AVVERTENZA DEL CURATORE
Morte. Fine o passaggio? riprende un ciclo di letture e di lezioni dedicate a testi greci, latini e giudaico-cristiani, organizzate, come ormai consueto, dal Centro Studi «La permanenza del Classico» dell’Università di Bologna, nel maggio 2006. Il tema affrontato è «la domanda delle domande» (Agostino), e su di essa si sono interrogati Massimo Cacciari, Ivano Dionigi, Alberto Malliani, Gianfranco Ravasi, Silvia Vegetti Finzi, in dialogo con i testi antichi affidati alle voci di Anna Bonaiuto, Giancarlo Dettori, Maurizio Donadoni, Lino Guanciale, Sandro Lombardi, Franca Nuti, Galatea Ranzi, Simone Toni, per la regia di Claudio Longhi.
Unitamente a quegli interventi vengono ora riproposti anche i testi classici, tradotti dai componenti del Centro Studi, e i testi biblici nella versione CEI: una scelta di passi comprensibilmente contenuta, e certo puramente rappresentativa, data la grande abbondanza di riflessioni poetiche e filosofiche che l’antichità – in questo ben diversa dalla contemporaneità, che troppo spesso esorcizza la morte con il silenzio – ha saputo dedicare al lutto, alla caducità umana, alla fuga del tempo e alle diverse forme di immortalità cui l’uomo può, nonostante tutto, aspirare. I testi sono presentati qui in ordine cronologico, talvolta puramente ipotetico.
Nel congedare questo volume, il nostro pensiero affettuoso e ammirato va ad Alberto Malliani: il 15 ottobre 2006 è venuto a mancare ai suoi cari e a tutti noi.
1. Alla domanda «cos’è la morte?» (mors quid est?), Seneca, nell’Epistola 65, adotta l’alternativa socratica enunciata da Platone (Apologia di Socrate, 40c) e così risponde: «o fine o passaggio» (aut finis aut transitus); ricapitolando, con questo dilemma, tutto il dibattito sul tema e riconducendolo a due concezioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro, per cui la morte era «la fine», e dall’altro quella spiritualistica, variamente declinata, di Pitagora, di Platone e dello Stoicismo, per cui la morte era «il passaggio» (o anche «il ritorno», reditus) ad altra vita. Ma, a ben vedere, questa riduzione binaria non ci consegna un concetto univoco né di «fine» né di «passaggio», ma conosce ulteriori polarità e divaricazioni; e, anziché definire ed esaurire le innumerevoli teorie in proposito, si rifrange e sfuma in una molteplicità di posizioni eclettiche, oscillanti e contraddittorie all’interno di uno stesso dettato non solo poetico, ma anche filosofico e religioso. A rendere il percorso non lineare, accidentato e talvolta precluso contribuisce la prossimità dell’interrogativo sulla morte alle teorie o alle credenze sull’aldilà della vita.
Pertanto di questo tema, tanto centrale quanto frastagliato nella classicità, ci si dovrà rassegnare a individuare alcune delle tante spiegazioni e “strategie di superamento”.
2. Nella percezione dei poeti, attenti al destino individuale, la morte si manifesta nel segno del due: male per gli uni, bene per gli altri. Per tutti, comunque, un fenomeno non-naturale.
L’Achille omerico preferirebbe – così confessa al compagno d’un tempo, Odisseo – «essere l’operaio di un padrone povero piuttosto che regnare sulle ombre dei morti» (Odissea, 11, 487 sgg.): in sintonia con la concezione crepuscolare che Omero ha degli uomini, «simili alle foglie» (Iliade, 6, 146). L’Ifigenia di Euripide tenta di convincere il padre Agamennone che «dolcissima è questa nostra vita», che «una brutta vita è da preferire a una bella morte» e che pertanto «chi fa voti di morire è un folle» (Ifigenia in Aulide, vv. 1250-1252); «male terribile è la morte», le fa eco Achille (v. 1415). Non dissimile la sentenza del commediografo Aristofane, per il quale «la morte è il più insostenibile dei mali» (Rane, v. 1394).
Per contro, al polo opposto, la stessa poesia greca teorizzava – come testimonia Sofocle, il quale riprende qui la celebre “sentenza di Sileno” – che «non nascere è la prima delle fortune, e la seconda – una volta nati – morire presto» (Edipo a Colono, vv. 1224 sgg.); senza dire del topos secondo il quale «gli dèi prediligono chi muore giovane». Sempre in Euripide (Troiane, v. 657), Andromaca, sopraffatta dal dolore, ammette che «è meglio essere morti che vivere tra i dolori»; e lo stesso Seneca tragico – discostandosi dal codice filosofico stoico, e avvicinandosi a quello epicureo – nel coro delle Troiane («la tragedia più tragica di Seneca, perché non […] solo la tragedia di un individuo, ma di un popolo», Traina), sembra approdare a un nichilismo apocalittico, nel timore che l’infelicità insopportabile di questa vita possa protrarsi anche dopo la morte: «è vero, o una favola inganna i paurosi, che le ombre continuano a vivere una volta sepolti i corpi, quando la sposa ha chiuso gli occhi del marito, e l’ultimo giorno ha tolto la luce del sole e l’urna funebre ha raccolto le ceneri? Non serve cedere l’anima alla morte, ma agli uomini infelici resta da vivere ancora?».
3. Compito del filosofo, ammoniva già Spinoza, non è né piangere, né ridere, né imprecare, ma capire. E già la filosofia presocratica spiegava la morte come fenomeno naturale, sostituendo le parole «nascita» e «morte» con i concetti fisici di «aggregazione» e «disaggregazione» degli elementi. Questa concezione guiderà il monista Parmenide e il suo discepolo Empedocle (frr. 8-9 Diels-Kranz); guiderà l’epicureo Lucrezio, per il quale gli atomi – oltre la fine dei singoli corpi e dei singoli mondi – continuano ininterrottamente a dare vita a nuovi corpi e a nuovi mondi secondo la legge dell’isonomia, vale a dire il bilanciamento delle forze opposte (La natura delle cose, 2, 569-580); e guiderà infine lo stoico Seneca, per il quale la morte è un adiaphoron, un «indifferente» processo naturale: tutto il contrario di Agostino, per il quale la morte è male (La città di Dio, 13, 6).
La spiegazione presocratica a base fisica non soddisfa Platone, per il quale la vita del filosofo non è che un esercizio in vista della morte (Fedone, 67e), perché con la morte – ovvero con «la separazione del corpo dall’anima» (67d) – egli è in grado di raggiungere «virtù e intelligenza» (114d).
4. La riflessione classica sull’epilogo della vita non si è mai disgiunta da quella sulle strategie di «trascendenza della morte» (Bauman). Varie le forme di sopravvivenza nell’oltretomba: l’Ade umbratile, l’Isola dei Beati, il trasferimento in altre vite secondo la dottrina della metempsicosi; e soprattutto l’immortalità dell’anima, la quale tuttavia – è Seneca a dircelo – è minata da una duplice limitazione: la negazione della sopravvivenza individuale (Consolazione a Marcia, 26, 7 «noi anime felici che abbiamo avuto in sorte l’eternità […] nella distruzione del tutto […] ci trasformeremo negli elementi primordiali») e l’agnosticismo circa la natura stessa dell’anima (Epistola 121, 12 «che cosa sia l’anima, dove sia, come e da dove, lo ignoriamo»).
A me pare che l’antichità classica abbia cercato vie di fuga non già nell’aldilà, ma piuttosto nell’aldiquà, fabbricandosi diverse forme di immortalità: con la morte eroica e la gloria (kleos), come cantavano Omero, i lirici e i tragici; con la generazione dei figli, come dichiara Platone nel Simposio: «ecco che cos’ha di immortale, una creatura mortale: il concepimento e la creazione» (206c); con la poesia, come ci assicurano Callimaco e Orazio, grazie alla quale non omnis moriar; con la cattura del tempo, come sentenzia Seneca (Epistola 1, 1 tempus … collige et serva). Si aggiunga che Seneca – seguendo la lezione platonica – individua nell’attività del pensiero e nella contemplazione dell’universo un’ulteriore via per «superare la mortalità» (Ricerche sulla natura, 1, Prefazione, 16 transilire mortalitatem).
In questo panorama, del tutto singolare e isolata appare la posizione di Lucrezio, per il quale l’uomo cercava il risarcimento, il controllo e la rivalsa sul timor mortis ricorrendo a disvalori e forme spurie di sopravvivenza e di prolungamento della vita, quali la religione (religio), la ricchezza (ad summas emergere opes), il potere (rerum potiri). Un’intuizione, questa, che anticipa la riflessione di Elias Canetti, l’autore di Massa e potere, sul binomio morte/potere.
5. L’uomo della classicità non credeva alla creazione, e pertanto – a differenza di Giobbe – non aveva un dio cui chiedere conto del “perché” della morte; così pure Seneca, del tutto consenziente con l’unica lex che governa la natura (Epistola 30, 11) e con quella necessitas che vincola anche gli dèi (Epistola 54, 7), «non aveva nessuno cui chiedere spiegazioni» (Zambrano). L’uomo della classicità quella spiegazione, che sanciva la supremazia della morte, doveva darsela da solo. All’opposto, una spiegazione religiosa ed eteronoma, che decreta la supremazia sulla morte, verrà dalla testimonianza biblica e neotestamentaria: nella Prima lettera ai Corinzi Paolo annuncia che la morte è il frutto del peccato e «il peccato è il pungolo della morte», e come la morte è entrata nel mondo per mezzo del peccato di Adamo, così essa sarà sconfitta dalla morte e croce di Cristo, il nuovo Adamo, e da tutti coloro che crederanno in lui. Per questo il cotidie morior cristologico di Paolo, al di là della specularità formale, non ha nulla in comune con il cotidie morimur stoico di Seneca.
6. Ma quello di separare i due termini, la vita e la morte, di farne un prima e un poi, un qui e un altrove, è soprattutto una convenzione linguistica e una distinzione illusoria. Da sempre poeti e filosofi ci ricordano che siamo in presenza di una dualità costitutiva. Eraclito teorizza che «la stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio […] immortali mortali, mortali immortali, viventi la morte altrui, morti all’altrui vita» (frr. 88 e 62 Diels-Kranz); Euripide si chiede «se il vivere non sia morire e se il morire non sia quel che i mortali credono vivere» (fr. 638 Kannicht); Pindaro definisce l’uomo non più che «creatura d’un giorno e sogno di un’ombra» (Pitica, 8, 95 sg.); Manilio annuncia che «nascendo noi sposiamo la morte» (4, 16 nascentes morimur); Epicuro ritiene che «uno solo è l’esercizio del vivere bene e del morire bene» (Epistola a Meneceo, 127); Seneca proclama che «la morte è indivisibile, attacca il corpo e non risparmia l’anima» (Troiane, vv. 401 sg.). Consacrata dall’immagine parentale di Francesco d’Assisi («sora nostra morte corporale»), l’idea di coabitazione e quasi consustanzialità attraverserà il concetto di vita e di morte fino ai nostri giorni: «la morte è il lato della vita rivolto dall’altra parte rispetto a noi» (Rilke); «verrà la morte e avrà i tuoi occhi – / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo» (Pavese); «io me li sentivo vicini [i morti] come due facce d’una moneta che non possono conoscersi» (Cocteau).