NOTE

Non è una cosa seria

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 7 gennaio 1910. Nel 1912 venne inclusa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928). Nel 1917-18 Pirandello scrisse la commedia in tre atti Ma non è una cosa seria, tributaria, per gran parte dell’intrigo e dell’impianto drammaturgico, della novella del 1903 La signora Speranza, e che però trae da Non è una cosa seria non soltanto la suggestione del titolo ma anche alcuni eventi assunti come antefatti e tutta una serie di attributi caratterizzanti il protagonista Memmo Speranza, la cui persona teatrale si compone di una metà risalente all’omonimo Biagio del 1903 e di un’altra metà derivata da Perazzetti. La commedia andò in scena per la prima volta a Livorno il 22 novembre 1918.

2 Questo ritratto fa di Perazzetti l’erede dell’«estro comico» di Ciunna (v. Sole e ombra I 253 e n. 13) così come dello «spirito bislacco» di Gosto Bombichi (v. La levata del sole I 471 e n. 24), dello «spiritaccio bislacco» del suo ascendente diretto Biagio Speranza (v. La Signora Speranza II 307) così come dello «spiritaccio [...] filosofesco» di Bernardo Cambiè (v. Acqua amara III 171). Ma fa anche di lui l’allegoria vivente della forma mentis (o, come avrebbe preferito dire Pirandello, della «particolar disposizione d’animo») umoristica nella sua versione ridevole. Si rammenti quanto, discorrendo di Sterne, Pirandello aveva scritto nell’Umorismo: «Questa scompostezza, queste digressioni, queste variazioni non derivano già dal bizzarro arbitrio o dal capriccio degli scrittori, ma sono appunto necessaria e inovviabile conseguenza del turbamento e delle interruzioni del movimento organatore delle immagini per opera della riflessione attiva, la quale suscita un’associazione per contrarii: le immagini cioè, anziché associate per similazione o per contiguità, si presentano in contrasto: ogni immagine, ogni gruppo d’immagini desta e richiama le contrarie, che naturalmente dividono lo spirito, il quale, irrequieto, s’ostina a trovare o a stabilir tra loro le relazioni più impensate» (v. SPSV, p. 133). Perazzetti letteralmente incarna il temperamento umoristico: non è uno scrittore, e tuttavia si chiede anche lui come comunicare agli altri i parti bizzarri e scomposti della sua fantasia.

3 V. La casa del Granella III 157 e n. 18, ma anche, e non per caso, quest’altro passo dell’Umorismo: «Vogliamo assistere alla lotta tra l’illusione, che s’insinua anch’essa da per tutto e costruisce a suo modo; e la riflessione umoristica che scompone a una a una quelle costruzioni? / Cominciamo da quella che l’illusione fa a ciascuno di noi, dalla costruzione cioè che ciascuno per opera dell’illusione si fa di sé stesso. Ci vediamo noi nella nostra vera e schietta realtà, quali siamo, o non piuttosto quali vorremmo essere? Per uno spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o d’incosciente imitazione, non ci crediamo noi in buona fede diversi da quel che sostanzialmente siamo? E pensiamo, operiamo, viviamo secondo questa interpretazione fittizia e pur sincera di noi stessi.» (v. SPSV, p. 146). Alle spalle del passo saggistico, ed anche dunque della smaliziata cognizione di sé attribuita a Perazzetti, stanno le osservazioni contenute nella prima parte (intitolata Analisi della finzione) del libro di Giovanni Marchesini cui Pirandello, nell’Umorismo, rinvia esplicitamente (ivi, p. 147 e n.), e in particolare la notazione seguente: «La ritenutezza, il riserbo, il lasciar credere più di quanto si dica o si faccia, il silenzio stesso non scompagnato dalla sapienza dei segni che lo giustifichi, sono arti che si usano frequentemente nella pratica della vita; e parimenti il non dare occasione che si osservi ciò che si pensa, il lasciar credere che si pensi meno di quanto si pensa effettivamente, il pretendere di essere creduti differenti da ciò che si è nel fondo» (v. G. MARCHESINI, Le finzioni dell’anima. Saggio di Etica pedagogica, Bari, Laterza, 1905, p. 11).

4 Riaffiora qui con grande evidenza il motivo della stratificazione coscienziale, che peraltro non è nuovo. Se ne rammentino le nitide emergenze de L’uscita del vedovo III 276 e di Tra due ombre III 352.

5 V. Una voce II 397 e n. 20. Comprensiva anche delle considerazioni di cui alla nota 3, la riflessione di Perazzetti sulla «bestia» riaffiorerà ancora nella commedia del 1917 Il piacere dell’onestà: «Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto: tutto sta, poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione» (v. MN1, p. 571). Anche se trattata sempre con umoristica lievità, la riflessione, di matrice positivistica, sull’animalità dell’uomo, è straordinariamente insistente e risale ai primissimi anni dell’attività pirandelliana, come testimoniato fin dal Taccuino di Coazze e dall’inserto commentativo de Le tre carissime che ne deriva (v. I 87 e n. 8), del quale Perazzetti mostra di serbare puntuale memoria.

6 L’ironia sull’uomo-porco sarà sviluppata fino in fondo, nel 1916, ne Il Signore della Nave.

7 V. Richiamo all’obbligo, n. 5.

8 Può darsi benissimo che l’amico in questione non sia il narratore, il quale potrebbe essere solo un amico di quell’amico. Ma si tenga fin d’ora presente che anche ne Il treno ha fischiato... il narratore, che solo di seconda mano verrà a sapere del ricovero di Belluca in manicomio, rifiuterà di credere che il computista ribelle sia impazzito.

9 Perazzetti coltiva come un gioco irresistibile dell’immaginazione un’intuizione che era stata del fu Mattia Pascal deciso a liberarsi del proprio anello nuziale: «Il treno, in quella, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella... Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne» (v. RI, p. 410).

10 Perazzetti eredita questa debolezza dal suo predecessore Biagio Speranza, che la confessava così: «Sono un pover’uomo, signori, che per castigo di Dio s’innamora come un asino d’ogni bella donna che vede! Innamorato, divento subito capace delle più madornali sciocchezze» (v. La signora Speranza II 297).

11 La novella sviluppa una palese variazione in chiave umoristica del precedente diretto, e prossimo, di Stefano Giogli, uno e due (v. III 462). Ma la camaleontica plasticità di Perazzetti va oltre lo sdoppiamento di Stefano e lascia già intravvedere la disponibilità dell’io innamorato a smettere di essere uno per diventare centomila.

12 Per l’identico motivo dello sposare «per non prender moglie», v. La signora Speranza II 297-8.

13 Propriamente (v. Pari III 390), «bene azzampata» vorrebbe dire fornita di buone zampe, ben piantata.

14 Teneva un contegno sostenuto.

15 Il piccolo episodio malizioso è quasi uno svelamento, naturalmente negato. Per un verso, resta vero che Perazzetti è l’uomo al quale la vista della gente desta «le più stravaganti immagini» e rivela «certe strane riposte analogie», per un altro verso vero è che «Lino, il cognato, pareva fatto apposta per medesimarsi in tutto e per tutto con lui», tant’è che i due diventano «fin dal primo giorno del fidanzamento due indivisibili». E tutto andrebbe benissimo se a essere indivisibili e adattissimi a medesimarsi fossero i due fidanzati. Il guaio è che Perazzetti entra in stretta intimità amicale con Lino e rabbrividisce invece di ribrezzo all’idea di entrare in ben altra intimità con Ely quando scopre non che il «femineo» Lino somiglia alla sorella, ma che la virile signorina somiglia come una goccia d’acqua al fratello. Non l’uomo-donna lo spaventa, ma la donna-uomo; non l’intimità con quello, ma l’idea di sposare questa. E a questo punto, in forza dell’enciclopedia culturale egemone e d’una fulminea censura, gli appare «come mostruosa, quasi contro natura, quella intimità, giacché vedeva il fratello nella fidanzata». Fosse riuscito a vedere la fidanzata nel fratello, avrebbe scoperto la stravagante verità e forse evitato di doversi concedere alla spada dell’«amicissimo». Così, viceversa, il rimosso che si affaccia viene mistificato e obliterato.

16 In precedenza, fino ad allora.

17 Nella prima stampa, la «povera scema» si chiamava Maddalena. Con questo nome e quell’attributo il personaggio, che subisce peraltro radicali metamorfosi attraverso una pagina di Appunti (v. SPSV, p. 1208) e la didascalia d’apertura del terzo episodio de La favola del figlio cambiato (v. MNII, p. 1263), approderà sulla scena dell’ultimo lavoro teatrale pirandelliano, I giganti della montagna: «COTRONE La “Dama rossa”. Non tema! Di carne e d’ossa, Contessa. Vieni, vieni, Maddalena. / E mentre Maria Maddalena s’appressa, aggiunge: / Una povera scema, che sente ma non parla; è sola, senza più nessuno, e vaga per le campagne; gli uomini se la prendono, e ignora fino all’ultimo ciò che pur tante volte le è avvenuto; lascia sull’erba le sue creature. Eccola qua. Ha sempre così, sulle labbra e negli occhi il sorriso del piacere che si prende e che dà. Viene quasi ogni notte a trovare rifugio da noi, nella villa. Va’, va’, Maddalena» (v. MNII, p. 1341).

18 V. La signora Speranza II 298: «Logicissimo! [...] il signor Speranza [...] sposa per non prender moglie». La ripresa è puntuale, e però proprio questo finale, con la sua logica «conclusione», stabilisce la differenza fra la ridevole serietà e severità del rigore umoristico e le commosse ricomposizioni del realismo sentimentale. Biagio Speranza aveva in effetti sposato umoristicamente per salvarsi da «una temuta futura moglie sul serio», ma la sua vicenda non era terminata lì, e quella cosa non seria aveva finito col diventare serissima (v. La signora Speranza, n. 65). Nella storia di Perazzetti, viceversa, il movimento umoristico intermedio della peripezia di Biagio (scapolo perennemente innamorato-sposo per finta-sposo sul serio) diventa il movimento conclusivo e assurge a scioglimento umoristicamente intransigente, capace di salvaguardare l’eccentrico personaggio così dal rischio del matrimonio come da quello di prendere coscienza delle sue trasgressive propensioni sessuali. Proprio dal matrimonio contratto per non prendere moglie prenderà avvio, nel 1914, il secondo episodio delle avventure di Perazzetti, vale a dire la novella Zuccarello distinto melodista.

L’uccello impagliato

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 16 gennaio 1910. Nel 1912 venne inclusa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

Alberto Albertini, caporedattore e fratello del direttore del «Corriere della Sera», scrisse a Pirandello il 19 gennaio 1910: «Se ci è lecito farLe una raccomandazione, vorremmo dirLe che, per un giornale quotidiano ci sembra, quando è possibile, più opportuno evitare gli argomenti o troppo tristi ovvero che possano, per qualche ragione, riuscire un po’ ripugnanti. L’ideale delle novelle sarebbe: “La Giara” o “Il lume dell’altra casa”» (v. CAR, p. 147). Non risulta certo rischiarata, alla luce de Il lume dell’altra casa, l’idea di tristezza che poteva avere l’Albertini; interessante è però soprattutto la risposta di Pirandello in data 22 gennaio: «Egregio Sig.r Albertini, se avessi avuto più spazio a mia disposizione, avrei potuto render più lieve la rappresentazione della tragica e pur ridicola... intestatura di quel Picotti dell’ultima novella, che va a finir col suicidio. Così ristretta in breve, ha perduto molto di quella certa gajezza mala, che avrebbe potuto avere, ed è riuscita un po’ troppo ispida e accorante. Peccato, perché la novella non sarebbe stata brutta!» (ivi, p. 148). Curiosamente, ma non casualmente, in questa replica a chi sconsigliava argomenti troppo tristi e additava due novelle esemplari, Pirandello riusa proprio l’espressione «gajezza mala» che appena due mesi prima aveva caratterizzato il Zi’ Dima de La giara (v. III 487).

2 Il costrutto più ovvio sarebbe di richiamarlo (questa era stata del resto la scelta pirandelliana nella prima ed anche nella seconda stampa, e curioso è semmai il fatto che Pirandello abbia instaurato la variante più desueta nel 1928). Ma in proposizioni di questo tipo, e con verbi come cercare, che indicano tentativo, domanda ecc., la caduta della preposizione prima dell’infinito è (o piuttosto, era) abbastanza frequente.

3 Infrazione di lieve entità a una norma.

4 Anche i fratelli Picotti hanno costituito fin qui una perfetta coppia gemellare fondata sull’identità speculare, congegno regressivo capace di garantire il migliore rifugio e il più robusto baluardo contro l’alterità. Anch’essi vengono divisi (come già gli amicissimi di Notizie del mondo e gli inseparabili di Pari) dal sopravvenire d’una donna, dell’amore e del matrimonio, ossia da due eventi catastrofici dei quali la donna è la scatenatrice per eccellenza.

5 Nel rabbioso concetto è avvertibile un’eco sarcastica dell’immagine funeraria de La vita nuda: «La Morte non ghermisce più la Vita, ma questa anzi, volentieri, rassegnata al destino, si sposa alla Morte» (v. III 421).

6 V. gli sviluppi del motivo ne La trappola, pp. 305-6.

7 Il traliccio tematico portante e la griglia assiologica della novella appaiono qui dispiegati, e consistono precisamente nel quartetto di segni, significati e valori che l’attacco del capoverso allinea: vivere, non vivere, non morire, morire. Tutta l’esistenza anteriore dei due fratelli sopravvissuti è consistita nel lasciare sotto narcosi l’alternativa costituita dai primi due membri e nel concentrare ogni sforzo in vista di una sola meta: evitare la morte, resistere, non morire. Marco, al quale dobbiamo l’esplicitazione di questa ratio vitale dimidiata e testarda, è ancora attestato nella medesima trincea. Per lui non morire significa di per sé sconfiggere la morte e vivere. L’orizzonte della sua renitenza al fato non prevede ampliamenti. Sciocco è per lui Annibale nel momento in cui pretende di contemplare la struttura dei valori nella sua interezza quadripartita, di abbandonare temerariamente quella strenua linea di difesa e di esplorare, dopo aver asceticamente percorso uno solo dei sentieri che si spalancano al di là del non morire, quello del non vivere, il sentiero opposto, quello del vivere. Per Annibale, viceversa, la morte non viene sconfitta se non morire deve significare non vivere, ed essa diventa allora addirittura preferibile alla non vita.

8 È una delle più nitide divise dei personaggi-asceti pirandelliani, dei dimissionarî che si votano, come a suo tempo dirà Leone Gala (v. Quando s’è capito il giuoco, n. 5), ad una difesa implacabile e disperata.

9 Divani e poltrone sono, qui come altrove, numi tutelari metonimici della clausura domestica mentre, allo stesso titolo, i libri lo sono della vita guardata (letta, nel caso) e non vissuta.

10 Il volatile non identificato potrebbe venir confuso (qualora il titolo stesso della novella non lo vietasse fin da principio) con le altre suppellettili di casa sottoposte a cernita e a divisione. In realtà, annoverato fra i «ricordi di famiglia» e ritenuto «uccello [...] di buon augurio», ha per un verso la rilevanza araldica dello stemma e per un altro, come un vero e proprio écusson en abîme, il valore emblematico della mise en abîme letteraria. Nella sua apparenza è infatti cripticamente riassunta la natura e la sorte del possessore che se ne fregia. Antico (vecchiaia) e immobile sulla sua gruccia da pappagallo (ripetitività e longevità), esso è il morto che sembra vivo e l’irriconoscibile (colui che è ma non è nessuno).

11 Tamburellare.

12 Piffero (v. Natale sul Reno, n. 5).

13 Forma metatetica per scoppiettio.

14 Intontito, istupidito.

15 Protendeva.

16 V. La rosa V 144.

17 Del quale.

18 Ancora.

19 Come sappiamo bene, nel corpus pirandelliano la primavera, con le sue rifioriture, attizza non solo (e non tanto) un male come la tisi, quanto soprattutto la più pericolosa delle malattie, appunto il gusto della vita.

20 «Strumento di origine inglese (sec. XVII), composto da una serie di piccole lastre o coppe di cristallo di grandezza degradante, con la parte inferiore immersa in uno strato d’acqua, che venivano poste in vibrazione con i polpastrelli inumiditi delle dita» (Devoto-Oli).

21 Venuto infine meno il non morire come unico fine, la vita, che Marco Picotti ha sempre e perentoriamente rifiutato di distinguere dalla non vita, gli si mostra d’un tratto nella sua essenza di «stanchezza, noja, afa» ovvero, come poco sotto si vede, di spoglia imbottita di paglia. Ma, «uccello impagliato» che non ha mai avuto una identità riconoscibile (e che solo per finta ha qualche volta fischiettato «come un merlo»), che soprattutto non ha mai volato, neppure ora accetta di confrontarsi con la metà vitale dell’impalcatura assiologica: raggiunto lo scopo di non morire, è tuttavia soltanto con la morte che il suo conto resta aperto.

22 Il materiale usato per l’imbottitura, solitamente costituito da lanugine, cimature o cascami.

23 Sopravvissuto perché aveva incrollabilmente voluto non morire, il personaggio sancisce la propria vittoria, ossia l’unica possibile affermazione di sé, morendo solamente quando vuole morire. Solo così Marco Picotti si illude di avere smentito la profezia funesta (e in realtà ineluttabile) che presiedeva al suo destino come un antico oracolo ambiguo: vivrai non morirai. Egli tiene innegabilmente e furiosamente fede al motto di cui alla n. 8, ma la partita più ardua la lascia in eredità ai personaggi che di quella divisa sapranno esser degni restando in vita. Nei suicidi come il suo, infatti, il coraggio di «guardare in faccia la morte» nasconde e rinnega un supremo atto vitalistico.

24 La brusca virata umoristica del finale, con il grandioso equivoco che mette in moto l’inchiesta giudiziaria intorno a un mistero delittuoso inesistente, restituisce d’un tratto tutti gli oggetti, ed anche la curiosa fenice di quell’uccello-emblema, alla loro banale cosalità. Ciò che gli inquirenti non sanno, e non scopriranno mai, è che Marco Picotti, nel furioso delirio che ha preceduto la risoluzione suicida, aveva in effetti cercato, invano, qualcosa di straordinariamente prezioso nella paglia di quelle imbottiture: il contenuto della vita, ossia il senso e l’essenza del vivere.

Musica vecchia

1 Fu pubblicata per la prima volta su «Natura ed Arte» il 1° febbraio 1910. Nel 1914 venne inclusa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 fu ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle de Le due maschere. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), per undici quindicesimi tributario delle due raccolte precedenti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Arricciacapelli. Il calamistro è propriamente fatto di «due bacchette metalliche innestate a forbice, una delle quali a forma di canna spaccata nel senso della lunghezza» (Devoto-Oli).

3 Vampate alla testa per un afflusso di sangue particolarmente intenso.

4 L’incongruo corsivo viene instaurato a partire dal 1914. Poiché Pirandello ebbe ben due occasioni di restaurare il tondo, lo mantengo soltanto per non commettere un arbitrio correttorio.

5 Si tratta delle battute orchestrali, animate da una concitazione crescente, che introducono alla scena II del secondo atto del Tristano e Isotta di Richard Wagner e che esprimono l’impazienza e l’ansia della protagonista nell’attesa di veder comparire Tristano. In termini scenici, il «segnale ansioso» è costituito dal fazzoletto che Isotta agita con frequenza via via maggiore.

6 Solidamente piantato sulle gambe.

7 Ad aureola. V. Il «fumo» II 439.

8 V. E due! I 553 e n. 14. Il «faccione brozzoloso, paonazzo» assimila il ritratto greve del tedesco Begler a quello, degradante e ripugnante («quel faccione rosso brozzoloso»), del russo depravato Luculloff della novella del 1901.

9 Il narratore, che pure non si concede estesi spazi d’intervento commentativo, non risparmia, sul registro oggettivante della descrittività ritrattistica, pennellate pesanti e crudeli né all’uno né all’altro membro della coppia Milla Donnetti-Hans Begler, assai curiosamente assortita. Dell’una ha messo a fuoco «il visetto sciupato di vecchia bambola dagli occhi troppo grandi, dal nasino troppo piccolo», ossia la sgradevole incongruità e la sproporzione, dell’altro mette in risalto la rozzezza pesante e sciatta, la bruttezza quasi ripugnante, una certa aggressiva e lubrica animalità. Il destino allegorico e narrativo di personaggi siffatti è segnato fin da principio.

10 Protese.

11 Quasi non si vedeva.V. Nel segno, n. 2.

12 Fece un profondo inchino. Ma l’atto del vecchio è démodé come l’espressione che lo denota.

13 Frequentatore, nel romanzo Suo marito (v. RI, pp. 658-9), del salotto della marchesa Lampugnani, dove si improvvisano quartetti e si eseguono «Tchaikowsky, Dvorak... e poi, si sa, Glazounov, Mahler, Raff».

14 No, no! – Va da sé che, dopo il diniego in tedesco, la battuta di Begler è tutta giocata caricaturalmente sulle canoniche deformazioni fonetiche d’un tedesco che parla italiano.

15 Una carrozza.

16 Rifugiatosi papa Pio IX a Gaeta, presso i Borboni di Napoli, la Costituente romana aveva proclamato, il 9 febbraio 1849, l’avvento della repubblica, e il potere era stato assunto dal triumvirato democratico composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Contro la proclamazione della decadenza del potere temporale dei papi, Pio IX s’era peraltro appellato agli stati cattolici europei, e proprio la Francia, repubblicana ma conservatrice, del principe-presidente Luigi Napoleone, inviò un forte corpo di spedizione contro la repubblica romana. Attaccata di sorpresa ai primi di giugno, Roma repubblicana resistette quasi un mese, ma il 1° luglio la Costituente fu costretta ad accettare la capitolazione.

17 Il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, successore del reazionario Gregorio XVI, eletto papa (in concorrenza diretta col segretario di stato ed erede politico di quest’ultimo, il cardinale Lambruschini) col nome di Pio IX il 6 giugno 1846, era stato per numerose ragioni, in parte fondate e in parte speciose, ritenuto un pontefice ben disposto verso le idee liberali. E l’inizio del suo pontificato non fece che confermare quest’opinione. Il «voltafaccia» avvenne il 29 aprile 1848, quando Pio IX rivolse al collegio dei cardinali una allocuzione nella quale dichiarava di non potere, per ragioni pastorali, muovere guerra a uno stato cattolico, e contemporaneamente ordinò il ritiro delle proprie truppe inviate in appoggio a Carlo Alberto contro l’Austria.

18 La variazione è vistosa e Icilio Saporini non è un reduce glorioso, né è questo, soprattutto, il punto focale della novella, ma la storia eroica di cui sussurra la flebile voce dell’ottuagenario rammenta ugualmente Il guardaroba dell’eloquenza e il bisbiglio del vecchio Bencivenni: anche i suoi ricordi repubblicani sono «musica vecchia» agli orecchi della generazione successiva, e l’ignoranza di Milla è una trasparente allegoria della rapida dimenticanza che ha investito le stazioni dolorose e luminose del patriottismo risorgimentale.

19 Pietro Sterbini (1795-1863) fu effettivamente medico, poeta e patriota. Da membro della Carboneria, prese parte anche ai moti del 1831. Iscrittosi poi alla Giovine Italia, dopo aver trascorso alcuni anni da fuoruscito in Corsica e in Francia, tornò a Roma, proprio in seguito all’amnistia concessa da Pio IX, nel 1846. Deputato nel governo pontificio presieduto da Terenzio Mamiani e però schieratosi apertamente coi democratici, venne in effetti accusato d’aver partecipato all’assassinio di Pellegrino Rossi. Costretto un’altra volta all’esilio, lo Sterbini respinse sempre tale accusa, anche dalle pagine dei giornali francesi. Per comporre le remote e confuse memorie del maestro Saporini, Pirandello dovette servirsi di qualche storia o cronaca dei torbidi e tumultuosi anni di Roma tra il 1846 e il 1849. Una di queste potrebbe essere l’opera ponderosa di GIUSEPPE SPADA, Storia della rivoluzione di Roma e della restaurazione del governo pontificio dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1849, 4 voll., Firenze, Stabilimento G. Pellas editore, 1868-70. Lo Spada (1796-1867), romano, fu un lealista dichiarato ma anche un testimone presente agli eventi dei quali intraprese nel 1858 la documentata narrazione. Anch’egli congettura una responsabilità, quanto meno morale e ideologica, dello Sterbini. Scrive ad esempio (vol. I, p. 503): «Quanto alla stampa di genere serio basterebbe rammentare quell’articolo veementissimo che sotto il titolo Ingannare e corrompere, compilò lo Sterbini, e che inserì nel Contemporaneo. Si disse che quell’articolo avesse aguzzato il pugnale che doveva uccidere il Rossi»; e, ancor più esplicitamente (p. 508): «Lo Sterbini e il Canino mostraronsi operosissimi in quella occasione, e figuravan fra i capi del complotto».

20 Nato nel 1787 a Carrara, il Rossi fu avvocato, professore di diritto a Bologna e di economia politica al Collège de France. Ebbe una lunga e avventurosa carriera politica, prima nel governo murattiano, poi in Svizzera e infine in Francia. Dal 1845 ambasciatore di Luigi Filippo d’Orléans (re dei Francesi dall’agosto del 1830 al 1848) presso la Santa Sede, dopo la caduta della cosiddetta «monarchia di luglio» e la proclamazione della «seconda repubblica» in Francia, Pellegrino Rossi era rimasto a Roma ed era diventato ministro dell’Interno e della polizia di Pio IX nel settembre del 1848. Non andò però a buon fine il suo tentativo di applicare la politica del juste-milieu che era stata del Guizot, e che a lui valse sia l’ostilità dei clericali che l’odio dei democratici: il 15 novembre 1848 il Rossi venne assassinato mentre si recava all’Assemblea nel Palazzo della Cancelleria.

21 Si sospetta in effetti che sia stato Luigi Brunetti a pugnalare a morte Pellegrino Rossi. Angelo Brunetti (1800-1849), detto Ciceruacchio, era un carrettiere trasteverino che, dopo l’ascesa al soglio di Pio IX, divenne il più attivo e popolare agitatore politico di tendenza democratica e fu ritenuto fra i responsabili dell’attentato al Rossi. Dopo la caduta della repubblica romana, alla cui difesa partecipò coraggiosamente, tentò di raggiungere Venezia insieme a Garibaldi, ma venne catturato sul Po e fucilato insieme al figlio tredicenne Lorenzo.

22 Scrive lo Spada (Storia della rivoluzione di Roma, cit., vol. I, p. 509): «Discende dal cocchio, alcuni ex legionarî se gli fanno d’appresso, e formano due ali compatte a piedi della scala: sente percuotersi in una gamba, si volta, ed una mano omicida vibra risolutamente un colpo di pugnale sul suo collo e fende la carotide».

23 Ripetta, popolare quartiere di Roma: v. Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, n. 3.

24 Per quanto riguarda questi e i precedenti personaggi, tutti storici, a vario titolo legati alla congiura sfociata nell’assassinio politico del Rossi, si tenga presente che Pirandello avrebbe potuto benissimo consultare il Ristretto del processo Rossi, che fu pubblicato e che anche lo Spada cita più volte.

25 Fuochi d’artificio ruotanti. V. Il vitalizio I 503.

26 «Razzo che va a incendiare fuochi artificiali, correndo lungo un cavo orizzontale» (Devoto-Oli).

27 Anniversario della fondazione. E nel 1846 Roma compiva 2600 anni. Stando alla testimonianza dello Spada, si direbbe che Pirandello anticipi di un anno la festa la cui restaurazione fu promossa da Pietro Sterbini nel 1847. Lo storico ne parla come del banchetto che ebbe luogo «alle terme di Tito sul monte Esquilino [...] il giorno 21 di aprile 1847 per solennizzare il natale di Roma nell’anno 2601 della sua fondazione», e ne spiega i moventi: «Diremo per tanto che vago ed innamorato il poeta Sterbini, come più o meno lo siam tutti, delle patrie grandezze, escogitò di solennizzare il natale di Roma; e siccome l’argomento portava a richiamare di necessità le storiche reminiscenze che riscaldar potessero le menti, divisò di farlo all’aria aperta, ed in tale situazione da poter distintamente vedere il Colosseo ed il Foro romano. Vario però fu lo scopo che si propose instaurando la festa del natale di Roma. Farne prima di tutto una festa duratura anche per l’epoca avvenire: richiamare l’attenzione della romana gioventù a cose più serie [...] Ma un altro scopo pure aveva, ed era quello di distruggere la festa gioviale e burlesca che dai Tedeschi davasi annualmente in un luogo della campagna romana chiamato Cerbaro, ove i Romani ed i forestieri alacramente affluivano» (v. G. SPADA, Storia della rivoluzione di Roma, cit., vol. I, pp. 207-8).

28 Figura storica anche la sua. Così racconta lo Spada (op. cit., vol. I, pp. 173-4) la dimostrazione politica in forma di festa per il capodanno del 1847: «Il punto di riunione, al solito, la piazza del Popolo. I veri capi invisibili, ma i soliti. Dovevan farne parte tutti gli univeristarî, molti amnistiati, i frequentanti il caffè delle Belle Arti, parecchi artisti valenti, e alcuni manipoli di popolani. Uno dei capi visibili, fu l’amnistiato C. Matthey, ed uno il famoso Ciceruacchio. [...] Schieratisi sulla piazza, cantarono per la prima volta l’inno detto della Sacra Bandiera, perché una bandiera recavan con loro. Detto inno venne cantato costantemente dopo, finché fu supplantato da quello dello Sterbini [...] Le parole erano del romano Filippo Meucci, e la musica del maestro Gaetano Magazzari di Bologna, il quale durante tutta la rivoluzione (presente o assente il papa) fu il maestro di musica del movimento romano».

29 V. ancora lo Spada (op. cit., vol. I, p. 209): «Ebbe dunque luogo [...] il succitato banchetto, al quale intervennero più di ottocento persone oltre ad un numero immenso d’individui muniti di biglietto d’ingresso, per assistere semplicemente alla festa».

30 È questo uno dei punti tematici nodali. Oggettivata attraverso lo sguardo esterno ed estraneo di Milla, la vita del fragile maestro di musica diventa la vicenda fantasmatica d’una perenne ed esiliante marginalità, quella d’«uno sperduto» cui né il presente né il passato conferiscono statuto di consistenza, che non può più essere e non è mai stato nessuno perché la realtà di un tempo non serba tracce della sua presenza e nella realtà attuale la sua lievità d’ombra non ha la forza di incidere alcuna traccia.

31 Celebre barcarola popolare napoletana, di autore anonimo, trascritta a metà dell’Ottocento da Teodoro Cottrau.

32 Ricondotta alle sue coordinate realistiche, la vicenda di Icilio Saporini è quella d’una partenza a vent’anni e d’un ritorno ad ottanta, separati da una sessantennale parentesi d’esilio oltremare, in terra straniera. Due enormità, quella spaziale e quella temporale, scavano l’abisso fra il passato domestico e il presente irriconoscibile, fra un tempo-luogo heimlich e l’Unheimliche orroroso del ritorno. Ma, restituita per congettura («chi sa quanto vagheggiato», «ma forse») all’ottica soggettiva del protagonista, la vicenda vale a costituire narrativamente uno dei grandi motivi allegorici pirandelliani, quello dello spaesamento, la cui essenza – rispetto alla quale tempo e spazio sono solo operatori e rivelatori narrativi – consiste nel disorientamento e nella perdita di consistenza dell’io, il quale non riesce più ad essere in sé e a toccare una realtà riconoscibile come propria. Stretta fra un passato eroso e ossidato dal tempo ed un presente che corrode come un acido, la sostanza dell’io viene disfatta e vanificata. Che in questo consista l’essere sperduti era del resto già stato dimostrato dieci anni prima dalla peripezia d’un altro ancor più umile musicante, il flautista da banda paesana Micuccio Bonavino (v. Lumíe di Sicilia I 454-5).

33 Strada del centro storico di Roma, parallela a Corso Vittorio Emanuele.

34 Gioacchino Rossini (1792-1868), il geniale operista e compositore pesarese che è il rappresentante per antonomasia della musica italiana del primo Ottocento.

35 Rosina è la protagonista dell’opera comica di Rossini Il Barbiere di Siviglia (1816), Amina quella de La sonnambula (1831) di Vincenzo Bellini.

36 Pur senza rispettare rigorosamente la cronologia, il vecchio maestro allinea la schiera dei massimi operisti e compositori italiani: Giovanni Paisiello (1740-1816), Giovan Battista Pergolesi (1710-1736), Vincenzo Bellini (1801-1835), Gaetano Donizetti (1797-1848), Giuseppe Verdi (1813-1901).

37 Il grande compositore russo Pëtr Il’ič Čajkovskij (1840-1893), anche lui operista, oltreché autore di molta musica strumentale.

38 La breve scena raccontata nei paragrafi precedenti è lì a dimostrare che l’impressione di musicale disagio potrebbe ben essere del vecchio maestro, ma suo non è certo il linguaggio tagliente e beffardo che la esprime («non so che languida diavoleria» e, più oltraggioso ancora, «l’incubo d’un malato»): s’è appena sentito il mite Icilio Saporini ammettere che per quei forestieri quella «è la loro musica; la sentono così, amen». L’ottica esterna che presiede a questo capoverso non appartiene a lui: egli trova dunque un alleato neppure troppo recondito, e molto più aggressivo di lui, nel narratore, e a farne le spese è, al posto di Wagner, Čajkovskij. Pirandello, che in gioventù s’era entusiasmato all’ascolto del Tannhäuser (v. GG, p. 120), aveva in seguito rivisto in senso negativo il proprio giudizio sulla poetica e la musica di Wagner. Già nel 1893, in Arte e coscienza d’oggi, aveva utilizzato la moda wagneriana come esempio del «malessere intellettuale» dei tempi presenti: «Aspettiamo, e invano, pur troppo! che sorga finalmente qualcuno ad annunziarci il verbo nuovo. E intanto ci volgiamo ora a questo, ora a quel banditore, che berciando con enfasi molta, promette mari e monti, e nulla ottiene naturalmente. Da ciò il sorgere improvviso delle più bizzarre baracche in questa internazionale fiera della follia; castelli di sabbia, cui il menomo soffio atterra; glorie improvvisate, che durano un giorno come i giornali; mode, scuole, combriccole, sorte travolte e scomparse in un momento. Ieri il realismo e il naturalismo, oggi il simbolismo e il misticismo, domani chi sa che cosa. Avete assistito ad un’opera del Wagner? Musica da matti, dicevan jeri. Sublime musica, dicon oggi. Non si capisce bene. Oh ma chi sa che profonda filosofia c’è lì dentro. Che lì dentro ci sia finalmente il senso della vita? E giù tutti allora per la china del wagnerismo, alle ricerche di questo senso della vita» (v. SPSV, p. 875). E in uno dei Foglietti pubblicati da Corrado Alvaro nel 1934, non Wagner stesso ma il wagnerismo sarà compreso tra i fenomeni artistico-culturali fastidiosamente artificiosi: «Incontro ai realisti che si prefiggono di non dir nulla stanno quelli che vogliono dir troppo: filosofi, predicatori, sacerdoti dell’Idea. Prima di fare un quadro, un poema, un melodramma, essi ne scrivono il commentario. E quando l’opera è finita abbiamo davanti una sfinge, un enigma. Certa musica detta wagneriana, certi drammi, certi romanzi o raccolte di versi della scuola cosiddetta simbolista, certi quadri o rebus senza prospettiva, senza colore, dai contorni secchi, ce ne offrono purtroppo affliggenti esempii. L’arte non ha nulla di comune con questo simbolismo pedantesco, oscuro e pretensioso» (v. SPSV, p. 1221).

39 La celebre ballata del Duca di Mantova nel primo atto del Rigoletto (1851) di Verdi.

40 Il wagneriano Begler allude evidentemente alla ritmica fortemente sottolineata dell’allegretto verdiano in 6/8, per lui volgare e degna solo di accompagnare, come una fanfara, il passo di corsa dei bersaglieri.

41 Nominazione schernevole, e deprecativamente onomatopeica, delle cadenze arpeggiate o degli arpeggi iterati di tre note, frequenti negli accompagnamenti delle arie e cabalette dell’opera italiana e che suonano facili, sdolcinati e fastidiosamente ripetitivi agli orecchi del musicofilo avvenirista di fede wagneriana. È noto che Richard Wagner imputava all’opera italiana proprio una sorta di «frenesia cadenzale» (v. F. LIPPMANN, Versificazione italiana e ritmo musicale. I rapporti tra verso e musica nell’opera italiana dell’Ottocento, Napoli, Liguori, 1986, p. 269 e n.).

42 Suonò in rapidissima successione tre note ascendenti (presumibilmente tonica, terza e dominante).

43 I tasti più acuti.

44 Incipit d’un famoso duetto del secondo atto (quadro secondo) della Norma (1831) di Bellini: «Mira, o Norma, a’ tuoi ginocchi / questi cari tuoi pargoletti». L’esempio del patetico andante belliniano non è il più adatto a fornire esca alla polemica musicologica del tempestoso violoncellista; ma egli ha scommesso di riuscire a mettere sempre, «in tutta musika fostra», il pirolì, e la sua sottolineatura ridicolizzante, a bella posta esagerata, suona pertanto particolarmente oltraggiosa. Lungo un altro canale, quello della memoria di lettura pirandelliana, la scelta di Bellini e di Norma come bersagli della beffa potrebbe essere stata suggerita dal ricordo d’un episodio di contorno della novella capuaniana del 1885 Ribrezzo, nella quale la protagonista ama eseguire la «musica strana» di Berlioz e sfoga la propria ambascia facendo «urlare, turbinare, squillare dal pianoforte la Cavalcata delle Walküre del Wagner». L’episodio cui si allude, e che precede di poco la catastrofe narrativa, è il seguente: «Quella pace interiore le fioriva fuori, sul volto, in più sorridente vivacità degli occhi, in più facile zampillo della parola che riprendeva la gentile festività nelle conversazioni serali, quando Fasciotti veniva lassù accompagnato da due o tre ufficiali del suo reggimento, ed ella – dopo il the – cedeva di buona voglia all’invito di suonare qualche pezzo della solita musica indiavolata, come diceva il tenente Gusmano che in fatto di musica capiva soltanto quella del suo compatriotta Bellini: / – Il Dio della musica!... E Dio ce n’è uno solo! / – Les dieux s’en vont – gli rispondeva Giustina, ridendo. E per fargli dispetto si metteva a strapazzare un’aria della Norma, o una cavatina della Sonnambula: / – Tralalalliero, tralalalà! – / Né finiva il pezzo, ma attaccava subito, vigorosamente, la sinfonia del Vascello fantasma, un coro del Lohengrin, o qualcosa di simile. / – Bum! Bum! Bum! Bum! – replicava Gusmano – È musica questa? – / E Fasciotti rideva insieme con altri, dando ragione alla signora» (v. L. CAPUANA, Racconti, vol. I, a cura di E. Ghidetti, Roma, Salerno editrice, 1973, pp. 469-70).

45 Pietro Metastasio (1698-1782), successore di Apostolo Zeno come poeta cesareo a Vienna, autore di melodrammi celeberrimi (sebbene spesso mal musicati) e di più di un migliaio di arie e ariette per musica.

46 Strada romana del centro storico che corre dal Largo di Torre Argentina alla Piazza della Minerva, alle spalle del Pantheon.

47 Pirandello rievocherà affettuosamente Musica vecchia e la morte di Icilio Saporini nella prima parte de La tragedia d’un personaggio (v. p. 233).

Benedizione

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo La benedizione, sul «Corriere della Sera» il 5 febbraio 1910. Nel 1914 venne inclusa nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e nel 1920 fu ristampata in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che recupera sedici delle diciotto novelle de Le due maschere. Entrò infine a far parte dell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), per undici quindicesimi tributario delle due raccolte precedenti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1), che instaura anche il titolo definitivo Benedizione. Nella lettera ad Alberto Albertini del 22 gennaio 1910 (v. anche L’uccello impagliato, n. 1), con la quale Pirandello replicava ad alcune osservazioni e richieste della direzione del «Corriere della Sera» e alla quale accludeva La benedizione, si legge: «Procurerò che le nuove [novelle] siano più gaje, o che, se tristi, abbiano almeno qualche gentilezza e soavità di poesia. Ma non dipende sempre da me! I soggetti nascono come i figliuoli, per un germe che la Vita lascia cadere nella matrice della fantasia. Talvolta il germe è irrimediabilmente triste, ed è allora una vera passione maturarlo e far che – venuto alla luce – sorrida anche mestamente e si faccia tollerare. Cure e carezze, da parte mia, non gliene mancano mai, nell’allevarlo. Ma capisco ch’io sono per lui come la mamma, e che gli altri non han tutto quest’obbligo di pazienza e di compassione. / Basta. Eccole qua quest’altra novellina: La benedizione. M’è venuto fuori questa volta un figliuolo prete. Speriamo che non dispiaccia» (v. CAR, p. 148).

2 Frazione distante 5 chilometri da Nocera (v. sotto la n. 6).

3 O beneficio curato. È la «prebenda o rendita mobiliare o immobiliare, annessa a una cura (e comporta per chi ne gode il compito del governo pastorale di una comunità di fedeli: come il beneficio parrocchiale» (GDLI).

4 Ridotto in totale povertà (v. Il «fumo» II 439 e n. 29).

5 Tonaca (v. «In corpore vili» II 202).

6 Nocera Umbra, piccolo centro a una sessantina di chilometri ad est di Perugia.

7 Ombrosa, indocile.

8 Più comune “barroccio”: carretto o carrozzino a due ruote, adibito di solito al trasporto di cose (ma v. anche Con altri occhi, n. 7).

9 V. L’altro figlio, n. 10 e Il Signore della Nave V 295.

10 Deporre la uova.

11 Nel Nuovo vocabolario italiano domestico (Milano, 1869) di Giacinto Carena si legge: «‘Calza’, strisciolina di panno di un determinato colore, che le donne cuciono attorno a una delle gambe de’ loro polli vaganti, per contrassegnarli e distinguerli da altri». Ed è in questa accezione che Pirandello accoglie il termine, sebbene calze siano dette anche le «penne che possono trovarsi sui piedi di alcune razze di polli» (Devoto-Oli). L’elemento connotante vale a marcare il fatto incontrovertibile che quelle galline sdegnose sono meglio calzate della «serva scalza» e a sottolineare ulteriormente l’umoristica equivocabilità che confonde animali e uomini.

12 Propriamente, braccare significa stanare o far levare la selvaggina con l’aiuto dei cani.

13 V. Volare III 398 e n. 5.

14 V. Richiamo all’obbligo, n. 21.

15 Tricorno, vecchio cappello a tre punte dei preti.

16 «Sonaglio sferico d’ottone con una fessura e una sferetta o un sassolino all’interno» (Devoto-Oli).

17 Casa parrocchiale.

18 V. l’analoga e coeva attualizzazione del motivo ne Il viaggio, p. 150: «[...] quando pioveva era una festa: tutte le donne mettevan fuori conche e buglioli, vaschette e botticine».

19 Placandosi.

20 Minestra scipita e acquosa.

21 Il sintagma riaffiora lungo i canali della memoria interna: a un «porcellone satollo e pago», renitente a scuotersi dal sonno, veniva assimilato il contadinotto Gerlando di Scialle nero (v. II 476), a un «padre abate satollo e pago» somigliava, al risveglio, il Bernardo Cambiè di Acqua amara (v. III 168). Don Marchino, prete un po’ porco che si gode la sua confortevole digestione, evoca ed eredita a buon diritto la dittologia attributiva.

22 È espressione del parlato, e dialettale, che definisce lo stato di inorridito smarrimento di chi è vittima di un influsso maligno o di una fattura.

23 Muovere, fare.

24 S’era rannicchiato, raggomitolato.

25 V. Quand’ero matto... II 213-4: «Ricordo ancora l’impressione che mi fece, quella notte, l’improvviso spettacolo della natura quasi tutta in fuga, nell’urlante veemenza del vento. Fuggivano squarciate pel cielo, con disperata furia, le nuvole, a schiera infinita, e pareva si trascinassero seco la luna pallida dallo sgomento; gli alberi si scontorcevano stormendo, cigolando, spasimando senza requie, come per sradicarsi e fuggire pur là, pur là, dove il vento portava le nuvole, a un tempestoso convegno».

26 In attesa.

27 Poiché la credenza superstiziosa vuole appunto che il malocchio sia dovuto allo sguardo malefico di persone dedite a pratiche magiche e diaboliche, la formula latina dello scongiuro invoca la liberazione a malis oculis, “dagli occhi maligni”.

28 Uscì di casa (è un’accezione regionale siciliana).

29 Curvate in fuori.

Pensaci, Giacomino!

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 23 febbraio 1910. Due anni più tardi fu compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912) e, infine, entrò a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928). La stampa della novella provocò le risentite proteste di alcuni lettori del «Corriere», che se ne sentirono turbati moralmente. Pirandello dovette venire prontamente informato del piccolo scandalo e fu indotto, come già per L’uccello impagliato (v. n. 1), a discolparsi e a reagire. Il 2 marzo 1910 scrisse ad Alberto Albertini: «Egregio Signor Albertini, non può credere quanto dispiacere m’abbia arrecato la notizia delle noje derivate al Corriere per mia cagione! Son cascato dalle nuvole! Ha dunque ragione il D’Annunzio quando parla della veneranda virtù dei contemporanei? Ma qui non si tratta neanche di virtù: si tratta di somaraggine! Quel povero professor Toti non è per niente immorale: è soltanto ridicolo, e tanto più ridicolo, quanto più egli crede di agire moralissimamente. Egli agisce come un buon padre verso il genero scapato. Bastava capire questo soltanto: che il marito in lui non esiste più; ed è così chiaramente detto in principio de la novella! Dato il sentimento suo, egli agisce come più moralmente non si potrebbe: e appunto in questa sua moralità consiste l’umorismo della novella, nel credersi egli ormai il padre della propria moglie e il nonno di quel piccino e nel difendere l’una e l’altro, che vede in pericolo per la sventatezza – crede lui – di Giacomino; mentre la causa del male è lui, il ridicolo di cui si copre per quel sentimento suo paterno, il ridicolo che allontana Giacomino dalla casa di lui. Come non si è capita così la novella? Creda pure, che son rimasto a bocca aperta nel sentir le ire ch’essa ha suscitato... Le prometto, caro Signor Albertini, che manderò la mia fantasia a far gli esercizii spirituali prima di farmi dettar da lei una nuova novella» (v. CAR, p. 150). Si deve esser grati alle ansie ideologiche costanti, e puntualmente espresse, della direzione del «Corriere della Sera» se, in questa prima fase della collaborazione di Pirandello al giornale, sono state capaci di provocare le repliche esplicite (v. anche Benedizione, n. 1) di uno scrittore che altrimenti si sarebbe ben guardato dall’autocommentarsi. Sul caso di Pensaci, Giacomino!, interessante è anche la lettera di solidarietà che Ugo Ojetti scrive a Pirandello il 3 marzo 1910 (ivi, pp. 55-6). Nel febbraio-marzo del 1916, Pirandello cavò dalla novella la commedia in tre atti in dialetto siciliano Pensaci, Giacuminu!, destinata alla compagnia di Angelo Musco, che la mise in scena per la prima volta al Teatro Nazionale di Roma il 10 luglio di quello stesso anno (se ne veda ora il copione apografo in TD1, pp. 25-92). Nel 1917, Pirandello provvide a una prima trasposizione in italiano della commedia, che stampò nel maggio-giugno in «Noi e il Mondo» e l’anno successivo nel primo volume delle Maschere nude (Milano, Treves). La seconda e definitiva stesura italiana venne pubblicata nel 1925 (Firenze, Bemporad). Entrambe sono ora leggibili in MN1, rispettivamente alle pp. 777-830 e 273-338. Il testo teatrale, confezionato su misura per esaltare le doti dell’attore siciliano, è certamente brillante (specie nel primo atto, vivace e ricco di trovate, e nel gustoso colloquio del protagonista con padre Landolina nell’atto secondo), ma perde buona parte della stringata incisività di quello novellistico e, soprattutto, non trova modo di sottrarsi a un lieto fine patetico-comico a effetto che viene a sostituire il monito perentorio ma sospeso sul quale si concludeva, assai più persuasivamente, il racconto. Dopo quanto già detto a proposito di Lumíe di Sicilia e di Ma non è una cosa seria, è il caso di osservare che, se il teatro minore pirandelliano è largamente debitore verso la novellistica, con i frequenti prestiti che ne ha avuto ha assai raramente – e pressoché mai quando l’operazione è consistita nella conversione diretta e massiccia di titoli narrativi in valuta teatrale – realizzato profitti cospicui.

2 Il segnale d’incidenza incipitale motiva in qualche modo da solo la ragione per cui la storia del professor Toti viene raccontata al presente, ossia secondo un protocollo discorsivo che (eccettuato il caso ben noto e specifico del cosiddetto presente storico) è quasi un ossimoro narrativo, nel senso che il tempo presente è normalmente un segnale di non narrazione. Il settantenne professore, che pure ha badato a regolare tutti i suoi conti col passato e ha predisposto ogni cosa sia per lo scarso futuro proprio che per quello incalcolabile, e per lui postumo, dei suoi beneficati, viene letteralmente imprigionato nel presente dall’incrinatura repentinamente intervenuta nella pace e nel riso cui pretende d’aver diritto. È questa allarmante frattura in atto l’argomento del discorso novellistico, non la storia pregressa, e un presente inquieto e persecutorio è il tempo adatto a quest’ultima imprevista e abruptiva peripezia.

3 Nello scrigno chiuso dell’avverbio «quasi» è contenuto discretamente tutto ciò che di non paterno può essere trascorso nel cuore del vecchio e che, non tradottosi in atti, non può essere tradotto in parole.

4 V., in altra situazione, l’analogo moto materno in Nel dubbio III 342: «Ah, per perversa che sia una moglie, e quantunque nemica, a torto o a ragione, del proprio marito, vorrebbe aver sempre la certezza che appartiene a questo il frutto delle proprie viscere, non foss’altro per non sentir lo strazio della menzogna incosciente su le tenere e pure labbra della propria creaturina!».

5 Verbalizzata in termini di coscienza del personaggio, è quasi una proposizione di poetica quella che il passo esprime. L’opposizione fra l’ilarità dei maligni e il sentimento serio del professor Toti configura quella fra il genere comico-grottesco e il genere patetico-sentimentale cui la singolare vicenda potrebbe essere ascritta. Ma, come già è stato detto, il protagonista è filosofo, e perciò capace così di vedere lucidamente la risibile stranezza della propria situazione come l’autenticità dei propri affetti: la sua ottica è dunque quella tipica dell’umorista; nel caso anzi quella d’un auto-umorista.

6 V. Sole e ombra, n. 11.

7 Imposte (v. L’onda, n. 21).

8 Se ne burla (v. La signorina, n. 11).

9 Si scervella.

10 Turbata (v. La veglia, n. 3).

11 Sta male. Bua è voce infantile onomatopeica per significare “male”, “dolore”.

12 I pugni (v. Un invito a tavola, n. 15).

13 Farsi una posizione.

14 V. Scialle nero, n. 26.

15 Sei uscito di senno.

16 Ti ha dato di volta.

17 Qui casca Giacomino. Toti, in forza del candore delle sue intenzioni e della sua filosofica e senile comprensione delle cose, ha oltrepassato senza turbamenti, ancorché implicitamente vilipeso, gli steccati dell’apparire sociale per puntare all’essere. Giacomino, che pure è giudicato dal benevolo professore «tra i più valenti alunni del suo liceo», non è affatto capace di seguirlo su questa strada e gli oppone la vecchia esigenza, ipocrita e gretta, di tenere accuratamente separati l’essere e l’apparire e di rispettare prioritariamente quest’ultimo. E, perseguitato dal ridicolo seguíto alla pubblicizzazione di ciò che doveva restare nascosto, il conformista Giacomino è già andato anche oltre, fidanzandosi e ripudiando senz’altro l’essenza pur di cucirsi addosso l’abito di un’apparenza socialmente rispettabile.

18 V. Una voce, n. 16.

19 Non è una minaccia da poco quella del professor Toti, poiché, se è vero che l’apparenza può facilmente obliterare e occultare l’essenza, in regime di separazione-opposizione fra essere ed apparire, è anche vero che l’esibizione dell’essenza vanifica e distrugge l’apparenza.

20 Sta tutta qui la forza del professor Toti di contro alla complementare debolezza di Giacomino. Egli sa bene di non poter piegare l’ordine reale e sociale ad accogliere la grande utopia della perfetta corrispondenza-identità di apparire ed essere, né fa alcun tentativo in questa direzione (come invece qualcuno dei santi-matti del corpus), ma non teme minimamente di affrontare la vergogna ridevole di chi sia disposto a far vedere lo squallore vergognoso della convenzione che li vuole separati e contrapposti.

21 L’etica umoristica della novella vuole che essa termini al di qua dello scioglimento del dilemma. Giacomino resta inchiodato sul suo Aventino, stretto fra due minacce entrambe fondate sulle regole del medesimo contratto sociale.

Il professor Terremoto

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 10 aprile 1910. Nel 1915 fu compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) e, infine, entrò a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Quel giorno, tra le 5.19 e le 5.20 del mattino, un terremoto violentissimo colpì la zona dello stretto distruggendo Messina e Reggio Calabria. I morti furono più di centodiecimila.

3 V. Acqua amara III 176 e n. 32.

4 Pulito e ben curato. L’espressione quasi rimata, che inclina all’ironia, allude ad una eleganza affettata e azzimata.

5 Sbalordito (v. anche L’uccello impagliato, n. 14).

6 Si sciolse, distese le membra. È variante di sgroppare, che vale “sciogliere un viluppo, un nodo” (da groppo). Il moto del nervoso viaggiatore è il movimento d’uscita dal suo precedente accasciarsi «col mento affondato sul petto» tenendosi strette le braccia.

7 Sbotto, scatto improvviso.

8 Coronata, aureolata (latinismo aulico).

9 V. La signora Speranza, n. 8.

10 È un curioso gioco straniante quello che Pirandello instaura per il tramite del suo narratore-testimone settentrionale. Nella tessitura delle voci del racconto, è del tutto verosimile che un passeggero del nord trovi «tormentosamente dialettici» i rabbiosi e desolanti sofismi del professor Terremoto, ma, in termini metanarrativi e metatestuali, ciò che Pirandello concede al suo personaggio-narratore è di interpretare ironicamente i meridionali, dunque anche lui, siciliano e scrittore che di quella «saettella di trapano» fa, e anch’egli certo «non per una fredda esercitazione mentale», largo uso. Questo raziocinio inteso ad «acquistare, più profonda e intera, la coscienza del [...] dolore» rinvia d’altronde alla difficoltà d’averne coscienza piena e alla follia lucida che minaccia l’uomo che non vi riesca. Nel 1915, il personaggio di Berecche (sull’autobiografismo del quale v. FVN, pp. 153-4), pur straziato dalla partenza del figlio per il fronte, è indotto dopo sei giorni alle seguenti considerazioni: «Berecche ora sostiene che non soffre più nulla, proprio più nulla. Al massimo, ecco, può ammettere, ammette d’avere l’idea astratta del suo dolore. L’idea astratta, forse sì. Ma non del suo dolore propriamente. Del dolore d’un padre, così in genere, a cui sia accaduto quello che è accaduto a lui. In realtà però non sente nulla. Piange, sì... forse, ma come un commediante, come un commediante su la scena per l’idea soltanto del suo dolore, non perché lo senta. Si figura di sentirlo e lo dà a vedere. Che c’è da spaventarsi, se dice così? La prova più convincente è questa: ch’egli ragiona, ra-gio-na; è in grado di ragionare perfettamente, perfettissimamente» (v. Berecche e la guerra V 203). Nel 1923 il dottor Calajò di Acqua e lì (v. VI 172) fa un’analoga esperienza: «E allora il dottor Calajò può sperimentare in sé il più spaventoso dei fenomeni: la coscienza, lucidissima, d’essere impazzito. / Ha l’idea astratta del suo dolore, vale a dire del dolore di un padre che abbia perduto a poche ore di distanza due figliuoli; ma gli pare di non sentire nulla realmente, e che pianga come un commediante sulla scena, per l’idea soltanto della terribile sciagura che gli è toccata; piange, infatti, e si dà del buffone e poi sghignazza e grida che non è vero e che non sente nulla». Ha ben ragione d’essere, dunque, e d’essere tormentosa, la dialettica del professor Terremoto. Per un simile gioco straniante rivolto invece contro l’esuberante passionalità meridionale, si veda invece Effetti d’un sogno interrotto (VI 350), l’ultima novella scritta da Pirandello.

11 V. Personaggi, n. 8.

12 Già Lando Laurentano, erede sterile di una schiatta di eroi, aveva svolto considerazioni altrettanto amare ne I vecchi e i giovani: «Ah, in verità, sorte miserabile quella dell’eroe che non muore, dell’eroe che sopravvive a se stesso! Già l’eroe, veramente, muore sempre, col momento: sopravvive l’uomo e resta male. Guaj se non scoppia l’anima con veemenza, investita da quel vento propulsore che la gonfia, la sforza e le fa assumere a un tratto una terribile maschera di grandezza! Dopo quello sforzo, caduto il vento, l’anima violentata non sa, non può più ricomporsi nelle sue naturali proporzioni, non trova più il suo equilibrio: qua ancora abbottata e intumidita, là floscia, ammaccata, casca da tutte le parti e, come un pallone in cui si sia consumato lo stoppaccio, incespica e si straccia in tutti gli sterpi della via dianzi sorvolata» (v. RII, pp. 308-9). La teorizzazione dell’eroismo rabbiosamente svolta dal viaggiatore irrequieto dipana un viluppo tematico fondamentale e si affatica intorno al nodo d’una contraddizione che sta nel cuore stesso di quel viluppo. La sua analisi dell’attimo eroico, contrapposto all’aneroica durata del vivere quotidiano, evoca tutta una serie di termini marcati che si raccolgono e si richiamano l’un l’altro a formare la volatile costellazione semantica dell’eroismo. Sono termini che nella loro forma sostantivale (libertà, scioltezza, lievità ecc.) designano stati e nella loro forma aggettivale (fervido, infiammato, fluido, agevole ecc.) predicano attributi o qualità. L’«ebbrezza divina» dell’eroe consiste nel provare tutti insieme quegli stati d’animo; e nel ritrovarsi opimo di tutte quelle qualità risiede la sua virtù di sublimazione. Non c’è che un’altra divampante condizione che assomigli alla «fiamma dell’eroismo», ed è il fuoco divorante dell’innamoramento, nel quale l’essere fonde e diventa «come un liquido vetro», come «una pasta molle» (v. Stefano Giogli, uno e due III 461-2 e n. 15), nel quale la vita irrompe «in subbuglio nell’anima per tutti i sensi commossi ed esaltati quasi per un’ebbrezza divina» (v. Il viaggio, p. 157), nel quale «un attimo si fa eterno e abolisce ogni cosa, anche la morte, come la vita, in una sospensione d’ebbrezza divina, in cui dal mistero balzano d’improvviso illuminate e precise le cose essenziali, una volta e per sempre» (v. Visita VI 300). L’eroismo è in questo senso una sorta di innamoramento senza oggetto o di narcisismo sublime e generoso. Questo stato di fusione-leggerezza sembra corrispondere alla definizione stessa della vita, e della pienezza vitale, che nel 1912 darà, rabbioso e amaro quanto il professor Terremoto, il ragionatore feroce de La trappola: «La vita è il vento, la vita è il mare, la vita è il fuoco; non la terra che si incrosta e assume forma. / Ogni forma è la morte. / Tutto ciò che si toglie dallo stato di fusione e si rapprende, in questo flusso continuo, incandescente e indistinto, è la morte» (v. p. 305). Ma la contraddizione è a un passo, in agguato, perché il «pantano della vita ordinaria» non è innamoramento-eroismo, non è «aria fervida e infiammata» ma vischiosa palude «irta sempre di piccoli ostacoli, innumerevoli e spesso insormontabili, e assillata da continui bisogni materiali, e premuta da cure spesso meschine, e regolata da mediocri doveri» (terra fangosa, dunque, e non vento, acqua, fuoco), e perché l’eroismo come l’innamoramento non producono se non danni e infelicità: la vita ordinaria è morte, ma la vita sublime rende male per bene e dolore per piacere. Lo stato di fusione, auspicato e invocato (v. La trappola, n. 12) come una salvezza contro l’immobilità cadaverica delle forme, è nel contempo lo stato caratteristico dell’innamorato e dell’eroe, e comporta assoggettamento ai capricci-trappola degli altri, perdita d’identità, frustranti ricadute. Bisognerebbe paradossalmente essere in fusione ma non innamorati e non eroi, ossia non vivi; oppure bisognerebbe essere innamorati solo di se stessi ed eroi a proprio esclusivo vantaggio, per poter godere in libertà e solitudine dello stato di fusione della propria anima. L’io dovrebbe essere un sole solitario che contempla la propria luce e la propria vitalità. Preso nella trappola del suo atto eroico, il povero professor Terremoto pesca, come già Stefano Giogli e Perazzetti innamorati, come poi l’intrappolato del 1912 («La trappola, per noi uomini, è in loro, nelle donne. Esse ci rimettono per un momento nello stato d’incandescenza, per cavar da noi un altro essere condannato alla morte. Tanto fanno e tanto dicono, che alla fine ci fanno cascare, ciechi, infocati e violenti, là nella loro trappola»; v. La trappola, p. 306) in un crogiolo tematico che vive dell’energia che sprigiona dalla propria stessa irriducibile contraddittorietà. Al fondo, gli istanti di vita non ordinaria che l’eroismo come l’innamoramento rappresentano, sono il luogo sublime d’un disumano paradosso, il luogo dove vita e morte, i contrari per eccellenza, si toccano. Non sarà un caso se i più tetragoni e tragici fra i personaggi pirandelliani (il Leone Gala de Il giuoco delle parti, il protagonista senza nome di Enrico IV, il Cotrone dei postremi Giganti della montagna) rifuggirano dall’amore e dall’eroismo. Nel 1922, l’amaro rancore antieroico del professore riaffiorerà, distribuito dialogicamente e ricontestualizzato, in Vestire gli ignudi, nella confessione di Franco Laspiga, ex-tenente di vascello ed ex innamorato, e nelle considerazioni dell’anziano e stanco romanziere Ludovico Nota: «FRANCO. Perché io, appunto per non “esaltarmi troppo”, come lei dice, l’ho tradita, tradendo prima di tutti me stesso! Ho lasciato il mare, il mare, per affogare così, qua, nel pantano della vita ordinaria. LUDOVICO Eh, purtroppo, a un certo punto... FRANCO (con crescente foga) No! No! quando ci lasciamo persuadere che non è possibile vivere come s’è sognato, e che è difficile, inattuabile quello che nel sogno ci pareva facile. Facile, tanto che si toccava! LUDOVICO Già! Ma perché in certi momenti, caro signore, l’anima si libera di tutte le miserie comuni. FRANCO Ecco, sissignore! LUDOVICO. Balza su dai piccoli ostacoli dell’esistenza quotidiana; e non ne avverte più i minuti bisogni e si scrolla d’addosso cure meschine e mediocri doveri. FRANCO. Benissimo! E così sciolta, così libera, respira, palpita in un’aria fervida, infiammata, ove anche le cose più difficili, le dicevo, diventano facilissime. LUDOVICO E tutto è fluido e agevole, come in un’ebbrezza divina. Sì. Ma sono momenti, caro signore! FRANCO (subito con forza) Perché l’animo nostro cede, non sa resistere: ecco perché! LUDOVICO (sorridendo) No no. Perché lei non sa che bei tiri le giuoca e che scherzi le combina, che graziose sorprese intanto le prepara la sua anima, respirando, palpitando nell’aereo fervore di quei momenti, sciolta d’ogni freno, destituita d’ogni riflessione, accesa, abbagliata in quella fiamma di sogno. Lei non se n’accorge: ma un bel giorno – un brutto giorno – si sente tirato giù» (v. MN, pp. 902-3).

13 È il nome dell’ateneo romano.

14 Affidavamo.

15 Colpito da paralisi.

16 Caparbia, ostinata.

17 Per il valore anti-realistico di queste sciagure iperbolicamente realistiche, v. Dono della Vergine Maria I 410 e n. 2; e se ne veda un ulteriore esempio ne Il treno ha fischiato V 82.

18 Una suocera è sempre un male: basta il beffardo dizionario delle idées reçues a stabilirlo (ma v. Lo storno e l’Angelo Centuno, p. 143). Una «suocera immortale» è una punizione diabolica. E infatti, per il povero genero, questa suocera diventa il fantasma allegorico vivente, e implacabilmente persecutorio, del destino sciagurato e difforme determinato dal suo nefasto atto d’eroismo. Ad un analogo orrore si sentirà sottoposta, molti anni più tardi, la Dreetta di Pubertà, «sicura che la nonna, sempre con quel pugno sotto la gola, non sarebbe mai morta» (v. VI 222). Ma, immortalità a parte, v. il precedente di Formalità II 418 e n. 5, e anche II 432, dove l’artificio allegorico è svelato e un personaggio vede appunto in un «omiciattolo sbricio, quasi artefatto, estremamente ridicolo, la personificazione del suo sconcio destino».

19 I gomiti (v. «In corpore vili», n. 2).

Lo spirito maligno

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Una piastra e quattro centesimi, sul «Corriere della Sera» il 22 maggio 1910, e successivamente ristampata, con il titolo definitivo, nel sesto volume delle «novelle per un anno», In silenzio (Firenze, Bemporad, 1923).

2 Nome italianizzato del porto algerino orientale di Annaba.

3 Alacre (v. Visitare gl’infermi, n. 20).

4 Sono i connotati ben noti di Porto Empedocle. V. Lillina e Mita, n. 3 e, per una serie di dettagli ripetitivi, Lontano II 79-80 (e NUAI, p. 1509), nonché Un matrimonio ideale V 111.

5 Per un verso riaffiora il fantasma di Gabriele Orsani, protagonista di Formalità; per un altro verso nell’universitario strappato agli studi e, sotto, nell’innamoramento del Noccia, trascorrono frantumi di memorie vagamente autobiografiche (v. GG, pp. 66-9).

6 Affrancare. V. Difesa del Mèola, n. 16.

7 Impuntatura, puntiglio. V. anche Due letti a due III 455.

8 Quest’idea ossidionale echeggia probabilmente ancora la lettura (in traduzione francese e finalizzata alla stesura de Il fu Mattia Pascal) di Charles Webster Leadbeater, Le Plan Astral, premier degré du Monde invisible, d’après la Theosophie, Paris, Publications Théosophiques, 1899, alle pp. 102-5 del quale libro si legge: «Les pensées de la plupart des hommes sont si indécises et si vagues que les élémentals qui en résultent n’ont guère plus de quelques instants d’existence; mais une pensée qui se reproduit souvent, ou un désir très vif forment un élémental qui peut vivre plusieurs jours. Puisque c’est généralement à nous-mêmes que nous pensons le plus, les élémentals résultants demeurent en quelque sorte autour de nous, et tendent constamment à provoquer la répétition de l’idée qu’ils représentent, parce que cette répétition, quoique n’engendrant pas de nouveaux élémentals, renforce les premiers, leur donne un surcroît de vie. Un homme, donc, qui revient souvent sur le même désir se crée un compagnon astrale, entretenu par sa propre pensée, qui peut le hanter, l’obséder pendant des années, acquerir de plus en plus d’influence sur lui; d’où il suit que, si le désir en question est d’un ordre mauvais, l’effet sur la nature morale de cet homme peut être du caractère le plus désastreux. Lorsque les pensées s’adressent à autrui, les résultats en sont encore plus notables, parce qu’ils ne s’appliquent alors pas au penseur, mais à l’objet des pensées. [...] Tout ce qui a été dit sur les effets des bonnes pensées ou les désirs amicaux s’applique analoguement en sens contraire aux pensées et désirs mauvais; lorsque l’on considère un instant la quantité d’envie, de haine, de malice et de malveillance qui existe de par le monde, l’on se rend compte aisément du grand nombre de terribles créatures qui doivent exister parmi les Elémentals artificiels! Un homme dont les pensées ou les aspirations sont méprisables, brutales, sensuelles, avaricieuses, ne peut pas se déplacer dans le monde sans entraîner partout avec lui un milieu empesté qui lui est propre, qui est peuplé des êtres dégoûtants qu’il s’est donnés pour compagnons; ce milieu n’est pas seulement un danger pour lui-même, mais aussi pour tous ceux qui ont le malheur d’être en rapport avec lui, par le risque de contagion morale qu’il implique. Un sentiment d’envie ou de haine envers une autre personne projette une influence mauvaise qui s’attache à cette personne et cherche en elle le point faible pour agir» [I pensieri della maggior parte degli uomini sono così indecisi e vaghi che gli elementali che ne risultano non hanno che pochi istanti d’esistenza; ma un pensiero che si riproduce spesso, o un desiderio molto vivo, formano un elementale che può vivere per diversi giorni. Poiché è a noi stessi che generalmente pensiamo di più, gli elementali risultanti permangono in certo modo intorno a noi, e tendono costantemente a provocare la ripetizione dell’idea che rappresentano, perché tale ripetizione, pur non generando nuovi elementali, rafforza i primi e conferisce loro un sovrappiù di vita. Dunque, un uomo che ritorna spesso sul medesimo desiderio, si crea un compagno astrale, nutrito dal suo stesso pensiero, il quale può abitarlo e ossessionarlo per anni e acquisire un’influenza sempre più forte su di lui. Ne consegue che, se il desiderio in questione è d’ordine maligno, l’effetto sulla natura morale di quell’uomo può avere le caratteristiche più disastrose. Quando i pensieri sono rivolti agli altri, i risultati sono ancor più rilevanti, perché allora non investono chi pensa, ma l’oggetto dei suoi pensieri […] Tutto quanto è stato detto sui pensieri positivi o sui desideri amichevoli si applica analogamente, alla rovescia, ai pensieri e ai desideri malvagi. Se si considera per un istante la quantità di invidia, di odio, di malizia e di malevolenza diffusa nel mondo, ci si rende agevolmente conto del gran numero di creature terribili che devono esistere tra gli Elementali artificiali. Un uomo i cui pensieri o le cui aspirazioni sono spregevoli, brutali, sensuali, ingenerose, non può circolare nel mondo senza trascinare con sé dovunque il contesto impestato che gli è proprio, popolato degli esseri disgustosi che quell’uomo si è formato per compagni; e quel contesto è un pericolo non solamente per lui stesso ma, dato il rischio di contagio morale che implica, anche per tutti coloro che hanno la sventura d’essere in rapporto con lui. Un sentimento d’invidia o di odio verso un’altra persona proietta una influenza maligna che si attacca a quella persona e ne cerca il punto debole per agire]. Il passo citato fa parte del medesimo paragrafo, intitolato Elémentals formés inconsciemment, parafrasato in parte da Mattia Pascal nella prima stampa del romanzo (v. RI, pp. 1010-1) e in parte tradotto dal dottor Leandro Scoto nella novella Personaggi (III 299).

9 Colti alla sprovvista, frastornati. V. La ricca I 75.

10 Boccale (v. Sua Maestà, n. 12).

11 Portamonete.

12 Moneta d’argento da cinque lire.

13 Serpente innocuo e agile. V. Di guardia III 136.

14 Ciocche arruffate di capelli.

15 Monete d’oro (così dette perché coniate originariamente a Torino dopo la battaglia di Marengo del 1800).

16 Non è serio infatti credere a uno «spirito maligno». Nella prima stampa, toccava al funzionario di polizia che arresta il Noccia trarre le conclusioni: «– Ecco, – diceva a se stesso, sorridendo, il saggio delegato, dopo l’interrogatorio. – È questione spesso di chiamar le cose con un nome anziché con un altro. Tutto sommato, può esser anche un’idea chiamare il furto spirito maligno» (v. NUAII, p. 1004). Carlo Noccia sconta come un peccato di hybris la fatua volontà di passare per astuto e disonesto e, in forza di quella fatuità, finisce vittima di una cattiva fama che è diventata, a sua insaputa, coazione a ripetere. Desideroso di essere accettato e rispettato in un paese di ladri e di mentitori, egli ha mentito una volta e s’è giocato per sempre la possibilità di venir creduto dicendo la verità. Incapace di capire che maligno è stato lo spirito suo, soggettivo ed interiore, che gli ha suggerito la prima menzogna, egli finisce con l’oggettivarlo e farne, proiettandolo fuori di sé, un demone persecutorio. E quel poco serio demone lo fa arrestare per furto e lo fa impazzire.

La Lega disciolta

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 giugno 1910, e nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves), in entrambe le stampe col titolo La lega disciolta. Entrò infine, con la Lega del titolo maiuscola, a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad, 1928).

2 Il fez, ossia il «copricapo di lana a forma di cono o di calotta appiattita, con un fiocco di cordoncini neri o blu, tradizionale nei paesi arabi del Mediterraneo» (Devoto-Oli). In spregio al fallimento della poesia della cristianità, anche il mago Cotrone de I giganti della montagna indosserà «un vecchio fez da turco» (v. MNII, pp.1313 e 1329).

3 V. La mosca, n. 10.

4 Bastoncino.

5 Il narratore fa i nomi di questi proprietari nobili per accrescere l’effetto di realtà del suo racconto, ma un po’ anche come se quei nomi titolati dovessero essere ben noti al lettore. E, nel caso, potrebbero qualora il lettore abbia presente l’onomastica del corpus novellistico: l’elegante marchese Nigrelli e il barone Ragona, nominati l’uno di seguito all’altro, sono infatti suocero e genero nella novella del 1902 Tanino e Tanotto.

6 Pascolo collinare.

7 Recinto a cielo aperto.

8 Che aveva appena partorito.

9 Vitellino (dal vezzeggiativo latino bucellus, a sua volta formato su buculus, diminutivo di bos).

10 Vedi sotto, p. 126: «tre “tarì” al giorno (lire 1,25)»; e v. La berretta di Padova, n. 6.

11 Al figurato, l’espressione (calco dell’omologo modo di dire dialettale siciliano jittari ‘u sangu) vale “si rompe le ossa dalla fatica”, “si sfinisce di lavoro”.

12 Dallo spuntare.

13 Zulì Bombolo ha organizzato e dirige una lega sindacale contadina in puro stile mafioso. E in termini squisitamente mafiosi, ossia fondati tacitamente sul ricatto e sull’estorsione, egli gestisce trattative salariali e compone vertenze.

14 La conforto informandola. La lingua di questa novella contadina aderisce, italianizzandole senza tuttavia obliterarle, a strutture sintattiche e lessicali del dialetto.

15 Giovanotti, uomini (v. Le medaglie, n. 19). Ma nella fattispecie non è fuor di luogo rammentare che con picciotto viene anche designato il membro di grado più basso d’una cosca mafiosa.

16 Benevolenza, generosità.

17 Magazzino (v. La casa del Granella, n. 38).

18 Il quartiere di San Gerlando è il ripido rione girgentano, tutto a vicoli, che digrada dal poggio della cattedrale. V. Il vitalizio, n. 67 e La verità, p. 331: «[...] ritornato a casa fradicio e inzaccherato, una sera di sabato, dalla campagna sotto il borgo di Montaperto nella quale lavorava tutta la settimana da garzone, aveva trovato uno scandalo grosso nel vicolo dell’Arco di Spoto, ove abitava, su le alture di San Gerlando».

19 Mance.

20 Vasettini.

21 In attesa (v. Benedizione, n. 26).

22 Uno dei promontori che delimitano l’insenatura di Porto Empedocle (v. NUAIII, p. 915: «Oltre il porto, il mare si stende vastissimo, rischiarato dalla luna, fino all’orizzonte chiuso a sinistra da Punta Bianca, a destra da Monte Rossello, in ampio semicerchio»). V. anche Il vitalizio, n. 28, Lillina e Mita, n. 3 e la prima stampa de La morta e la viva: «Punta Bianca, che s’allunga su l’aspro azzurro come il capo d’un niveo enorme cetaceo dormente» (NUAIII, p. 1255).

23 Fattori.

24 Vera e propria associazione politico-sindacale, sul modello dei Fasci dei lavoratori costituitisi in Sicilia durante il primo governo Giolitti (1892-93) e poco dopo la fondazione, nel 1892, del partito socialista dei lavoratori italiani. Pur appoggiati dai socialisti, i Fasci siciliani non furono associazioni di ispirazione marxista e rappresentarono piuttosto la rabbiosa reazione contadina e proletaria alla miseria che s’era venuta ancora aggravando nel periodo del governo Crispi. Sono queste le vicende storiche che Pirandello tratteggia nel romanzo I vecchi e i giovani.

25 Nel caso, i dirigenti più combattivi.

26 Come il Titta Marullo della novella La balia (v. II 233-4). Francesco Crispi, tornato al governo alla fine del 1893, decretò lo stato d’assedio in Sicilia e represse duramente il movimento dei Fasci, i cui capi furono deferiti in giudizio dinanzi ad una corte marziale e subirono condanne pesantissime.

27 Nell’ottica di Bòmbolo (della quale è veicolo una focalizzazione interna dominante) questa mafia apostolica, non violenta e molto georgica, è il solo modo di amministrare in Sicilia una giustizia vera ed equa e di correggere gli squilibri sociali. Un padrino disinteressato e autorevole, che gode della fiducia cieca d’una delle parti e sa rispettare, rispettato, l’altra parte, incarna l’unico possibile arbitro fra le contrapposte esigenze. L’implicita immagine dell’autorità e delle istituzioni dello Stato è complementarmente sempre la medesima, nel corpus pirandelliano: quella d’una inefficienza distratta e iniqua, dalla quale rifuggono sia i poveri che i ricchi.

28 Custodia di cartone legata con un nastro.

29 «Libro in cui erano elencati, a nome del rispettivo possessore, tutti i beni di un comune con il corrispondente valore, sulla base del quale si calcolava la decima» (GDLI).

30 A modo suo, Bòmbolo supplisce, registri alla mano e dopo accurata istruzione d’ogni pratica, a compiti di esazione e di redistribuzione della ricchezza completamente disattesi dal governo e dalla pubblica amministrazione. Il suo è, umoristicamente, un prelievo fiscale forzoso in piena regola, e non estorsione.

31 Crosta. Nel Taccuino di Coazze è annotato: «Roccia, il sudiciume su la scorza del cacio» (v. SPSV, p. 1205).

32 Si spalancava vuota.

33 Terrosa (v. La veglia, n. 22).

34 Faceva il suo verso, gracidava.

35 Il lavoro cui si sobbarcava a loro beneficio.

36 V. Il vitalizio, n. 48 e Il «fumo», nn. 32 e 88.

37 Stupido, sciocco.

38 Non vedeva l’ora (v. La signorina I 161).

39 Impietrito.

40 Sissignore (v. anche Alla zappa! II 163).

41 Bombetta di forma tondeggiante.

42 Il re-arbitro, l’intransigente apostolo ha smentito se stesso abdicando al proprio potere e s’è dimostrato un profeta candido. Era lui stesso a ritenere amaramente che l’unica giustizia possibile fosse, «senza né patti né condizioni», quella d’un arbitrato super partes che imponeva ai contadini di lavorare e ai padroni di pagare secondo coscienza. E proprio lui, candidamente, si illude che, tolta di mezzo la sua severa sovranità, la giustizia gli sopravviva come regola naturale d’un mondo di padroni e di servi. In realtà, con Zulì Bòmbolo abdicatario ed esule scompaiono l’etica intransigente del suo apostolato e l’evangelica mafia dei poveri, e sopravvivono, insieme, soltanto lo sfruttamento e il ricatto: in prospettiva, un mondo di padrini e di padroni esosi. Per un verso, la buonafede tradita di Bòmbolo somiglia alla buonafede non creduta del coevo Carlo Noccia de Lo spirito maligno; per un altro verso, la «giusta» del sabato sera nel fondaco di San Gerlando sembra adombrare il rito civile comunitario d’una cittadella d’utopia, e la storia della Lega somiglia alla leggenda d’una mitica mafia buona, nemica delle iniquità e della cattiva giustizia, travolta insieme al suo pacifico messia dalla nequizia d’un «paese di carogne». Il narratore, che non s’è mai compromesso con il suo re-sacerdote ma non gli ha negato una tacita simpatia, per il fatto stesso di raccontarne l’ineluttabile rovina pare avere una visione ancora più amara di quella di Bòmbolo e ritenere che nessuna giustizia sia possibile.

43 V. La maestrina Boccarmè, n. 4.

Leviamoci questo pensiero

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 19 luglio 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Il motivo della spettacolarità inevitabilmente teatrale, per quanto sincera, della manifestazione delle passioni, è destinato a ricomparire più volte, sia nel corpus novellistico che altrove. V. quantomeno Piuma V 335: «Ella ascoltò da prima sbigottita; ma poi, protraendosi a lungo lo spettacolo un po’ teatrale di quella disperazione pur sincera, non ascoltò più»; Jeri e oggi VI 70: «Era senza dubbio esaltato; accennava a quel suo misterioso discorso con quel signore sconosciuto, come per nascondervi un proposito che aveva intanto un ben curioso effetto: quello di fargliela vedere, come da fuori, a lui stesso, la sua esaltazione mascherata di calma, e di fargliene forse provare ora rimorso, ora fastidio, di fronte alla nuda schiettezza, alla commozione forte e muta del figlio che soffriva del pianto della sua mamma e le faceva coraggio più con le carezze che con le parole»; e Pena di vivere così VI 97: «e restava lì, Dio, restava lì, certo con la vergogna, ora, del suo atto teatrale mancato, che pur avrebbe voluto sostenere fino all’ultimo perché vi era stato trascinato dalla foga d’un sentimento sincero». Ma l’affioramento tematicamente più complesso e carico di conseguenze (perché connesso a un altro motivo di grande peso, quello dello sguardo autoptico straniato che può portare a insanabili fenditure dell’io), è certamente quello che si ritrova nel primo atto di Enrico IV, per il quale v. Pena di vivere così, n. 20.

3 Questa predicazione (rassegnazione/testardaggine) costituzionalmente contraddittoria basta a fare di Bernardo Sopo un personaggio segnato da stigmate tematiche non comuni. Il comparante asinino per l’umana rassegnazione verrà recuperato nel 1914 per il Belluca de Il treno ha fischiato... (v. V 80): «cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte». Nel 1917, viceversa, ricorrerà ne Il piacere dell’onestà per illuminare la connaturata doppiezza dell’uomo: «Volerci in un modo o in un altro, [...] è presto fatto: tutto sta, poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione. – Vada a persuader l’asino a non andare rasente ai precipizii: – si piglia nerbate, cinghiate, strattoni; ma va lì, perché non ne può far di meno. E dopo che lei l’ha bastonata, pestata ben bene, le guardi un po’ gli occhi addogliati: scusi, non ne sente pietà? – Dico pietà; non scusarla! – L’intelligenza che scusi la bestia, s’imbestialisce anch’essa. Ma averne pietà è un’altra cosa! Non le pare?» (v. MN1, p. 571). La stessa temeraria caparbietà dell’asino è evocata anche in uno degli appunti del Taccuino segreto: «Gli animali non hanno opinioni? Non è un’opinione quella dell’asino di camminare rasente i precipizii?» (v. TS, p. 5). Ancora un’altra è la motivazione per l’ultimo transitorio affioramento della medesima testarda consuetudine degli asini: transitorio perché, presente nella prima stampa in rivista (gennaio 1919) de Il giuoco delle parti, viene cassato fin dalla ristampa in volume dello stesso 1919. Dice il protagonista Leone Gala: «[...] Nel mezzo, la vita, Dio mio, è come tutti la vivono, comune, usuale. Il sapore della vita, tu lo sai, è, come il rischio, nei margini, sui limiti rasenti i precipizii, dove gli asini materialmente, e moralmente le donne si struggono di camminare» (v. MN2, p. 882). E la congiunzione, repentinamente instaurata, fra sapore della vita, rischio e morale femminile è degna di segnalazione.

4 Titolo obbligazionario dello stato.

5 Molla.

6 In uno dei Foglietti pubblicati da M. Lo Vecchio-Musti è conservato un primissimo appunto della novella: «Erano le ineluttabili necessità naturali. / Urtava perciò quell’omino» (v. SPSV, p. 1233).

7 Divanetto (v. La signorina, n. 32).

8 Offrire.

9 Filosofia desolata e smaniosa quella di Bernardo Sopo, il quale, circondato dalla tenebra, e dunque dal vuoto, li esorcizza con la surrogatoria e tormentosa evasione di tutte le quotidiane «necessità dell’esistenza», che obliterano quel vuoto con una maniacale affannosa pienezza.

10 Frusta.

11 Affannato, smanioso (v. anche In silenzio III 240).

12 Il capoverso merita d’essere sottolineato per intero, perché verbalizza in termini paradigmatici ed esemplari un motivo la cui ricorrenza sfiora la pervasività, quello appunto dell’ansia di un’attesa ignota, coniugato (come quasi sempre avviene) con quelli del senso di sospensione e della sensazione di vuoto. Quella descritta è una delle angosciose condizioni di soglia (v. Formalità, n. 17) che invischiano i personaggi fra un prima connotato e un dopo sconosciuto o, come qui, fra le cose fatte e il «presentimento vago» di qualcosa da fare. L’«ansia inquieta, quasi d’ignota attesa», emersa nel 1901 con la prima stampa de La levata del sole (v. NUAII, p. 1400), riemersa come «l’ansia d’un’attesa ignota» nella prima versione de La casa del Granella (v. NUAI, p. 1223), stringe nel 1909 i due protagonisti de Il lume dell’altra casa: «L’uno di faccia all’altra, benché avessero entrambi schivato di guardarsi e avessero quasi finto davanti a se stessi d’essere alla finestra senza alcuna intenzione, tutti e due – ne era certo – avevano vibrato dello stesso tremito d’ignota attesa, sgomenti del fascino che così da vicino li avvolgeva nel bujo» (v. III 507), prima di dispiegarsi qui in tutta la sua portata. Anche in seguito il sintagma ricorrerà, come un senhal tematico, ne La trappola (v. p. 303: «sospesi nell’orrore di quell’ignota attesa»), in Ignare (v. p. 399: «Era ancora come stordita dalla sciagura. Non concepiva affatto l’orrore che ne provavano le altre due; e le guardava e le spiava negli occhi, quasi sospesa in una paurosa, ignota attesa»), ne La veste lunga (v. p. 425: «Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto, quella smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a colmarglielo, quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?»; e p. 427: «L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, dove, in che si sarebbero fermate?»). E questi sono soltanto i rinvii cui perentoriamente obbliga la ricorsività d’un medesimo sintagma, poiché il motivo situazionale denominabile come sospensione-attesa ricorre in numerosissimi altri testi: il corpus è anzi letteralmente disseminato di spasimi d’attesa, di angosciose aspettazioni, di silenzi d’attesa, di terrori e smanie legati ad oscure aspettative. A puro titolo d’inventario, le novelle che registrano affioramenti più o meno rilevanti del motivo sono nell’ordine: «Vexilla Regis...», La maestrina Boccarmè, La paura del sonno, Come gemelle, Senza malizia, La casa del Granella, Dal naso al cielo, Un cavallo nella luna, Stefano Giogli, uno e due, Felicità, La trappola, Il coppo, Ignare, La vendetta del cane, Zuccarello distinto melodista, O di uno o di nessuno, La camera in attesa, La mano del malato povero, Piuma, Il pipistrello, Pubertà, Uno di più, Un’idea, La casa dell’agonia. E quest’elenco non tiene conto dei numerosi casi nei quali il predicato dell’attesa migra per metonimia dai personaggi agli oggetti e agli arredi domestici, ossia alle cose legate agli uomini da lunga consuetudine.

13 Piccolo schermo di cuoio fissato alla briglia all’altezza degli occhi del cavallo (o del somaro) per evitare che si adombri.

14 Prima di Bernardo Sopo, dell’inconcludenza eterna della natura s’era naturalmente venuto convincendo Luigi Pirandello, che nel 1909 aveva intitolato Non conclude una noterella saggistica stampata sul trisettimanale politico-militare «La Preparazione» (la si può ora rileggere, con una premessa di Giancarlo Mazzacurati, nell’appendice ad AA.VV., Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, Pisa, Nistri-Lischi, 1990, pp. 437-9), noterella nella quale, in relazione al vano bisogno di concludere che agita l’uomo, si ritrova anche l’«attesa smaniosa» dalla quale l’individuo è preso non appena s’è appunto levato qualche pensiero. Il passo di riferimento, che costituisce con tutta evidenza la filigrana ipotestuale dei tre capoversi novellistici che precedono questa nota, è il seguente: «E l’uomo si accorge allora, che per un pezzo, per venire a una conclusione, s’era imposto quasi un paraocchi, che gli escludeva la vista delle altre cose intorno. Ora, caduto il paraocchi, la mèta raggiunta si vede come sperduta tra tutte quest’altre cose intorno, che chiamano, attirano e tolgono il piacere della giunta. / – Che ho concluso? – si domanda allora l’uomo. / Ma il riconoscimento più forte di non aver concluso nulla avviene quando, astraendoci dalle contingenze effimere, dalle brighe quotidiane, dalle passioni, dai desideri, dai doveri che ci siamo imposti, dalle abitudini che ci siamo tracciate, abbattiamo i limiti illusorii della nostra coscienza presente, allarghiamo i confini della nostra abituale visione della vita, ci solleviamo spassionati a contemplare e a considerare da una altezza tragica e solenne la natura. / È il riconoscimento dei vecchi, che appunto al grembo eterno della natura si riaccostano. / E da questo riaccostarsi alla natura deriva il riconoscimento. / Perché la natura, nella sua eternità, non conclude. E noi che siamo in lei, che siamo lei stessa, ma che per alcun tempo ci siamo visti e considerati come parti per noi medesimi staccate e distinte, quando s’approssima il momento di rientrare e di perderci in essa, nella sua eternità, riconosciamo vana, illusoria, arbitraria ogni conclusione nostra, riconosciamo che veramente non concludiamo nulla. Rimane eterna dopo ciascuno di noi la natura: eterna appunto perché non conclude». Nel medesimo intorno di tempo, analoghe considerazioni svolge nel romanzo I vecchi e i giovani (v. RII, pp. 509-10) don Cosmo Laurentano, e a identiche non-conclusioni perverrà fra non molto (nel 1913) Memmo Viola, il cuoco-filosofo di Quando s’è capito il giuoco (v. p. 442 e n. 14). E Non conclude si intitolerà nuovamente, addirittura nel lontano 1926, il quarto e ultimo capitolo del conclusivo ottavo libro di Uno, nessuno e centomila, il romanzo estremo nel quale, sulla traccia di remote considerazioni provenienti da L’umorismo (v. SPSV, pp. 151-2) e che, nella noticina de «La Preparazione», erano già accostate alle riflessioni sull’inconcludenza, si legge: «La facoltà d’illuderci che la realtà d’oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall’altro ci precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d’oggi è destinata a scoprircisi illusione domani. E la vita non conclude. Non può concludere. Se domani conclude, è finita» (v. RII, p. 800).

15 Pranzettino.

16 Andavano fuori dai gangheri (v. Richiamo all’obbligo III 306 e n. 16).

17 Rassegnato all’inconcludenza ma custode testardo delle necessità, preda del suo ossimorico paradosso filosofico, Bernardo Sopo si aliena nell’ossessiva draconiana allegoria vivente dei doveri e dei bisogni, e diventa a sua volta un ossesso senza requie. Memmo Viola, che è il suo complementare e il suo contrario, dedurrà, da dentro il suo «perpetuo letargo filosofico», che «un accadere eterno, cioè senza fine, vuol dire anche senza un fine», e si ritrarrà da qualunque accadere. Bernardo, pur persuaso che non può esserci conclusione e dunque non esiste un fine, è tuttavia travolto e trascinato da un accadere senza fine.

Lo storno e l’Angelo Centuno

1 Fu pubblicata per la prima volta, con il sottotitolo (miracoli), sul «Corriere della Sera» il 4 settembre 1910. Con il titolo attuale fu ristampata nel 1914 nella raccolta Le due maschere (Firenze, Quattrini) e, nel 1920, in Tu ridi (Milano, Treves), silloge che riprende sedici delle diciotto novelle della raccolta fiorentina. Venne infine inclusa nell’ottavo volume delle «novelle per un anno», Dal naso al cielo (Firenze, Bemporad, 1925), tributaria per undici quindicesimi delle due precedenti raccolte. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 Ch’era ancora notte.

3 Muretti a secco, di quelli che delimitano i campi o fiancheggiano le stradette di campagna.

4 Lo storno comune è un uccello sia sedentario che di passo, che d’autunno arriva nelle nostre regioni, dove sverna, in stuoli immensi. Lungo una ventina di cm, è nero macchiettato e lineato di bianco gialliccio.

5 Tutta intera.

6 Accidenti che stomaco!

7 Pirandello ha annotato nome e cognome in un foglietto (v. BRB, p. 70).

8 Per Montelusa, v. La mosca, n. 10.

9 Notevole, ragguardevole.

10 Come se grandinasse.

11 Custode di casa.

12 V. Concorso per referendario al Consiglio di Stato, n. 22.

13 Posta è detta «ciascuna delle quindici o delle dodici parti del rosario completo [...], in cui si commemora un mistero della vita della Madonna, recitando un paternostro, dieci avemaria e un gloria» (GDLI).

14 Dalle smorfie che faceva.

15 Una invecchiata donna Gesa sarà chiaramente riconoscibile nella Sgricia de I giganti della montagna: «La Sgricia è una vecchietta [...]. Quando parla è sempre un po’ irritata e sbatte di continuo le palpebre sugli occhietti furbi irrequieti. Di tratto in tratto si passa rapidamente un dito sotto il naso arricciato» (v. MNII, p. 1311). Di fatto, però, La Sgricia risulterà da una combinazione di donna Gesa e della Poponè.

16 Fama.

17 Impietrito.

18 Accostando la mano cava all’orecchio, come se non avesse sentito bene.

19 Poiché era, per il fatto ch’era.

20 Così erano denominati gli ufficiali che comandavano una centuria di legionari romani, ossia cento soldati.

21 Soprannominati.

22 Che ha il vizio di provocare.

23 Il povero Tararà ripeterà questa massima dopo averne fatto amara esperienza: v. La verità, p. 334.

24 Apparteneva ad una corporazione d’arte e mestiere.

25 Signora, che è il nome di rispetto, mentre comare è l’appellativo col quale si chiamano fra loro, paritariamente, le popolane. Con piccole varianti, il capoverso corrisponde ad uno dei frammenti riprodotti da Barbina (v. BRB, pp. 69-70), già stampato nell’Almanacco letterario Bompiani 1938: «Non portava la mantellina di panno, lei, come le villane; portava il guardaspalle di lana a pizzo con la frangia e non voleva esser chiamata comare» (v. SPSV, p. 1220).

26 Lasciava perdere, non replicava.

27 Fitti, folti.

28 Tessuto un po’ grossolano, di pelo di capra o di cammello.

29 Un qualcosa che la faceva sembrare appartenente a ceti più elevati.

30 Si prodigasse eccessivamente.

31 Mi si accappona ancora la pelle.

32 Favara dista meno di dieci chilometri da Agrigento in direzione est. V. anche Un invito a tavola I 318.

33 V. Il vitalizio, n. 19.

34 Secchio (di legno).

35 Si agitò terribilmente (v. anche Lontano II 102).

36 Efficiente, pronta a sparare. V. L’altro figlio III 95.

37 V. L’altro figlio III 95: «un certo Cola Camizzi, capo-brigante, [...] ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere, – diceva, – per vedere se la carabina era parata bene».

38 Rimessa.

39 Basto.

40 Signora. V. Il vitalizio, n. 74.

41 V. La giara, n. 21.

42 Quello di donna Gesa è, come sempre accade nella tradizione orale di eventi memorabili e miracolosi, il racconto di un racconto. Non può dunque sorprendere l’implicito segnale veridittivo contenuto nel passaggio dal sonno alla veglia. È al risveglio, e non nel sonno, che la Poponè vede le due file di soldati celesti. Ma l’incredulo è libero di pensare che sia su una confortante scena di sogno che la devota vecchietta apre gli occhi.

43 Uscì di casa. V. Benedizione, n. 28.

44 Più di vent’anni più tardi, nell’ospizio mitico della Scalogna e in quella specie di Wunderkammer allegorica che sono I giganti della montagna, la Sgricia, che reincarna insieme donna Gesa e la Poponè e che è andata a vivere «agli orli della vita» con gli Scalognati «dacché la Chiesa non volle ammettere il miracolo che le fece l’Angelo che si chiama Centuno», racconterà di nuovo, con l’aiuto di Cotrone e d’una voce d’en haut, la sua miracolosa peripezia (v. MNII, pp. 1337-9).

45 Nel saggio del 1893, Arte e coscienza d’oggi, Pirandello aveva evocato Lev Tolstoj e scritto: «nel libro Le mie confessioni del celebre romanziere e filosofo russo si legge, press’a poco, così: “Perdetti assai presto la fede. [...] La scienza mi disse soltanto: La vita è un male privo di senso. Volevo uccidermi. Finalmente mi venne l’idea di guardare come viveva la maggior parte degli uomini, quella che non si dedica come noi delle così dette classi elevate, a scrutare ed a pensare; ma che lavora e soffre e tuttavia è calma, tranquilla e conscia dello scopo della vita. Compresi che per vivere come quella gente bisognava far ritorno alla sua semplice fede”» (v. SPSV, p. 866). Ne I vecchi e i giovani, quando circola voce che si stiano organizzando i primi fasci di lavoratori e si temono fiammate di rivolta, il vescovo monsignor Montoro parla della medesima fede a partire da un’ottica molto diversa, assai più opportunistica e repressiva che non pastorale e spirituale: «E come poteva più il popolo starsi quieto tra le tante tribolazioni della vita, se più la fede non gliele faceva accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in un’altra vita? La vita è una sola? questa? le tribolazioni non avranno un compenso di là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione più accettarle e sopportarle? Prorompa allora l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo» (v. RII, p. 11).

46 Una svolta apertamente ilare e leggera pone fine bruscamente a una discussione destinata a concludersi senza vinti né vincitori qui e sempre nel corpus. Il miracolo metaforicamente iperbolico che interviene è un puro artificio narrativo che vale a troncarla lasciando impregiudicate le ragioni reciprocamente irriducibili della ragione e della fede.

Il viaggio

1 Apparve a stampa per la prima volta su «La lettura» nell’ottobre del 1910; fu poi raccolta nel volume del 1912 Terzetti (Milano, Treves). Venne infine inclusa, come novella d’apertura, nel dodicesimo e omonimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928), che recupera dieci delle diciotto novelle di Terzetti. Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

2 L’incipitale similitudine («casa antica, silenziosa come una badia») non potrebbe sprigionare né prima né più forte il senso antifrastico di monacazione forzata e di clausura rigida che connota il matrimonio e tutta la vita domestica delle donne siciliane. Nel suo insieme, il primo paragrafo di questa novella traccia il quadro più risentito e critico della condizione femminile isolana che sia dato reperire nel corpus pirandelliano.

3 In forte pendenza.

4 Rovinata, scoscesa.

5 Si ingerivano, se ne occupavano di persona.

6 Si abbigliavano, si agghindavano.

7 Remissiva.

8 Bocche sporgenti di scarico dell’acqua raccolta dalle grondaie.

9 È un motivo, non solo paesaggistico, frequente nelle novelle siciliane di Pirandello. Per un verso le zolfare sono il cancro che minaccia le campagne (si veda soprattutto Il «fumo») e il luogo di tortura degli zolfatari (Ciàula scopre la luna), per un altro sono la causa frequente di improvvisi e irreparabili tracolli economici per chi vi investe la propria fortuna (si veda ad esempio La ricca, la prima stesura di Sole e ombra, Lontano, Al valor civile, Formalità, La veste lunga).

10 Secco, arido.

11 Stridio (v. La levata del sole, n. 16).

12 Un appunto per questo capoverso è annotato su uno dei foglietti reperiti da Alfredo Barbina nella casa romana di via A. Bosio: «Aliva il cielo, aliva la terra, da cui nel silenzio grave, rotto da ronzii d’insetti, dal fritinnio tranquillo, del canto lontano d’un gallo, vaporava denso e lento l’odore di tante erbe appassite, del grassume delle stalle sparse» (v. BRB, p. 68).

13 V. l’antecedente umbro di Benedizione, p. 98.

14 Pelo di capra (v. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 28). In un foglietto si trova annotato: «Con la veste di baracane» (v. BRB, p. 67).

15 Grossi tubi.

16 Poco o molto.

17 Circolo cittadino.

18 Quattro anni prima, Lillina Lumìa s’era immaginata «divenuta come le altre donne del paese... Là, la pancettina bella piena e la calzetta in collo!» (v. Lillina e Mita III 281).

19 Degradare a grossolanità.

20 Il dettaglio viene a completare un ritratto spregevole e avvilente, ma è, nella sua particolare crudezza venerea, psicologicamente molto sottile.

21 Subdola.

22 Nel 1921, quest’impressione trapasserà puntualmente nella rievocazione della propria vita di segregazione e avvilimento da parte dello stralunato Marco Mauri di Come prima, meglio di prima: «Una vita che non si può figurare! come nessuno di voi, che vi marcite dentro qua, può conoscere! – Neanche tu, sai, Flora, che pure hai conosciuti tutti gli orrori della vita! Ma, Dio mio, sono orrori almeno! – Non una vita fatta di niente. – Niente! – Ombra. – Silenzio d’un tempo che non passa mai. – Neanche acqua da bere. – Acqua di cisterna, amara, renosiccia... – Ma non sarebbe nulla! È quel silenzio! quel silenzio! Figuratevi che vi si sente anche un soffio di vento, quando scuote la fune della cisterna giù in piazza, e la carrucola che ne stride; mentre voi, dentro...» (v. MN2, p. 535).

23 La tunica che riveste i polmoni.

24 Gancettini.

25 Una condizione immobile di non più avvertita continuità e ripetitività viene bruscamente interrotta da una scoperta inattesa. È un canonico motivo dinamico di trasformazione. Lo specchio, oggetto – nel bene e nel male – quasi magico e spesso perciò presente con un ruolo attivo nella dinamica narrativa, svela d’un tratto la recondita alterità che si nasconde in una identità fatta interamente di soggezione a regole esterne e non soggettive. Quella di Adriana è una identità sociale fatta di lutto, vedovanza, maternità, sudditanza domestica, vecchiaia presunta e accettata: lo specchio la smentisce in un istante riflettendo l’immagine intatta d’una donna giovane, bella, desiderabile. Ed è il soggetto stesso, guardandosi, che è riluttante a riconoscersi in quell’immagine trasgressiva di sé, subito sentita come invereconda e colpevole. Pochi righi sotto Adriana vorrà infatti sottrarsi allo sguardo del cognato «come se egli l’avesse sorpresa nuda»; e si ostinerà a ritenere «caricatura» e «maschera» non la sua pluriennale immagine repressivamente luttuosa, ma questa, che di quella maschera la spoglia.

26 Fin qui, i turbamenti di Adriana erano potuti restare segreti e indefinibili, sepolti e repressi senza bisogno di parole per nominarli e giustificarli. La turbavano infatti i viaggi del cognato, le assenze e i ritorni di lui, tutti risvolti d’una realtà esterna ed altrui. Ora, d’un tratto, trovandosi «sola con lui» e in viaggio insieme a lui, il represso bussa alle porte della coscienza, e la donna, incapace di dominare e censurare il nuovo turbamento, per potersi offrire un movente del quale non arrossire, del quale non doversi vergognare, deve quasi ingannare se stessa, fingere sapendo di fingere.

27 Riprendere fiducia in, risentirsi sicura di.

28 A confronto.

29 Studiata, troppo controllata.

30 V. Formalità, n. 25.

31 Corso Calatafimi e via Vittorio Emanuele.

32 Una riscrittura di questa visione palermitana troverà posto in Uno, nessuno e centomila: «E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le più svariate visioni: ecco: [...] d’una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe» (v. RII, pp. 757-8). Ma conviene tener presente che già dieci anni prima la Mirina di Salvazione aveva rievocato una analoga scena e analoghe sensazioni: «Ah quel primo volo dal nido, com’egli le aveva detto stringendole il braccio col braccio sul suo petto. Qui tutti i ricordi di Mirina s’accendevano, e il cuore già intirizzito le s’infocava ancora alla fiamma di quella sera che tante lagrime versate dipoi non eran valse a spegnere; ché anzi da quelle lagrime essa era risorta più pura nel suo ardore, quasi purgata dalla colpa e dagli affanni. / Sì, sì, proprio tra le fiamme le era parso di camminar quella sera, sola con lui, a braccetto con lui, per le vie della città, di cui serbava nella memoria come un tramenío voraginoso, un turbinoso fragore» (v. I 430).

33 Il passo può essere considerato uno dei più nitidi paradigmi della turbinosa sensazione di imbevimento e inebriamento vitale da cui possono venire travolti i personaggi che, come Adriana Braggi, abbiano patito una prolungata asfissia fatta di silenzio, vuoto, lutto. I passaggi repentini che il tratto testuale magnifica e moltiplica per riflesso, per rifrazione, per accensioni balenanti, sono quello dall’ombra alla luce (ed è, lo si rammenti, il percorso inverso rispetto a quello che compiva il vecchio Ciunna in Sole e ombra), e quello dall’immota solitudine al «brulichio della folla rumorosa». Adriana viene al mondo, viene alla luce, apre gli occhi alla vita, respira per la prima volta l’aria aperta, e la sua esperienza ha una portata così pervasiva da configurarsi, di fatto, come una seconda nascita.

34 Il nome d’un ristorante (il fr. chalet significa villino e designa piuttosto un edificio montano che non marino).

35 Passeggiata palermitana sul lungomare, famosa fino a tutto l’Ottocento.

36 I fiori degli agrumi e soprattutto dell’arancio.

37 Questa vivida impressione di Adriana deriva direttamente dalla amorosa memoria che, ne I vecchi e i giovani, Lando Laurentano serba di una passeggiata con la cugina Giannetta Montalto, «colei che nella prima giovinezza gli aveva fatto intendere l’eternità in un attimo di luce: luce sfavillante da due occhi neri e da un vanente sorriso, una sera di maggio, lungo la marina di Palermo illuminata, tra il fragor delle vetture, l’odore delle alghe che veniva dal mare, il profumo delle zagare che veniva dai giardini» (v. RII, p. 317).

38 Le tre parole: infinito, lontananza, sogno, compongono la formula pirandelliana del rapimento estatico o dell’astrazione meditativa, e si richiamano perciò l’una con l’altra di circostanza in circostanza (v. Canta l’Epistola, p. 246, Il coppo, pp. 338-9, La carriola V 215-6, La cattura V 383). In uno dei Foglietti pubblicati il 1° gennaio 1934, è annotato un appunto in prima persona che è forse servito da spunto per questa sequenza novellistica: «Nel cielo, al tramonto, fra fasce d’oro e sanguigne e lembi d’azzurro verdino, come di sogno, infinitamente lontano. E così io mi sentivo lontano, sì, lontano anche da me stesso, senza conoscenza, senza pensiero» (v. SPSV, p. 1215).

39 Vasto parco settecentesco palermitano, che si estende ai piedi del versante sud-ovest del Monte Pellegrino.

40 La vasca d’Ercole, così chiamata perché su una colonna dorica è collocata una copia dell’Ercole Farnese, il cui originale si trova al Museo di Napoli.

41 Molle strato erboso che galleggia su laghi o stagni.

42 V. sopra la n. 33 e La toccatina, n. 21. Per analoghe estasi metacroniche, o felici, lievitanti deliri d’eternità, v. Da sé, pp. 493-4 (e la n. 18 per una nitidissima e del tutto diversa contestualizzazione del motivo ne I vecchi e i giovani), La carriola V 215-6 e soprattutto Visita VI 300 e 301-2. Una ripresa di questo passo sarà ben riconoscibile in una battuta del protagonista di Ma non è una cosa seria: «MEMMO [...] Scusate: non abbiamo forse sentito tutti, in certi momenti, aprirsi, accendersi dentro di noi come una luce d’altri cieli, che ci permette di vedere nelle più misteriose profondità dell’animo, e che ci dà la gioja infinita di sentirci in un attimo... in quell’attimo – eterni – e che s’è vissuto – e che può bastare?» (v. MN2, pp. 48-9).

43 Argani.

44 Denso, oleoso.

45 L’evento notturno e rapinoso cui la luna presiede, e in cui è perfettamente condensata la contraddittorietà fra piacere e dolore, fra presagio di vita e profezia di morte, è appunto «l’angoscia e lo sgomento di quella delizia che la rapiva». Ancora, dunque, la luna come spia lugubre e divinità ctonia (v. Sole e ombra, n. 37). Il motivo è doviziosamente e quasi ossessivamente presente soprattutto nella poesia di Pirandello. Si vedano: nella raccolta Mal giocondo del 1889, Allegre II, 16-20: «Ma già la Luna supera, tonda e flammea, del mare, / e vaste treman l’acque continuamente sotto / il luminoso bacio. Lenta ella sale, e pare, / pe i silenzi del murmure misurati dal fiotto, / una diva che passi intenta a vigilare» (v. SPSV, p. 458); Pasqua di Gea XXI, 41-5: «Un nume / che venga a vigilare, / la bianca Luna or pare, / tarda dei colli fuori / sorgente» (ivi, p. 531); Elegie renane VII, 11-12: «In fuga la luna tra l’onde dell’aer sconvolte / la morta terra, quasi sgomenta, spia» (ivi, p. 565), X, 9: «e la placida Luna, spiando pe’ madidi vetri» e X, 29-30: «Erano dolci a voi con l’acque del Reno i colloqui, / mentre sorgea la Luna candida a vigilare?» (ivi, p. 567), XVI, 1-2: «Sale, e pe’ chiusi vetri la gelida Luna a spiare / nella mia buja, squallida stanza viene» (ivi, p. 571); in Zampogna (1901), Le nubi e la luna 6-8: «e vien dal colle su, grande, la Luna. / Sale pian piano, come diva intenta / a vigilare, e a sé le nubi chiama» (ivi, p. 599). Dalle poesie si riversa nel corpus novellistico e anche nei romanzi: v. ad esempio Il fu Mattia Pascal, in RI, p. 467: «Avevo lasciato aperta la gelosia, aperti gli scuri. A un certo punto, la luna, declinando, si mostrò nel vano della mia finestra, proprio come se volesse spiarmi, sorprendermi ancora sveglio a letto, per dirmi: / “Ho capito, caro, ho capito! E tu, no? davvero?”».

46 Per il medesimo tramite dello specchio che le aveva restituito «la sveltezza e l’aria d’una fanciulla» (v. p. 154), e che stavolta le si mostra ostile e funesto, Adriana si stacca dalla sua immagine nuova di donna giovane e bella, cui l’amore l’aveva trascinata ad aderire. Lo specchio milanese, impietoso, riflette già una morta.

47 Questa geniale modulazione di sensazioni notturne precede e preannuncia la catastrofe. Adriana prova dapprima la «strana impressione» che si fa verbo nella forma, a sua volta strana (e nel caso quasi perturbante), della metafora: «un giorno di velluto», un giorno dolce al tatto e nel contempo impalpabile; tessuto, dunque, di liscia morbidezza, di serica delicatezza, di leggerezza silenziosa. Poi, incerta, Adriana si prova a interpretare la propria sensazione scindendola, analizzandola, ed ecco la perfida serie discendente: il velluto cullante e riposante dei cuscini della gondola, l’ombra vellutata dei canali (che evoca anche, per associazione, il velluto lubrico e infido, sul quale non si può reggersi, dei muschi marini), infine l’imbottitura di velluto della bara. E, nell’interpretazione tripartita della donna disfatta e insonne, il percorso è obbligato e irreversibile: interrogativo nelle due prime fasi retrospettive, nell’ultima, prospettiva e scorata, rabbrividito e tuttavia assertivo.

48 È la legge del corpus, implacabile. Adriana è stata sposa e moglie, poi soltanto madre. Per pochi giorni, e in articulo mortis, è stata donna e amante. Ma questi ruoli e quelli non sono compatibili e, per morire, torna madre.

«Leonora, addio!»

1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 6 novembre 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) e, nel 1928, entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).

Nel 1928-29, durante una permanenza in Germania che è in parte un semivolontario esilio, Pirandello scriverà Questa sera si recita a soggetto (v. MN, pp. 221-311), una pièce complessa, largamente adibita a parlare del teatro e a discutere criticamente, facendo teatro, alcune tendenze teatrali di quegli anni. In quest’opera sarà un estraneo, ossia il dottor Hinkfuss, sorta di regista-mago e di ripugnante nano in frak, a voler fare ciò che l’autore Pirandello ha fatto altre volte: trasformare in teatro un testo novellistico. E la novella prescelta sarà appunto «Leonora, addio!». Addebitandone la responsabilità alle ambizioni spettacolari e all’invadenza ubiqua del personaggio-regista, Pirandello sottoporrà la tessitura chiusa e serrata, sostanzialmente realistica, della novella a trazioni, deformazioni, stiramenti stranianti, espansioni grottesche. Ma fermissime terrà, nel grande finale, le ragioni del cuore, quelle di cui palpita fino in fondo l’infelicità di Mommina prigioniera.

2 Fra i militari di leva e non di carriera, alcuni frequentano un corso apposito al termine del quale ottengono il grado di sottotenente.

3 Si compiaceva.

4 Soprannominata.

5 Stravaganze, pazzie.

6 Palco di proscenio (V. Tirocinio, n. 17).

7 Pestando con grande impeto sui tasti.

8 Il Faust (1859) è un «dramma lirico in cinque atti» di Charles Gounod (1818-1893), su libretto di J. Barbier e M. Carré (la cui versione ritmica italiana si deve ad A. De Lauzières). Siebel (la cui parte è scritta per una voce femminile) è un giovane amico di Valentino ed è innamorato della sorella di lui, Margherita. Le parlate d’amor – o cari fior è l’aria di Siebel con cui si apre il terz’atto dell’opera.

9 V. Un cavallo nella luna, n. 6.

10 La forza del destino (e l’opera verdiana che porta questo titolo ha notoriamente fama iettatoria) è già al lavoro. La fiamma cupa («subito, da buon siciliano, aveva preso sul serio lo scherzo») di Rico Verri e la saggezza pensosa e sacrificale di Mommina non promettono nulla di buono; anzi, nel carattere remissivo di lei e in quello persecutorio di lui, caratteri che producono due complementari disamorate irremovibilità, è già iscritta la loro sorte ossidionale.

11 Per le possibili memorie autobiografiche sottese a tale furibonda gelosia, v. GG, p. 164.

12 Nonostante le tante cose che Mommina capisce, il suo appassionato candore trasfigura Rico Verri in tre magnanimi tenori innamorati. Raul è il protagonista degli Ugonotti (v. n. 24), Ernani e don Alvaro sono due generosi e sventurati amanti verdiani: l’uno nell’opera che prende nome da lui, l’altro ne La forza del destino.

13 I due versi (citati imprecisamente: nel libretto suonano «né togliermi dal core / L’immagin sua saprò») si riferiscono all’ultimo dei tre eroi operistici, don Alvaro, e provengono dal drammatico cantabile d’un’altra Leonora, Pace, mio Dio (citato più sotto a p. 168), nel quarto e ultimo atto de La forza del destino. Nel citare a memoria, la sentimentale Mommina, presa nella rete romantica delle amorose parole melodrammatiche, non pensa certamente al fatto che Leonora le pronuncia nella solitudine claustrale e carceraria in cui l’ha costretta il suo infelice destino; non vi legge cioè una allusiva profezia della propria sorte.

14 Anche se non fosse stata in precedenza definita una «città su la costa meridionale dell’isola», il «colle isolato» e il «mare africano» sono connotati più che sufficienti a far riconoscere Girgenti.

15 In Questa sera si recita a soggetto Pirandello, per bocca del dottor Hinkfuss, ribadirà: «La novella rappresenta appunto uno di questi casi di gelosia, e della più tremenda, perché irrimediabile: quella del passato» (v. MN, p. 234). L’ossessiva folle gelosia di Rico Verri non ha altro paragone che quello di Cesira Piovanelli, anche lei, non a caso, inguaribilmente gelosa del passato (v. L’uscita del vedovo, n. 5).

16 V. Scialle nero, n. 26.

17 Uno dei Foglietti di appunti pubblicati da Corrado Alvaro contiene una traccia della novella che muove da questa situazione: «La moglie e le due figliolette. Il marito rosso di pelo, orso ferocemente geloso. La moglie da giovane tra gli ufficiali, ricevimenti, teatri, la zia Pepè. Mondo lontano. Ora prigioniera con le figlie. Terrore. Gli occhi di tutte e tre. Si guardano e s’intendono. L’orso freme, sospetta. L’unica delizia, viver della vita lontana della madre. Appena egli esce, ella si chiama accanto le figlie e racconta racconta... canta, recita, rappresenta tutte le parti, si anima, diventa un’altra, e le figliole, beate, la stanno a sentire» (v. SPSV, p. 1214). Ancorché sia consentita solo una cauta congettura, il rapido sommario lascia intravvedere l’ipotesi d’un intreccio altrimenti distribuito, nello sviluppo del quale quella che è la prima parte di «Leonora, addio!» sarebbe forse intervenuta, dopo un attacco in medias res, come flash-back memoriale della protagonista.

18 Istupidita. (V. La mosca, n. 40).

19 Il ricordo congiunto della sera, della musica, dell’odore delle zagare compare anche ne Il viaggio, novella cronologicamente vicinissima (v. p. 158), e riaffiorerà ancora, arricchito dai gelsomini, nel racconto-fantasticheria I due giganti (v. V 326). Gli odori pungenti, mescolati, della salvia e del mentastro sono per eccellenza le fragranze campestri e selvatiche (v. La signora Speranza, n. 53), i profumi penetranti e inebrianti dei gelsomini e delle zagare compongono invece l’incanto olfattivo dei parchi e dei giardini (v. anche Felicità, p. 191) o degli agrumeti (v. La veste lunga, p. 418).

20 L’una di notte.

21 Dapprima, sul momento.

22 In fretta, concitatamente.

23 Giunta appena al quarto verso del grande arioso («Pace, pace, mio Dio; cruda sventura / M’astringe, ahimè, a languir; / Come il dì primo da tant’anni dura / Profondo il mio soffrir»), Mommina, stremata, deve arrestarsi. Ma, a questo punto della sua vicenda, è ormai anche per altre ragioni fatale che Mommina interrompa qui il suo canto che, seguitando, l’avrebbe costretta a rievocare un’altra volta l’amore per don Alvaro (v. viceversa quanto detto alla n. 13).

24 Opera del 1836 di Giacomo Meyerbeer (1791-1864), su libretto di Eugène Scribe.

25 Sporgenti e spalancati, come se stessero per schizzarle dalle orbite.

26 Attonite.

27 Si tratta di una canzone guerriera e antipapista che il vecchio Marcello canta nel primo atto dell’opera.

28 Versi cantati dal coro delle damigelle di Margherita di Valois nella terza scena del secondo atto, che è ambientata negli ameni giardini del castello di Chenonceaux.

29 Rabbuiandosi (V. L’amica delle mogli I 113).

30 Il Trovatore (1853) è fra le opere più celebri di Giuseppe Verdi. Il Miserere è un pezzo corale del quarto atto, anche in questo caso citato non correttamente. Il libretto recita: «Miserere d’un’alma già vicina / Alla partenza che non ha ritorno».

31 I quattro versi costituiscono la ripresa del cantabile di Manrico nell’ultimo atto del Trovatore. La prima volta, il protagonista canta sulle parole seguenti: «Ah, che la morte ognora / È tarda nel venir / A chi desia morir!... / Addio, Leonora!». Stavolta è ben lecito pensare che Mommina, «imprigionata nella più alta casa del paese», si identifichi appieno con l’eroe operistico, il quale lancia il suo addio all’amata dall’interno d’una «torre, ove di Stato / Gemono i prigionieri».

32 V. sopra, alla p. 163, l’immagine speculare del passato. L’enorme Momma, la deforme e oltraggiata Mò trova pateticamente modo, travestendosi come un tempo, di resuscitare la propria giovinezza e di morire, almeno, tornando Mommina nei panni dell’innamorato Manrico.

33 L’urlo di rabbia, il suo avventarsi, il gesto di rimuovere col piede il corpo della moglie dimostrano che il delirio spietato di Rico Verri non si placa neppure di fronte alla morte: nel folle teatro della sua gelosia, Mommina è morta cantando d’amore e tradendolo.