SILVIA VEGETTI FINZI

Nascere, morire

 

Nella conferenza tenuta nel 1915, quando si sta ancora combattendo la prima guerra mondiale, Freud affronta il rapporto del pensiero umano con la morte.

Assodato che l’uomo è l’unico animale che sa di dover morire e che, come dice Plinio, non vorrebbe mai cessare di esistere (mortalitas avida numquam desinere) Freud si interroga sulla natura di questo sapere.

Per prima cosa, echeggiando Epicuro, nega che l’uomo possa rappresentare la propria morte perché, nel momento stesso in cui ci figuriamo, che so, il nostro funerale, ci siamo ancora nella veste dell’osservatore che guarda, del testimone che assiste. Quando invece non ci siamo più perché morti davvero non ci è più concesso pensare.

Ma anche quando la coscienza ammette l’umana caducità, vi si oppone l’onnipotenza del desiderio inconscio. Ciò nonostante, Freud riconosce in ordine al morire due esperienze: il desiderio di uccidere il nemico e il dolore per la perdita di una persona cara. Solo quest’ultima è probante perché la morte di una persona amata, ma proprio per questo temuta e odiata, ci confronta con l’angosciosa ambivalenza dei nostri sentimenti. Perdere chi ci è caro significa smarrire, non solo una fondamentale presenza esterna, ma sentirsi deprivati di una parte di sé, sperimentare il vuoto e l’assenza nel cuore stesso della nostra identità.

Collocando l’esperienza della morte non fuori ma dentro di noi, Freud ne muta lo statuto esistenziale. Scrive infatti: «i filosofi hanno affermato che l’enigma intellettuale posto all’uomo primordiale dall’immagine della morte l’avrebbe costretto a riflettere e sarebbe diventato il punto di partenza di ogni speculazione. Vorrei correggere questa proposizione e circoscriverla: non tanto l’enigma intellettuale […] bensì il conflitto affettivo ha avviato la ricerca da parte dell’uomo».

L’uomo primordiale non poteva negare la morte perché l’aveva sperimentata in sé, nel proprio dolore, d’altra parte non poteva ammetterla per l’incapacità di pensare se stesso morto. Per uscire da questa impasse, prosegue Freud, «escogita allora dei compromessi, accettando la morte ma contestando il fatto che essa sia l’annientamento della vita, un aldilà impenetrabile. Accanto al cadavere della persona amata inventò gli spiriti, ideò la scomposizione dell’individuo in un corpo e in un’anima (originariamente in più anime). Ricordando i defunti creò l’idea di altre forme di esistenza, per le quali la morte è solo un inizio, l’idea di una prosecuzione della vita dopo l’apparente morte».

Come abbiamo visto, la morte è al tempo stesso estremamente vicina ed estremamente lontana, esperita dentro di noi come perdita dell’Io, viene poi proiettata fuori nella forma della desolazione. Quando chi sopravvive alla morte di una persona cara afferma: «d’ora in poi è tutto finito. Per me non c’è più niente» sembra cedere alla disperazione ma al tempo stesso sta inconsapevolmente approntando lo spazio virtuale della ri-creazione, lo schermo bianco su cui proiettare le figure della sostituzione e le narrazioni della consolazione.

Questo compito spetta di solito alla religione, ma la mitologia greca non sembra in grado di prospettare un aldilà capace di rispondere all’umano bisogno di vivere per sempre. L’Ade, in cui precipitano i morti, è un universo di pallide ombre in cui predominano la malinconia e il rimpianto.

In confronto alla luminosa perennità degli dèi che non muoiono mai, fissati nell’età della loro rappresentazione mitica – per cui Zeus è sempre vecchio, Era nella piena maturità, Venere nel fulgore della giovinezza – il tempo della vita umana, quello finito, che si estende dalla nascita alla morte, risulta così misero da essere impresentabile, scandaloso. Il sentimento di inferiorità e di inadeguatezza che assale gli umani dinnanzi ai propri ideali si rivela nella Legge che vigeva a Delo, l’isola consacrata ad Apollo, il dio della bellezza, della giovinezza eterna. Per mantenere incontaminato quello spazio era vietato infatti, entro i suoi confini, nascere e morire.

Tanto le partorienti quanto gli agonizzanti venivano caricati su una barca e portati in fretta e furia sul continente affinché a Delo regnasse soltanto il tempo perenne delle divinità immortali. In un’ottica psicoanalitica, la condanna fobica che accomuna corpi che si trovano in condizioni opposte (prossimi alla nascita e prossimi alla morte) rivela un mancato superamento dell’angoscia per la limitatezza umana, il tentativo di negare la nostra caducità con l’agire, col passaggio all’atto, anziché col pensiero. Ciò che più stupisce nella condanna all’esilio che l’uomo greco infligge a se stesso per la vergogna di essere mortale è l’equiparazione della nascita alla morte, del parto all’agonia. Un’equivalenza che nega il senso vitale, inaugurale del venire al mondo e la priorità della madre.

Se la religione greca non riesce a proporre una speranza che contrasti l’angoscia della fine, il compito passa alla filosofia, che farà della morte uno dei suoi principali obiettivi. Tutto comincia con l’atto fondativo della metafisica occidentale: la contrapposizione introdotta da Parmenide tra l’essere e il non essere in cui si può riconoscere una trasposizione della polarità vivere-morire.

Se l’essere è, dice Parmenide, il non essere non è. Una doppia negazione che affida alla logica la soluzione dell’enigma intellettuale della morte. Poiché vi è un unico discorso vero: quello che afferma che solo l’essere è, la tautologia (identità tra soggetto e predicato) trasforma il costrutto logico in una ontologia dell’essere, considerata l’unica forma filosofica possibile. Ogni altro tipo di discorso, ogni altro enunciato, sarà pertanto falso e illusorio. Quella remota matrice filosofica inaugura la grande tradizione della metafisica occidentale, con la quale ogni pensatore dovrà d’ora in poi confrontarsi. L’essere è concepito da Parmenide come una sfera che contiene tutto l’esistente e, come tale, è immobile, unica, perenne. La sua evidenza è tuttavia celata dalle cose mutevoli che la circondano, cose che hanno soltanto una parvenza di essere e che lo sguardo deve attraversare affinché la verità si disveli all’intelletto. Benché la metafisica inaugurata da Parmenide non sia l’unica teoria filosofica del mondo antico, l’opposizione tra la verità dell’essere e la falsità dell’apparire innerva tutta la storia della cultura occidentale e condiziona inconsapevolmente anche il pensiero comune.

Lungo il percorso però la polarità originaria (essere-non essere) si articola e si complica. Platone, ad esempio, la riformula nella pluralità delle idee, modelli perfetti degli enti che compongono la realtà, forme pure che solo la matematica e la geometria possono adeguatamente rappresentare.

La verità assoluta della filosofia, che respinge il non essere, e con esso la morte, nella dimensione dell’impensabile e dell’impossibile, viene però conquistata a caro prezzo: a costo di svalutare i sensi, di svilire l’esperienza, di inaridire il mondo. Nella sfera immobile e perfetta dell’Uno non c’è posto per l’erba che cresce, per l’acqua che scorre, per il succedersi della notte e del giorno, per la nascita e la morte, per l’amore e per il dolore.

Le conseguenze di quel gesto teorico sono tante ma vorrei qui osservare che utilizzare in modo oracolare l’infinito del verbo «essere» come soggetto della proposizione cancella il soggetto dell’enunciazione e rende impersonale l’enunciato. Chi parla? Nessuno. Di chi si parla? Di tutti. In realtà il discorso, apparentemente neutrale, nasconde un soggetto non detto ma comunque presente e dominante: il soggetto maschile, il filosofo, il quale parla dell’uomo con la «U» maiuscola, dell’universale Uomo, presupponendo che esso comprenda anche la donna. Scherzosamente si dice: «l’uomo è il genere che abbraccia la donna». Ma la donna compare nel termine «umanità» soltanto come figura complementare, come l’altra dell’altro, come oggetto della sua, di lui, rappresentazione. Ma la metafisica dell’essere, oltre a cancellare l’identità sessuale dei soggetti parlanti e parlati, produce anche una implicita gerarchia di valore per cui dalla parte dell’essere si collocano: l’eternità, Dio, l’anima, la forma, le idee, la vita contemplativa; e, dalla parte del non essere, della mera apparenza: il tempo, il corpo, la materia, la molteplicità delle cose, la vita attiva. Mentre nella prima colonna si installa l’Uomo, il soggetto maschile, nella seconda s’inscrive la donna, l’oggetto femminile.

Come avrete notato, tutto ciò che vale – l’essere, l’Uno, le idee, Dio – viene collocato fuori dal mondo, oltre la realtà fisica, in una dimensione metafisica che nega la morte a costo di sacrificare la vita. L’esistenza individuale, una volta ridotta a breve passaggio verso l’eternità, impone al saggio di «vivere per la morte». Un’opzione che, mentre svaluta la vita, positivizza il morire. In tal modo la filosofia risponde all’enigma intellettuale della morte ma l’angoscia, in cui Freud individua il vero motore della ricerca umana, rimane inascoltata e irrisolta.

Prima e contemporaneamente alle algide, formali enunciazioni sull’essere e il non essere risuonano infatti, nella cultura antica, le palpitanti, appassionate riflessioni della filosofia morale. Pur nei diversi contesti, esse appaiono accomunate dal tentativo di superare l’angoscia della morte facendola confluire in un’atemporale eternità oppure stemperandola nel ciclo che ricongiunge, in un perenne divenire, la fine all’inizio.

Ma finché il discorso sulla morte rimane astratto e impersonale, oggettivato in metafore materiali o naturali, non riesce a incidere davvero sull’esperienza, sul sentire, sul patire di ciascuno, solo di fronte alla morte. Quando il poeta Mimnermo affronta le «nere Chere», l’una portatrice della vecchiaia penosa, l’altra del destino mortale, paragona gli uomini alle foglie che d’autunno cadono dall’albero. Ma dimentica che precedentemente la pianta ha prodotto frutti e semi che ne garantiscono la riproduzione per cui, mentre una pianta muore, un’altra germoglia. L’alternativa tra intendere la morte come fine o come transito, sottratta alla certezza assoluta della metafisica, sembra dipendere allora da una personale visione del mondo, da un fattore temperamentale, irriducibile a un giudizio di verità o falsità. I vari punti di vista appaiono spesso contraddittori, tanto che Seneca, il più saggio tra i sapienti, ora esalta il suicidio, ora invita a disprezzare la morte. In alcuni autori prevale un tetro disincanto, in altri una consolatoria speranza. Paradossalmente il «non-essere», con tanta forza negato dalla logica parmenidea, ricompare nella riflessione morale sotto forma di desiderio, di voto, di augurio. Sofocle, raccogliendo l’antica sentenza del Sileno sostiene che «non nascere è la migliore delle sorti possibili» e Plinio che «non nascere è la più grande delle fortune».

La precettistica morale, che spesso si avvale di effetti poetici, appare più incisiva emotivamente ma anche meno capace, rispetto alla metafisica, di produrre una stabile visione del mondo per cui alla fine è quest’ultima, la città di pietra della filosofia idealistica, a organizzare la nostra cultura.

Tutto cambia, come sostiene il pensiero femminista, se muta l’orizzonte teorico, se si esce dalla contrapposizione tra una dimensione ideale, in cui parla la verità patriarcale, e una dimensione reale in cui ciascuno vive. Tutto cambia, come premesso, se si sposta l’asse del discorso dalla morte alla nascita, non all’astratto inizio della vita ma al fatto concreto che ciascuno viene alla luce partorito da un corpo materno. A questo passo ci invita – come donne, intendo – Platone stesso che, nella generosa proliferazione delle sue ipotesi, non esita a suggerirci, per voce di Diotima, un eventuale pensiero femminile. Che poi lo contraddica con le sue potenti categorie filosofiche non ha importanza. Ciò che conta è l’apertura di possibilità che ci mostra e l’ascolto che ci concede.

Nel Simposio si discute d’amore, tra uomini naturalmente, non essendo le donne ammesse ai banchetti. Le opinioni sono diverse, ma, quando è la volta di Socrate, il discorso subisce un’improvvisa virata. Poiché nessuno, osserva Socrate, ha finora detto la verità sull’amore lo farà lui, però a modo suo e non in gara con i precedenti interlocutori.

Sotto il segno solenne della verità, Socrate compie allora un gesto inaudito: evoca tra i presenti una donna, la sacerdotessa Diotima di Mantinea. Nei suoi confronti Socrate assume la posizione, a lui inconsueta, di discepolo, lasciando a lei quella di maestra.

E Diotima pronuncia allora un discorso che inizia in modo dirompente e che progressivamente, con abilità diabolica, Platone riconduce entro le gerarchie del pensiero patriarcale. Col risultato, paradossale, di far dire, proprio a una donna, le condizioni che legittimano la subordinazione femminile. Ma, senza ripercorrere per intero il complesso svolgimento del dialogo, vorrei soffermarmi sulle parole di Diotima quando afferma: «l’amore è procreazione nella bellezza, secondo il corpo e secondo l’anima».

Una frase paradigmatica della capacità femminile di unificare i contrari che apre una prospettiva nuova, anche se Platone condurrà Diotima a concludere che le donne e gli uomini da poco generano col corpo, mentre gli uomini sapienti, come i filosofi e i legislatori, generano con l’anima. La dissimmetria di valore è esplicita: da una parte la materia, il corpo, il divenire, dall’altra la forma, l’anima, l’eternità. Ma, a riprova che l’opposizione non esiste, si può osservare che si pensa con un organo del corpo, il cervello, e che i filosofi stessi utilizzano, per descrivere il lavoro intellettuale, termini e metafore che rinviano al soma. Non parlano forse di “concetti” per le idee concepite dalla mente, e Socrate non paragona il metodo maieutico all’opera della levatrice? Per descrivere il rapporto tra il filosofo e l’essere, scrive Platone nel libro VI della Repubblica: «con essa [l’anima] approssimatosi e unitosi a ciò che realmente è, generati pensiero e verità, allora conosce e veramente vive e si nutre e così pone termine – ma non prima – al travaglio del parto» (490b).

E se pensare impegna il corpo, procreare impegna la mente, sin dal concepimento. Nel modello ideale, la nascita è una conseguenza dell’amore, della sua potenza di coesione, della sua capacità di realizzare l’idea del bello e del bene attraverso il congiungimento erotico dei corpi. Ma i corpi non sono mai cose, persino il concepimento più degradato non è soltanto carnale, perché il rapporto sessuale suscita comunque sensazioni ed emozioni, anche se negative. L’esperienza insegna che il corpo è pensante e il pensiero corporeo.

Nulla accade nel corpo, osserva Freud, che non abbia una sua rappresentazione nella mente. Non esiste un’azione cieca così come non esiste un’astrazione pura. La procreazione è, in ogni momento, fisiologica e psicologica anche se molti processi restano relegati nell’inconscio.

Tuttavia più ci inoltriamo nella conoscenza del rapporto corpo-mente più ne scorgiamo la stretta interconnessione.

Siamo ora in grado di confermare, in base alle attuali conoscenze di neurofisiologia prenatale, che la gestazione è un lavoro del corpo e del pensiero e che, accanto a un utero fisico funziona un “utero psichico” che accoglie dapprima il bambino immaginario, poi quello reale. Dal quinto mese di gravidanza accade uno scambio costante di cognizioni e di emozioni tra il feto e la madre che, sebbene aurorale, precostituisce la possibilità del nuovo nato di pensare in modo umano, di pensare i pensieri.

Inoltre, subito dopo il parto, i neonati potrebbero essere scambiati senza che la puerpera se ne avveda perché, inizialmente, uno vale l’altro.

Ma poco dopo questa omologazione non è più possibile perché la madre, appena riceve il bambino tra le braccia, lo guarda a lungo, lentamente, lo accarezza con la punta delle dita, lo accosta a sé e, operando un riconoscimento che ha valore esistenziale, lo dichiara figlio. Accade in quel momento una silenziosa attribuzione di soggettività, l’inserimento del nuovo nato in una storia di famiglia e un’apertura al futuro che trasformano un cucciolo della razza umana in un individuo unico, irripetibile, uguale solo a se stesso, sintesi insostituibile di possibilità e realtà.

Questa trasformazione è dell’ordine della creatività spirituale che Platone attribuisce soltanto agli uomini di valore, capaci di produrre opere immortali.

La procreazione umana è perenne in due sensi, biologico e spirituale. In quanto inscritta nel processo riproduttivo della specie va oltre il tempo individuale e, in quanto fa di ogni nato un’opera d’arte, un capolavoro irripetibile, partecipa dell’idea eterna del bello.

Lo spostamento dell’ottica dalla morte alla nascita provoca, come abbiamo visto, il riconoscimento del valore strutturante della relazione materna. Nessuno nasce solo ma anche nessuno cresce da solo.

«Tutta la vita umana sul nostro pianeta», scrive Adrienne Rich, «nasce da donna. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti uomini e donne, è il periodo di mesi trascorso a formarci entro un grembo di donna. Poiché i piccoli dell’uomo hanno bisogno di cure molto più a lungo degli altri mammiferi e poiché la divisione del lavoro […] assegna alle donne la quasi totale responsabilità di allevare i piccoli […] tutti noi abbiamo le prime esperienze di amore e di delusione, di potere e di tenerezza attraverso una donna.»

Tuttavia è difficile accettare questa priorità perché, dice Melanie Klein, la madre è il primo oggetto dell’invidia infantile e perché, prosegue Winnicott, nessuno vuole ammettere di essere stato, nei primi tempi della vita, assolutamente dipendente da una figura materna, dalla sua dedizione. Questo misconoscimento suscita negli uomini un senso di paura, paura delle donne, paura di ammettere il proprio lato passivo, femminile e materno.

In un testo straordinario come le Confessioni di Agostino si può cogliere tutta l’ambivalenza del figlio verso la madre, l’amore e il timore di un amore totalizzante, potenzialmente assoluto. Dopo essersi definito, al cospetto di Dio, terra e cenere, Agostino sembra intenzionato a procedere secondo la retorica della mistica religiosa che afferma la priorità della morte sulla vita, dell’aldilà rispetto al mondo. Ma le domande che lo incalzano lo conducono verso l’origine, anziché il termine dell’esistenza: «io non so da dove sono venuto» afferma, e «prima di essere nel grembo di mia madre ero da qualche parte, ero qualcuno?»; «da dove viene un bambino?».

Come raramente accade nei resoconti autobiografici, l’enigma dell’inizio lo sospinge dinnanzi alla «scena primaria», al congiungimento sessuale dei suoi genitori, «di lui in lei», precisa. Cui fa seguito l’ammissione, altrettanto rara, di aver vissuto nel buio delle viscere materne prima di emergere alla «vita mortale o morte vitale». Il chiasmo è significativo perché muta la concezione pagana della morte come fine nella concezione cristiana della morte come inizio, inizio della vera vita.

Tuttavia, nonostante questa prospettiva trascendente, Agostino si narra nel tempo storico e descrive i suoi primi mesi di vita neonatale con una sensibilità psicologica che rimarrà, per secoli, insuperata. Quasi imbarazzato per l’importanza attribuita all’infanzia, all’aurorale apertura del bambino al mondo e alle relazioni familiari, Agostino insiste allora sulla priorità del volere divino, sulla determinante incidenza della Provvidenza sulle azioni umane. Dell’allattamento ad esempio dice: «non erano mia madre o le mie balie a riempirsi da sé le poppe – eri tu che per mezzo loro nutrivi la mia infanzia secondo la regola che hai stabilito e le risorse che hai disposto sin nel fondo delle cose». In questa prospettiva provvidenziale, la procreazione umana diviene secondaria: il concepimento strumentale, la gravidanza un transito, la maternità un servizio perché solo da Dio vengono tutti i beni, tutta intera la salute.

Le relazioni tra gli uomini impallidiscono di fronte al rapporto verticale con Dio e, mentre la poetica agostiniana celebra la madre, la sua filosofia, di stampo platonico, la sottomette alla superiorità del Padre. Questa geometria, verticalizzante, sarà dominante per secoli e, per certi aspetti, organizza ancora il nostro modo di pensare. Ciò nonostante continuano, ai margini dei saperi istituzionalizzati, credenze antiche, rappresentazioni alternative come quelle costituite dai miti e dai riti delle Grandi Madri.

Le divinità materne congiungono tutto ciò che la cultura patriarcale ha diviso: l’essere e il divenire, la materia e la forma, il maschile e il femminile, la vita e la morte. Esse permettono di cogliere l’associazione millenaria tra le donne e la natura, tra la Madre e la Terra. Nella visione organicistica del mondo, soppiantata dal meccanicismo della modernità, era centrale l’identificazione della natura e specialmente della terra con una madre nutrice, l’alma mater. Nel nostro mondo invece, dominato dalla tecnologia e travagliato da crisi profonde, la metafora della natura come organismo è stata sostituita dalla metafora della natura come macchina. E la Terra, così come il corpo materno, è divenuta un àmbito di manipolazione e di sfruttamento.

Il tempo cosmico, astrale, che pure modula i processi del corpo femminile attraverso le fasi lunari, il ciclo delle maree, il succedersi delle stagioni, è stato cancellato dal tempo cronologico che scandisce i ritmi della vita in base a criteri di efficienza e di profitto.

In uno dei suoi saggi più enigmatici, Il motivo della scelta degli scrigni, Freud osserva che, nei miti e nelle favole, il femminile si rivela sempre sotto il segno del «tre»: le tre sorelle, le tre Ore, le tre Grazie, le tre Moire, le tre Parche. Esse raffigurano le tre posizioni che la donna occupa nella vita dell’uomo: la madre, la sposa e infine la madre-terra che lo riprende nel suo seno. Nella loro inesorabile successione l’uomo riconosce la severità delle leggi naturali cui deve sottomettere la propria persona. E conclude: «ma quando un uomo è ormai vecchio, il suo anelito all’amore di una donna, a quell’amore che a suo tempo aveva ottenuto dalla madre è ormai vano. Solo la terza delle creature fatali, la silenziosa Dea della Morte, lo accoglierà tra le sue braccia». Ma poiché la Morte è soltanto una trasfigurazione della madre, per una vita che finisce altre ne iniziano ed è pertanto nel mutare che risiede la perennità del tutto.

Ognuno di noi sopravvive in ciò che ha prodotto con il corpo e con l’anima, per cui tutti lasciamo un’orma nel tempo. Quando un uomo muore la scacchiera del mondo conserva le sue mosse e, anche se invisibili, tutte le nostre azioni sono inscritte per sempre nel gioco della storia.

Un gioco che ci comprende e travalica, che è cominciato prima e proseguirà dopo di noi. Ma senza di noi che cosa resta?

Rispondo con i versi di Nazim Hikmet: «finito, dirà un giorno madre Natura / finito di ridere e piangere / e sarà ancora la vita immensa / che non vede non parla non pensa».