre una grande vita, ci vuole ancora più coraggio. Non è facile fare quello che fai tu. Tu sei stata in qualche modo prescelta per rappresentare il mondo. In un’altra epoca, saresti morta di parto, o lapidata come una strega. Hai avuto il dono di un talento raro. Tutto quello che devi fare, è proteggerlo...anche quando non ne hai la minima voglia.”

“E poi?”

“Non puoi condurre una grande vita senza qualche slancio di fede. A volte tutto ti sembra terribilmente squallido e credi di conoscere la fine della storia. E invece no. È proprio scrivendo la fine della storia, che in un certo senso la condanni a succedere. È come se ipnotizzassi te stessa con pensieri negativi. La cosa più importante che puoi imparare, non è questo, ma al contrario affermare l’aspetto positivo delle cose, anche quando non sai come andrà a finire. Sai cosa si è scoperto sulle persone che eccellono nei vari campi?”

“No, cosa?”

“Che hanno tutti un’alta tolleranza per l’ignoranza, per l’ambiguità, per la mancanza di controllo. Perché solo quando possiamo tollerare di non avere il controllo, possiamo lasciare spazio al miracolo. Arte, innamorarsi, magia. L’ignoranza è una finestra sul miracoloso. Non sapere, rende possibile il sapere.”

“Voglio sapere se scoperò ancora o mai più.”

“Le carte dicono di sì,” dice Sybille, e ride. “Ma le carte dicono anche che dovrai pagare dieci dollari alla tua analista ogni volta che accadrà.”

Prende una scatola da biscotti di latta rossa, con la scritta “Amaretti di Saronno” sul fianco.

“Dieci dollari per ogni scopata,” dice. “E quando avremo abbastanza soldi, andremo fuori a cena a festeggiare.”

E mi avvolge nel suo enorme e materno abbraccio.

Tornai alle riunioni dell’Anonima Alcolisti, al mio lavoro, alle mie gemelle. Niente più appuntamenti. Niente più ricerca del santo Graal del cazzo. Ne avevo abbastanza. Mi sarei svezzata dall’amore, mi sarei liberata dal sesso, avrei imparato a grattarmi da sola il mio prurito o a smettere di sentirlo. Avrei trasceso il sesso e mi sarei fatta monaca.

Non importava se per anni avevo creduto che il sesso fosse la forza vitale. Non importava se avevo creduto che il sesso si identificasse con la creatività. Non potevo avere a che fare con un uomo senza che mi venisse voglia di bere e visto che non volevo bere, dovevo stare alla larga dagli uomini.

Andai a fare il test dell’AIDS, vissi nel terrore per una settimana e poi provai un enorme sollievo quando l’infermiera mi disse il seguente eufemismo: “I suoi studi virali sono negativi.” Era un mondo nuovo e coraggioso, quello che avevamo creato, e il sesso era una vittima della modernità.

Alla fine, saremmo comunque vissuti tutti in capsule spaziali, avremmo comunicato digitalmente e indossato tute spaziali d’argento, in cui i nostri genitali sarebbero stati così lontani dalla vista, che ne avremmo dimenticato l’esistenza. Il sesso avrebbe fatto la stessa fine dell’appendice o del sacco nusiforme, e forse saremmo stati tutti molto più felici. Il grande motore della fertilità e del desiderio che Dio ci aveva dato, sarebbe passato ai tecnici e sarebbe stato tradotto nel linguaggio dei computer. “Byte” al posto di baci, “input” al posto di incontro, “scan” al posto di scopare. Avremmo cambiato tutti lista di “file” e saremmo diventati blip in dissolvenza su uno schermo lampeggiante. Cosa che in fondo eravamo già. Nel computer del cielo stellato di Dio. Fertilizzazione in vitro, incubatrici centralizzate, bambini educati secondo le teorie di Skinner. Invece delle madri, avremmo avuto i “surrogati”. Invece dei padri, dei “donatori”. E invece dei bambini, cosa avremmo avuto? Questo era il guaio. Gli esseri umani nascevano troppo piccoli, ci mettevano troppo tempo a crescere. Questo era il punto cruciale del nostro dilemma evolutivo: la gloria e la pena. In venticinque anni di dipendenza, avremmo certo imparato strane abitudini.

Le mie gemelle a dieci anni erano così autosufficienti, che spesso tra loro mi sentivo di troppo. (Una madre di gemelli un giorno mi disse: “Finché non arrivano ai tre anni, non hai nemmeno il tempo per lavarti i denti; ma poi non hanno più bisogno di te, per via del legame che li unisce.”)

Spesso le invidiavo: invidiavo la loro autosufficienza, il fatto che non erano mai sole. Unite contro il mondo, andavano a scuola, al campeggio, da papà e da mamma. Unite contro il mondo, cavalcavano i loro pony Appaloosa - Heaven e Hash. Unite contro il mondo, andavano a cogliere more, a fare scalate, a correre in bicicletta.

Uno è il numero indivisibile. Ma è solo. Due è divisibile, senza paura. Come madre, ero felice della loro unione. Ma mi escludeva, in un modo profondamente doloroso. A volte avrei voluto avere una figlia unica, per compagnia.

Giorno dopo giorno, la verde estate si allungava nel Connecticut. Gli alberi si facevano scuri e frondosi. Il canto dei grilli e il contrabbasso delle rane riempivano le notti. Leggevo Thoreau, Lao-tzu, Suzuki. Cercavo di coltivare la mente di un principiante.

“Dovremmo trovare la perfetta esistenza attraverso l’esistenza imperfetta,” diceva Suzuki. “Dovremmo trovare la perfezione nell’imperfezione.” “Dobbiamo imparare a svegliarci e a restare svegli, non con aiuti meccanici, ma mediante un’attesa infinita dell’alba che non ci abbandona mai, nemmeno nel sonno più profondo,” diceva Thoreau. “Il saggio mette la propria persona per ultima ed essa viene per prima”, diceva Lao-tzu, “la tratta come estranea a se stesso, ed è preservata. Non sarà perché non pensa a se stesso che il saggio riesce a realizzare i suoi fini privati?”

Cercavo di coltivare l’arte di non agire. Cercavo di considerare la vita come un passatempo, non come un patimento. Cercavo di non fare nulla, perché nulla è la cosa più difficile da fare. Cercavo di insegnare a me stessa a stare seduta immobile. Mi sarei seduta sulla riva del mio stagno, a guardare la superficie increspata dell’acqua, l’azzurro del cielo dentro il verde dell’acqua, le nuvole che correvano sulle increspature, le rane che saltavano attraverso il cielo, gli insetti che sprofondavano nelle nuvole.

“Un campo d’acqua rivela lo spirito che sta nell’aria,” dice Thoreau. “Ha una vita e un movimento nuovi. È intermedio tra il cielo e la terra.”

Sul ciglio del mio stagno, sul ciglio dell’universo, arrivai a capire che certi cancelli si aprono solo alla solitudine, che solo le lacrime schiudono certi luoghi.

A volte la morte di un maggiolino mi commuoveva profondamente, come la morte di mia madre, e piangevo. A volte la danza delle molecole mi si manifestava, e anche senza l’aiuto della droga mi univo a questa danza e l’ebbrezza era più forte, proprio perché c’ero arrivata direttamente. Il mio braccio che lanciava un sasso nell’acqua, per spezzarne la superficie azzurrocielo, diventava tutt’uno con l’aria in cui si muoveva, con la pietra stretta nella mano. Le molecole di cielo, carne, sasso, tutte interconnesse, danzavano insieme una danza primordiale, roteavano insieme in un vortice primordiale.

Capivo che braccio, cielo e sasso erano tutt’uno, che la carne era cielo e il cielo era carne, che il sasso non era più solido dell’aria o dell’acqua, e che non c’era motivo di addolorarsi, perché la morte era solo un’altra parte della danza e che la danza continuava per sempre.

Sedevo sulla riva del mio stagno e fissavo la superficie dell’acqua, la superficie dell’eternità, e mia madre tornava a me.

Arrivava attraverso boschi frondosi, scavalcando ceppi marci, con in testa un pazzo cappello rosso. Pareva una mishugga, una creatura folle uscita da un racconto di Singer.

“Louise,” mi diceva, “sei una pessima madre e una pessima figlia. Quando è stata l’ultima fottuta volta che sei venuta a visitare la mia tomba? Fiori. Non è che mi aspetti dei fiori. O una telefonata. È così, non mi chiami mai. Ma’, mamma, mammina. Sono parole che non sfiorano mai le tue labbra. Vai da Emmie, da Sybille, da Lily. Come diavolo credi che questo mi faccia sentire? Come quando andavi dalla puttana di tuo padre e raccontavi a lei i tuoi problemi. Come credi che mi facesse sentire, questo? Eh? Rispondimi, Louise – scusami Leila, Ms Sand. Adesso sei un pezzo grosso, non riesco nemmeno a raggiungerti per telefono, senza prima parlare con la tua assistente. ‘Casa di Leila Sand.’ E dire che ricordo ancora quando ti pulivo il culetto!”

Siamo sedute al tavolo di un ristorante cinese vicino a Dyckman Street. Il Dragone della Fortuna, si chiama. Theda si sta ubriacando sempre più coi daiquiri (continua a ordinarli anche col pollo al limone e il maiale in agrodolce). Mi sta tormentando su mio padre e Max. Non voglio risponderle. Non mi va di mettermi in mezzo.

“Bisticciano molto?” mi chiede. Io resto zitta.

“Rispondimi! Litigano?”

“Non lo so, mah.”

“Avanti, ragazzina impossibile! Rispondimi!”

“Mamma, non lo so.” (Devo avere circa sedici anni, le mie ovaie ribollono sempre per Snack, la mia vita è in bilico tra Dyckman Street e l’Ottava Strada, la mia vita è un tragitto in sotterranea tra due vite.)

A un tratto, di punto in bianco, prende il suo libro tascabile e me lo picchia sulla testa, butta per terra il pollo al limone e comincia a spaccare piatti e bicchieri, urlando: “Rispondimi!”

Mi alzo, afferro la mia cartella verde dei libri e corro a casa, sperando di riuscire ad arrivarci e buttare in una borsa le mie cose, prima che lei ritorni.

Sono nella mia stanza, sto riempiendo una valigia, quando la porta si apre e Theda si precipita dentro, brandendo un ombrello.

“Tu vuoi più bene a tuo padre che a me!” urla. “Ammettilo! Ammettilo!”

“Non è vero, mamma.”

“Ammettilo!” urla, picchiandomi con l’ombrello. “Lo ami di più!”

“Io ti voglio bene, mamma,” mormoro, “ma tu non mi senti.”

“Tu non mi vuoi bene!” grida lei. “Sei una sporca, schifosa ragazzina!”

Chiudo la valigia, l’afferro per il manico, e corro fuori da quella casa. Giù, nelle viscere della metropolitana, nella bocca di popcorn caldo e carta di caramelle della New York sotterranea. La corsa dei treni, la gente che ondeggia insieme nel sudore, le masse sporche, povere, mormoranti, miserabili e stipate, che vorrebbero respirare aria pura.

Miss Sotterranea fa l’estetista, ma vorrebbe fare la modella. Non ce la farà mai. Le gemelle della gomma da masticare Wrigley vogliono “raddoppiare il tuo piacere, raddoppiare il tuo divertimento.” La “stenografia” viene presentata come la soluzione di tutti i problemi. Ai corsi serali della scuola Robert Louis Stevenson.

“Voglio andarmene, voglio andarmene,” mormoro sul ritmo dello sferragliare delle ruote, in cui sento anche la voce di mia madre che urla. La sento nelle ruote del treno, nell’oceano, nell’acqua che scorre. La sento sempre... anche ora.

“Mamma... ti voglio bene!” grido. “Ti voglio bene davvero.” E Theda allora scompare in mezzo al mio stagno, come un sasso che affonda facendo un sacco di piccole ondine concentriche.

Il mio viso è bagnato di lacrime. Cadono sulla roccia scintillante di mica sulla quale sono seduta.

“Mamma!” grido ai boschi verdi e frondosi. “Mamma!”

E l’eco mi dice che lei ha sentito.

Ed ecco che arriva. La terra sotto di me – ghiaia, terreno, insetti, tutto – diventa all’improvviso trasparente e io siedo sospesa su un cielo stellato.

Sotto di me ci sono le costellazioni – Orione, l’Orsa maggiore, l’Orsa minore, le Pleiadi. Sotto di me l’infinito vuoto e pieno dello spazio. Una folata di vento sul viso mi dice che vedo per la prima volta. Nella mia immobilità, c’è un’attività infinita; in questa attività, c’è un’infinita immobilità.

So che il sesso, la danza degli ormoni, lo scintillio della carne, lo splendore dell’acino d’uva, la goccia d’olio di semi di lino, la lacrima, la trementina, sono solo piccole manifestazioni di questo immutabile ed eternamente mutevole infinito. E so che era questo infinito che dovevo vedere e che senza sobrietà non avrei mai avuto occhi per vedere.

“Bussa al cielo e ascolta il rumore,” dice un proverbio Zen. Busso.

“Mamma!” chiamo, come Amleto quando chiama lo spettro di suo padre. “Mamma!” e le foglie verdi degli alberi mi rispondono stormendo: “Ssst, Louise. Ti voglio bene, non morirò mai.”

Poi silenzio. I boschi riprendono i loro soliti rumori: grillo, foglia, un passero che cade.

Dal bosco esce una daina, seguita da due cerbiatti. Brucano e rosicchiano i rami bassi e i teneri arbusti, rizzando le loro grandi orecchie, posando i loro zoccoli delicati, e arrivano molto vicini a dove io sto seduta nella mia studiata immobilità, sulla riva del mio stagno.

Mamma cerva si spinge fin sul bordo dello stagno e sbircia nell’acqua forse il proprio riflesso, e i due cerbiatti la imitano, facendo delicati rumori di ramoscelli spezzati con i loro piccoli zoccoli. I boschi sono animati da infinite vite: cervi, procioni, funghi, insetti, bruchi, vermi, farfalle. “La natura sopporta la nostra più minuziosa ispezione”, dice Thoreau. “Ci invita a posare gli occhi sulla sua foglia più minuscola e a considerarne la superficie dal punto di vista di un insetto.” È come se l’insieme delle molecole si disponesse secondo forme diverse: ora cervo, ora uomo o donna, ora foglie, in risposta a qualche divino campo di forza energetica, ma come se tutte le forme fossero, in un certo senso, una sola.

Due piccoli cuccioli d’uomo saltano fuori dal bosco, gridando “Mamma!” E la cerva e i suoi piccoli fuggono, tornano nel verde mondo scintillante della foresta, si perdono nella macchia.

“Cosa stai facendo, mammina?” mi chiede Mike.

“Niente.”

“Perché?” chiede Mike.

“Perché è la cosa più difficile da fare.”

“È suonata,” dice Mike a Ed, “ma è simpatica.” E vengono ad abbracciarmi ai confini dell’universo.