1 Fu pubblicata per la prima volta sulla «Rassegna contemporanea» nel novembre del 1910. Nel 1912 venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves) e, nel 1928, entrò infine a far parte dell’undicesimo volume delle «novelle per un anno», La giara (Firenze, Bemporad). La novella era stata inviata, come le altre di questo periodo, al «Corriere della Sera», ma la direzione del giornale preferì non pubblicarla e Pirandello, sebbene, come altre volte, non convinto, fece buon viso al rifiuto (v. CAR, pp. 158-9).
2 Piccolo veliero da carico o da pesca.
3 Nel piccolo spazio di mare protetto dal molo.
4 Dardeggiano riflettendo la luce del sole.
5 V. Lontano II 78 e nn. 8 e 9.
6 Agili e veloci unità da guerra armate di siluri (torpedini).
7 Avanzare sull’abbrivio.
8 Estremità superiore dell’albero.
9 Asta orizzontale di sostegno della vela latina.
10 Piccoli battelli a remi.
11 Strabico.
12 La preghiera alla Vergine che si recita al calar della sera.
13 Signora. (V. Il vitalizio, n. 74).
14 Normalmente, la fune che serve a trainare da terra i natanti.
15 Gomena.
16 La motivazione realistica, che disegna una peripezia degna di un romanzo d’avventure di età classica, vuole che Filippa, finita in America su una nave russa, ritorni da laggiù via Genova. Ma non è né da Genova né dall’America, in realtà, che Filippa ritorna; bensì, come altri personaggi, da una landa assai più remota e misteriosa, ossia da «due anni e otto mesi» di pazzia.
17 Cinereo, grigiastro.
18 A pianterreno.
19 V. Sole e ombra I 258.
20 V. La paura del sonno, n. 22.
21 Molti dei compaesani di Nino Mo, ma pare che la direzione del «Corriere della Sera» abbia respinto la novella proprio perché preoccupata che molti lettori gridassero a loro volta allo scandalo dinanzi ad una così semplice e ragionevole storia di bigamia.
22 Il devoto e scrupoloso Nino Mo è in qualche misura il complementare dell’adultero capitano Petella di Richiamo all’obbligo (e Pirandello ha fatto sì che le due novelle si richiamassero reciprocamente collocandole in stretta prossimità nel corpo della raccolta La giara). Oneste e quiete, ed eque, le ragioni di padron Nino, furenti e disoneste, nonché inique, quelle del Petella: ciò non toglie che i comportamenti opposti dei due personaggi conducano in entrambi i casi a situazioni umoristicamente paradossali.
23 Avvocato, legale.
24 Solo apparentemente e presuntamente legittimo.
25 Sultano era il sovrano dell’impero ottomano o un principe sovrano d’uno stato musulmano; al titolo di pascià avevano diritto coloro che ricoprivano una carica altissima nello stato turco; bey era detto il sovrano d’uno stato vassallo dell’impero ottomano. Ciascuno dei tre titoli, in quanto appunto «turco», cioè musulmano, legittimerebbe la poligamia.
1 Fu pubblicata per la prima volta, con il titolo Il saltamartino, sulla «Rivista popolare di politica, lettere e scienze sociali» il 31 gennaio 1911. Il 24 maggio 1918 fu ristampata su «Il Messaggero della domenica» e nello stesso anno venne compresa nella raccolta Un cavallo nella luna (Milano, Treves). Infine, con il nuovo titolo, entrò a far parte del nono volume delle «novelle per un anno», Donna Mimma (Firenze, Bemporad, 1925). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 La faccia verticale.
3 La superficie orizzontale dello scalino.
4 Storte.
5 La corazza dorsale, il carapace.
6 «Tipo di pavimento costituito da uno strato di terra battuta o di pastina di cemento trattata con apposito attrezzo» (Devoto-Oli).
7 Capire, rendersi conto.
8 V. Notizie del mondo I 531 e nn. 44 e 46; e Al valor civile II 177. Nel luglio del 1915, sotto il titolo La tartaruga, Pirandello ristampò, riscritto con poche variazioni alla prima persona e al presente, su «La Riviera Ligure» l’intero episodio della tartaruga (lo si veda ora in SPSV, pp. 1012-3). La tartarughesca e animale probità consiste nell’equilibrio anestetico con il quale la bestia vive la stretta del paradosso che la schiaccia fra l’assolutezza del desiderio (la coazione a iterare i suoi tentativi di scalare il gradino) e la ripugnanza, ugualmente assoluta, che la spinge a rifuggire dalla soddisfazione dei suoi sforzi. La sua naturale saggezza consiste proprio nella perfetta ignoranza della «paura d’esser felice», ossia della paura del desiderio (soddisfatto) che, risparmiandole il fantasma di qualunque «saltamartino», la mette al riparo dalla necessità di guardarsene.
9 Sentirsi indispettito da, provare dispetto per.
10 Saltamartino è sia il «Nome pop. d’insetti dalle zampe posteriori molto sviluppate che li rendono atti al salto, come il grillo e la cavalletta» (Devoto-Oli), sia il nome d’un giocattolo che il Fanfani, nel suo Vocabolario dell’uso toscano, descrive come segue: «trastullo fanciullesco che si fa con un mezzo guscio di noce forato ai lati nella larghezza dell’orlo: dentro a’ fori si passa un filo incerato e si annoda: vi si rigira poi dentro un fuscellino, il cui capo libero forzatamente si porta a uno dei punti estremi della lunghezza dell’orlo, dove è posta un poco di cera o pece, che vel tiene appiccato qualche momento, dopo di che il fuscello si stacca, e, scattando, fa saltare esso guscio. Su per le fiere si vendono di legno e in forma di ranocchio, ma col medesimo ordigno».
11 Questa metaforica «ventata» proveniva, nella prima stampa della novella, da un refolo di vento molto realistico legato a un preciso ed esemplare episodio della vita del personaggio: «Giuoco feroce, che a Fabio Ferotta si rappresentava in tanti aspetti svariati, ma più specialmente – per la memoria di una sua avventura giovanile – in uno sbuffo di vento. Sicuro. Si era innamorato di una bellissima donna, la quale, poco dopo il suo innamoramento, si era ammalata di una malattia mortale, per cui medici e parenti avevano proibito a tutti di vederla. L’ultima volta ch’egli era stato ammesso in casa, la malata aveva manifestato il desiderio ardentissimo di alcuni fiori, che sarebbe stato difficile, forse impossibile trovare in quella stagione. Ebbene, egli dopo alcuni giorni d’affannose ricerche, a gran stento e senza badare a spesa, quantunque come sempre in ristrettezze finanziarie, era riuscito a trovar quei fiori, e li recava composti in un bel mazzo alla malata, quando, tutt’a un tratto, nell’attraversare una piazza, l’assalto di due furie improvvise: un’automobile, di dietro; una raffica di vento, davanti. Donde era mai venuto, come s’era levato così d’un subito quel vento? Proprio in quell’attimo s’era levato per portargli via il cappello, mentr’egli d’un balzo si scansava per schivar l’automobile. Istintivamente aveva levato le mani per fermare il cappello; il mazzo di fiori gli era caduto; le ruote dell’automobile vi eran passate sopra; e tutta la gente s’era messa a ridere dell’atteggiamento in cui egli era rimasto, col cappello ammaccato tra le mani. Non aveva altra scusa che quei fiori per presentarsi in casa della malata e rivederla per l’ultima volta. Ebbene, sempre così! Una ventata [...]» (v. NUAII, p. 1270). È del tutto evidente che, nonostante la sua funzione esemplarmente motivante, il bizzarro episodio sfiora la gratuità, e Pirandello non esitò a cassarlo.
12 Questa è, in effetti, la regola aurea e ferrea, tutta passiva e negativa, dei più tetragoni e tragici personaggi pirandelliani: non aver paura, in sostanza, di non essere felici. S’è già avuto occasione di notare come la speranza, l’illusione e soprattutto il desiderio siano ineluttabilmente gravati d’una marca negativa e infausta. Dare seguito alle pulsioni che questi moti istintivi suscitano è per un verso temerario come prestare ascolto al canto delle sirene, per altro verso colpevole come cedere alle tentazioni. Fabio Feroni è vissuto a un passo dal rispetto pieno della regola di totale ascesi e di stoica remissione che la ragione gli ha fatto intravvedere, ma bastano le sue minimali infrazioni o renitenze (dovute all’irresistibilità delle pulsioni vitali) a farne un catecumeno cui è negato l’ingresso nel tempio della assoluta rinuncia e che perciò resta esposto ai trabocchetti della vita, per guardarsi dai quali precipiterà nella follia ossessiva. La nichilistica considerazione riecheggerà nei vv. 5-6 di un breve componimento annotato nell’ultimo taccuino: «Vivi, poiché non ne puoi fare a meno. / La vita è questa. E tutto è come può, / e come deve; e non sta a noi che sia. / Il voler nostro è sol quel poco anch’esso / ch’esser può, ch’esser deve: e non volere / nulla è forse miglior consiglio. Nulla / cangia. La vita è sempre questa, e ancora / la stanca terra non può farne a meno» (v. TS, p. 17).
13 Sfiducia (v. La giara III 483).
14 Nascosta, dissimulata.
15 Mirabilmente descritto, il meccanismo psicologico non ancora malato ma già viziato cui il personaggio ricorre è quello dell’autoinganno e della finzione con se stesso, attraverso il quale passa, mistificata, un’autonegazione che oggettivizza ed estrania gli atti mancati e le frustrazioni come eventi del tutto spiegabili cui l’io non è interessato. È questa la prima forma di autoterapia di difesa contro il «saltamartino».
16 L’asserzione del contrario è già una fase successiva, e ossessiva, del processo patogeno. Ma non si dimentichi quanto il protagonista dirà nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Avete voi riso della favola della volpe e dell’uva? Io no, mai. Perché nessuna saggezza m’è apparsa più saggia di questa, che insegna a guarir d’ogni voglia, disprezzandola» (v. RII, p. 716).
17 La mania persecutoria dilaga, e le «stravaganti superstizioni» (v. p. 182) sono ormai trabordate in una infilzata di rituali fobici e ossessivi diretti a schivare gli agguati del «saltamartino».
18 Si coprivano d’un velo vitreo di lacrime. V. La levata del sole, n. 10.
19 Scivolare, sdrucciolare (arcaismo desueto, da mucciare, “sgusciare”, rafforzato con s- durativa).
20 Il seme della canapa, usato come mangime.
21 Il delirio persecutorio ha la meglio su tutte le precauzioni e le difese ed esplode in tutta la sua devastante portata, sebbene la verbalizzazione di esso assuma non la forma grave della tragedia della follia, ma quella umoristica della caccia all’insidia del caso entro le tazzine da caffé.
22 Spiccar salti (v. Notizie del mondo, n. 36).
23 È infine la possessione psicotica, la logica circolare della pazzia che si richiude su se stessa introiettando il proprio stesso fantasma ossidionale. Perduto ogni contatto con la realtà, Fabio Feroni non ha più nulla da cui guardarsi fuori di sé né alcuna ragione, ormai, d’aver paura d’essere felice.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 26 aprile 1911. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Istupidita (v. La mosca, n. 40).
3 Cittadina dell’entroterra siciliano, in provincia di Enna.
4 V. Lillina e Mita, n. 40.
5 Aridità. V. Un cavallo nella luna, n. 10 e, per analogia contrastiva, Ignare, p. 394.
6 Conquistato, sedotto (propriamente, “catturato col vischio”).
7 Titolo distintivo dei «gentiluomini di camera» della corte borbonica. Ne Il fu Mattia Pascal se ne fregiava il marchese don Ignazio Giglio d’Auletta, un altro lealista sopravvissuto alla storia (v. RI, p. 535).
8 Strada che attraversa il centro di Palermo.
9 Parco palermitano. V. Il viaggio, n. 39.
10 Separandole e dislocandole nel corpo di due raccolte non prossime e tematicamente diverse, Pirandello ha occultato la vicinanza cronologica e la curiosa parentela per opposizione che lega Paura d’esser felice e Felicità. Ma i due testi, che immediatamente si susseguono nell’ordine delle prime stampe, sono, nonostante l’inconfrontabilità delle ambientazioni, della trama, dei protagonisti, del registro narrativo, in qualche misura una proposizione e una risposta in contrappunto su una linea tematica analoga. L’una indaga la paura filosofica d’essere felici e l’ingorgo patologico in cui la logica simmetrica paura-desiderio può sprofondare l’individuo; l’altra descrive la parabola d’una voglia soggettiva e solitaria di felicità (quella femminile connessa alla maternità) che non si fa arrestare da alcuna paura e da alcun prezzo, per pesante e umiliante che possa essere. Nessun artificio e nessuno stratagemma è in grado di arrestare la spirale psicotica in cui si avvita il terrore della felicità raggiunta, e nessun sacrificio, nessuna privazione, nessun oltraggio è viceversa capace di appannare lo specchio terso della felicità materna, voluta e ottenuta a dispetto di ogni possibile sommissione e rispetto alla quale tutto il resto è sfondo residuale insignificante.
11 Tornato a Palermo per riposare, proprio lì accanto era andato ad abitare, ne L’esclusa, Gregorio Alvignani: «Trovò pochi giorni dopo l’arrivo a Palermo, la casa che in quel momento gli conveniva meglio, in una via deserta, fuori Porta Nuova: in via Cuba, lontana dal centro della città, quasi in campagna» (v. RI, pp. 146-7).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 27 maggio 1911. L’anno dopo venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912). Entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Centro sull’estuario del grande fiume.
3 Bastimento a vapore (dall’inglese steam, “vapore”).
4 Località (come la precedente Mesània) del profondo interno congolese.
5 Giocata per intero sullo spaesamento, sull’alterità e sulle alterazioni che l’alterità spaesata produce nelle relazioni, lo scompiglio, la confusione e la storpiatura delle lingue e dei segni sono un veicolo costante e privilegiato del viluppo tematico fondante.
6 Il corpo di volontari che prese parte, nel 1897, alla guerra greco-turca (v. Le medaglie, n. 10).
7 I Boeri (dall’olandese boer, “contadino”) sono gli antichi coloni europei insediatisi fin dal ’600 in Sudafrica. Con una breve ma aspra guerra (1899-1901), l’Inghilterra ottenne di annettere ai propri già vasti dominî africani le repubbliche boere dell’Orange e del Transvaal.
8 La conferenza di Berlino del 1885 aveva riconosciuto l’esistenza di uno Stato libero del Congo. Un escamotage politico-diplomatico permise che della corona di esso si fregiasse il re del Belgio Leopoldo II a titolo esclusivamente personale, e non come sovrano belga. È nel 1908 che il Congo diventa una colonia del Belgio.
9 V. «Leonora, addio!», n. 2.
10 V. Benedizione, n. 6. Nella frazione di Stravignano, a 5 chilometri da Nocera (e nella quale era ambientata la novella Benedizione), si trovano alcune sorgenti di acqua minerale.
11 Sventato, inaffidabile.
12 Tutte e tre le stampe della novella precedenti la mondadoriana del 1938 recitano: «come in un turbine». E, per l’uso della medesima espressione, v. Il lume dell’altra casa III 507: «La passione d’amore [...] investì, schiantò, travolse come in un turbine quella donna». La variante postuma d’autore è dunque, quasi certamente, un refuso da sanare.
13 Regione laziale il cui capoluogo è la città di Rieti.
14 Per un analogo gesto, v. «Leonora, addio!», p. 167.
15 Pampino, tralcio (la forma femminile è un toscanismo).
16 “Uomo bianco” nella lingua congolese (v. poco oltre: molenghe ti bungiu, “figli dei bianchi”).
17 I quattro settenari provengono dall’ultima aria di Faust (Giunto sul passo estremo) nell’epilogo del Mefistofele (1875) di Arrigo Boito.
18 Questi due versi provengono viceversa dal cullante motivo che Azucena intona «tra il sonno e la veglia» nell’ultimo atto del Trovatore di Giuseppe Verdi.
19 Divano (v. La signorina, n. 32).
20 Lo strato di foglie secche e stecchi che si deposita sotto gli alberi.
21 «Punto d’ornato formato di due punti obliqui che passano l’uno attraverso l’altro incrociandosi nel mezzo» (Devoto-Oli).
22 Nella sconclusionatezza indecifrabile delle memorie africane riaffioranti a lampi, anche la voce congolese «mokungi» rimane, come il resto, inspiegata e misteriosa.
23 «Variante di ‘mommo’, il bere dei bambini [dalla serie onomatopeica b... m..., propria dei movimenti della bocca, incr. con bere]» (Devoto-Oli).
24 Voce infantile per indicare “male”, “dolore”.
25 Gli stigmi del fiore di zafferano, giallo-rossi quando sono freschi, assumono da secchi una colorazione più scura.
26 Folti e crespi. V. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 27.
27 Lanosi, gonfi.
28 Staccarla. Ma il termine figurato pirandelliano (come il precedente avviticchiate), richiamando i viticci o cirri con cui la vite e altre piante si avvolgono intorno a sostegni o fili, suona assai più pregnante.
29 Applicati artificialmente, posticci, innaturali.
30 Contratte, irrigidite dallo spasimo.
31 Babbo, papà.
32 Rivoltare violentemente.
33 Color rame. Ma anche il ramata entra, insieme a metallici, ebano, cera dipinta, macchinale, a comporre, nell’ottica estranea e piena di raccapriccio con cui Norina guarda al «mostriciattolo» africano, un’impressione di non vero e di non vivo (come poco oltre sarà confermato). La povera Titti è talmente altra e spaesata da oscillare, agli occhi della futura matrigna, fra la degradazione dell’animalesco (la scimmietta) e l’orrore dell’inanimato (bambola o automa).
34 Faceva effetto.
35 Il nomignolo con cui viene chiamata Titti è complementare ai vezzeggiativi africaneggianti coi quali Sirio chiama la madre, la moglie e il cugino. L’uno e gli altri non solo alterano i nomi propri, ma di fatto li sostituiscono con etichette che conclamano l’alterità e obliterano l’identità. Zafferanetta è una Titti rinnegata e ridotta a «pupattola ramata», ma (all’insaputa dell’esuberante Sirio) anche Nianò ed Elinanò sono una Norina ripudiata nell’atto stesso di appellarla alla congolese e ben prima che un vero ripudio le tocchi per essersi mostrata sorda al richiamo del Congo.
36 Il passo dispiega, a confronto, i paradigmi dell’identità (reale, comune, presente) e dell’alterità (finto, non vero, diverso, lontano). V. sopra la n. 33.
37 Offrì di provarsi a.
38 Studio.
39 L’explicit – una partenza senza ritorno – suona fatale e quasi canonico eppure è, tutto sommato, un falso finale, un movimento che tronca una storia anziché concluderla. È soltanto l’esclusività che si richiude su se stessa, è la sanzione dell’intransitività delle relazioni vitali e amorose primarie, è il trionfo dell’irriducibile e repulsiva alterità. Non c’è colpa né malvagità nei protagonisti, vittime tutti quanti di una vicenda impossibile. L’arrivo di Titti è lo svelamento epifanico dell’impossibile, il male innominabile di cui la bimba muore (o rischia di morire) è la conferma di quella esiziale impossibilità. L’estroso ulisside Sirio s’è provato a forzarla con un atto vitalistico di hybris, ma deve infine arrendersi. Di quel divieto sventatamente infranto e di una storia che non poteva felicemente avverarsi restano le separate macerie: un padre vedovo con una figlietta orfana e una madre vedova con un orfano in grembo.
1 Fu pubblicata il 9 luglio 1911 sul «Corriere della Sera»; fu poi raccolta nel volume del 1915 La trappola (Milano, Treves). Venne infine inclusa, come novella d’apertura, nel quarto e omonimo volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
Il titolo, pur così emblematico per Pirandello, è in parte ingannevole in rapporto alla vicenda che sta per essere raccontata. La condizione dell’«uomo solo» è infatti una dimensione simbolica ed estrema che caratterizza i più singolari e straordinari personaggi pirandelliani, quelli che alla solitudine pervengono per via di conquista e pagando il prezzo di una Bildung soggettiva ardua e riservata a pochi. Qui, viceversa, la solitudine è quella pateticamente connotata a p. 203: «Ciascuno, [...] pensando alla propria casa senza donna, vuota, squallida, muta, compreso da una profonda amarezza, sospirava». Ne consegue il timbro narrazionale che contrassegna l’intera novella, quello di un’ottica penetrante e disvelante che solo per il rovescio di uno spietato denudamento circonda di pietà la storia di quattro inconsolabili solitudini. E l’oggetto del racconto, il tormento della privazione, è qualcosa di così fisico, corporale e viscerale, di così irriflesso, che in un simile clima anche il minimo scarto umoristico risulta inabilitato a prodursi, come se la carne torturata e gemente di cui si narra non potesse sopportare il bruciore supplementare del sentimento del contrario.
2 Una delle più celebri strade romane, che sale da piazza Barberini verso Porta Pinciana e Villa Borghese.
3 La convivente separatezza di padre e figlio è una delle tracce più dolorose e toccanti della vicenda, e toccherà un culmine straziante nel capoverso irreparabilmente disgiuntivo di p. 208 («E lo respinse da sé» ecc.).
4 In uno dei foglietti di appunti pirandelliani si legge: «Il vedovo, lo scapolo, il tradito dalla moglie. Questo, nel caffè, accanito a strapparsi alcuni peli dal naso, che lo fanno lacrimare e starnutare. Passano coppie di sposi. Passano donne sole. Quello che dice il vedovo, quello che dice il tradito, quello che dice lo scapolo» (v. SPSV, p. 1214). E pare inequivocabilmente l’annotazione dello spunto su cui sarà sviluppata la novella.
5 Strabici.
6 Birra (designata per metonimia col nome di una delle marche più note e di una delle più tradizionali località di produzione della bevanda).
7 V. La signorina, n. 24. Oltrepassata Porta Pinciana, la via Veneto del capoverso incipitale praticamente immette nel parco.
8 Regolare e ben curato.
9 Soffocata, oppressa.
10 Impomatarsi.
11 Trasandato (Dal naso al cielo III 364 e n. 11).
12 V. Dal naso al cielo, n. 10.
13 È la prima, limpida versione borghese della sequenza tradimento noto e tacito – tolleranza – coazione ad accorgersi – reazione, che starà al fondo de La verità, di Certi obblighi e infine de Il berretto a sonagli.
14 Viziava, avvezzava male.
15 Quella di Mariano Groa sembra proprio una delle «innombrables légendes de l’amour trompé, du dévouement méconnu, des efforts non récompensés» [innumerevoli leggende dell’amore ingannato, della devozione misconosciuta, degli sforzi senza ricompensa»], alle quali allude Baudelaire ne Les veuves, una delle prose dello Spleen de Paris (v. CH. BAUDELAIRE, Œuvres complètes, Paris, Gallimard, 1961, pp. 244-7). E il narratore di questa novella sembra rappresentare bene l’«oeil expérimenté» del poeta-filosofo che non s’inganna nel decifrare per tanti piccoli tratti il segreto delle sofferenze altrui.
16 Riconoscibilissima ripresa, in chiave risentitamente patetica, del conflitto tra anima e corpo che s’è visto declinato, su altro registro, sia in Acqua amara III 177 (v. la relativa n. 34), che in Scialle nero II 470, che in Quand’ero matto II 213 (e v. la n. 26). Da Acqua amara proviene presumibilmente, per analogia, anche l’avvilente metafora suina. Ma appunto il confronto tra Bernardo Cambiè, guarito e umorista, e l’inguaribile Mariano Groa, consente di misurare l’inconciliabile distanza che separa, nel corpus pirandelliano, i destini di coloro che alle aggrovigliate distrette della vita e delle pulsioni vitali riescono a sottrarsi per la via della solitaria riflessione e della umoristica consolatio philosophiae, e quelli di chi, avvelenato dal troppo amore per la vita, si macera nel desiderio, nel rimpianto, nel tormento della privazione senza che né il tradimento, né il disprezzo, né il pudore oltraggiato valgano, nonché a guarirli, neppure ad alleviarne le pene. La distanza che separa coloro cui riesce di spogliarsi del proprio corpo, o di staccarsene, e di farsi tutti anima, da coloro il cui corpo e il cui sesso continuano invece a reclamare i propri diritti anche contro la tenerezza del loro cuore «semplice, di bambino». Per Bernardo Cambiè è possibile, nonostante l’esuberanza corporea, sublimarsi nella vergine inglesina che è la sua anima; Mariano Groa non troverà altro modo di tacitare gli insostenibili desideri del suo «corpaccio da maiale» che dandosi furiosamente la morte.
17 Coperti da un velo vitreo di lacrime; v. La levata del sole, n. 10.
18 Risplendesse, brillasse.
19 Nella novella del 1934 C’è qualcuno che ride VI 295 si leggerà: «e che peccato questa pallida rosa già disfatta che serba nelle foglie cadute un morente odore di carne incipriata».
20 Sconvolto e agitatissimo.
21 Guardò fisso.
22 È un semplice percorso che conduce al Tevere attraverso il centro di Roma.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 9 agosto 1911. Nel 1915 venne compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Sullo scorcio del 1917 o nelle prime settimane del 1918, Pirandello ricavò dalla novella un atto unico, che venne stampato sulla «Rivista d’Italia», come «novella sceneggiata», il 31 gennaio 1918; e che andò in scena nella versione dialettale, protagonista Angelo Musco, al Teatro Alfieri di Torino il 23 marzo di quello stesso anno.
2 Folti (v. Lo storno e l’Angelo Centuno, n. 27).
3 Senza più nome, il curioso personaggio riapparirà, ancora nei panni di giudice, in Uno, nessuno e centomila: «Aveva della talpa, con quelle due manine sempre alzate vicino alla bocca, e i piccoli occhi plumbei quasi senza vista, socchiusi; scontorto in tutta la magra personcina mal vestita, con una spalla più alta dell’altra. Per via, andava di traverso, come i cani; benché poi tutti dicessero che, moralmente, nessuno sapeva rigare più diritto di lui» (v. RII, p. 897).
4 Si rammenti il finale di Dal naso al cielo (III 373): «Dall’alto delle corone di quegli ippocastani pendeva un esilissimo filo di ragno, che s’era fissato su la punta del naso del piccolo senatore. / Di quel filo non si vedeva la fine. / E dal naso del piccolo senatore un ragnetto quasi invisibile, che sembrava uscito di tra i peluzzi delle narici, viaggiava ignaro, su su, per quel filo che pareva si perdesse nel cielo».
5 La certezza negativa del giudice D’Andrea corrisponde al postulato aureo della saggezza socratica: sapere di non saper nulla.
6 Raffreddore.
7 «Magistrato al quale, nel procedimento giudiziario, è affidata la fase diretta alla determinazione della materia del contendere e delle ragioni addotte dalle parti e alla raccolta degli elementi di convinzione utili alla decisione» (Devoto-Oli).
8 Sonnecchiare.
9 Rattrappendosi.
10 Diventato frate. E frate si dice normalmente «il baco da seta che, non trasferito tempestivamente al bosco, fa il bozzolo sulla stuoia» (Devoto-Oli).
11 Scrollata (qui involontaria, nel sonno).
12 I tradizionali amuleti che i superstiziosi portano addosso contro la iettatura.
13 Bizzarro, stupefacente (v. anche La casa del Granella III 156).
14 D’essere beneficati.
15 Color grigio topo.
16 Scartò bruscamente.
17 Il bastone di bambù.
18 Corrucciato.
19 Confuso per lo stupore, attonito.
20 Irrefutabili.
20 Impiegato addetto alla stesura e trascrizione di atti.
21 Abbigliato.
22 Edifici in costruzione.
23 Bersaglio di una imperscrutabile iettatura atavico-etnologica, il pensatore socratico dalla dirittura morale inflessibile, giudice per forza che da sé non aveva trovato modo alcuno di evitare la sanzione anche giudiziaria, e beffarda, dell’iniquità di cui già la società aveva reso vittima un poveruomo, abbraccia fraternamente lo iettatore presunto e sofista per forza, che ha scoperto la via del callido e disperato paralogismo per ritorcere contro la società persecutrice la sua stessa sanzione punitiva.
24 Nel corpus, la società e la giustizia che ne emana vengono senza eccezioni rappresentate come macchine che privilegiano e premiano i ricchi e i prepotenti e puniscono viceversa gli inermi e i poveri. A questi ultimi non rimane altra risorsa per difendersi che quella di diventare interpreti straordinariamente acuti e smaliziati delle norme sociali come di quelle giudiziarie, interpreti così sottili da costringere la giustizia, e la società che se ne serve, a rispettare con implacabile rigore e senza transazioni di sorta la loro stessa logica. E a pagar dazio se in quella logica c’è contraddizione. Delle due l’una: o la mala fama di Chiàrchiaro deve venire smentita e risarcita da una condanna per diffamazione dei denigratori che gliel’hanno gettata addosso, oppure un prezzo va pagato affinché Rosario Chiàrchiaro si astenga dall’esercitare il suo potere iettatorio conclamato. Purtroppo, e naturalmente, la genialità giurisprudenziale di Chiàrchiaro (come più tardi quella di Quaquèo in Certi obblighi e di Ciampa nella commedia Il berretto a sonagli) non si traduce mai in una vera rivalsa sociale e non produce veri risarcimenti. Solo con le parole Chiàrchiaro rovescia come un guanto la realtà mostrando come suoni falso il tintinnio innocuo di gobbetti d’argento e cornetti di corallo in presenza d’un uomo gettato sul lastrico, di una moglie paralitica e dello zitellaggio coatto di due figlie. L’unica vittoria vera resta quella, tutta narrativa, del disvelamento umoristico nei confronti della mistificante, e al fondo giustificazionistica, aderenza realistica.
1 Seconda novella del trittico sottointitolato Tonache di Montelusa, fu pubblicata per la prima volta sulla «Rassegna contemporanea» nell’agosto del 1911. Nel 1915 venne compresa (insieme alle altre due, Difesa del Mèola e Visto che non piove, e sotto il titolo complessivo sopra citato di Tonache di Montelusa) nella raccolta Erba del nostro orto (Milano, Studio Editoriale Lombardo), che l’editore milanese Facchi ristampò nel 1919. Entrò infine a far parte del primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad, 1922).
2 Colui che occupa il più alto dei trentatré gradi gerarchici nella massoneria di rito scozzese antico.
3 V. Il marito di mia moglie, n. 13.
4 V. Difesa del Mèola III 469.
5 Appiccicosa.
6 Di traverso.
7 Senza aver fatto testamento.
8 Gonfiavano di noia stizzita (v. Acqua amara III 176).
9 V. Sua Maestà II 354 e n. 34. Nel silenzio della visita di condoglianza, ci si aspetterebbe piuttosto irritantissimo. E invece, anche qui, la grottesca curvatura metaforico-metonimica trasferisce e sfoga nelle scarpe la stizza di cui frigge il barone.
10 Di pelle laccata.
11 Adesso (è variante regionale che proviene per apocope dall’avverbio latino modo, di uguale significato).
12 Sottinteso: per cento.
13 Propriamente, “soffiare”. Al figurato: avvampare alte, come spinte dal vento.
14 Relativi a cambiali.
15 Dilazioni di pagamento.
16 Smettevano, cessavano.
17 Il nome è antico e culto. E infatti oblato (nome derivato dal participio del verbo latino offero e che significa appunto “offerto”, “consacrato”) si chiamava, nel Medioevo, la «persona consacrata a Dio sin dall’infanzia, per offerta (oblatio) dei genitori a una chiesa o a un convento, con atto paragonabile a quello della dedizione in servitù» (Devoto-Oli). Ma quel nome suona quasi schernevole nel momento in cui la realtà che designa, vagamente carceraria, non sottintende più alcuna oblazione ma solo la derelizione di orfani e bastardi.
18 Fabbricato, edificio.
19 Un po’ sporgenti.V. Tra due ombre, n. 5).
20 Questo tratto della fisionomia di monsignor Landolina verrà ereditato nel 1913 da monsignor Montoro, vescovo di Girgenti ne I vecchi e i giovani (v. RII, pp. 111 e 460), e nel 1926 dal canonico Sclepis di Richieri, anch’egli rettore del Collegio degli Oblati, in Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 886).
21 Saliva.
22 Cilicio, cintura di penitenza.
23 Questo paragrafo della novella, dal principio e fino a questo punto, verrà puntualmente ripreso in Uno, nessuno e centomila (v. RII, pp. 885-6), dove sarà però don Antonio Sclepis (il vecchio segretario del vescovo di Difesa del Mèola (III 466) a occupare il posto di monsignor Landolina. E il travaso non porrà problemi, poiché quello che è qui il tormento di don Arturo Filomarino sarà nel romanzo il tarlo di Vitangelo Moscarda, erede anch’egli delle fortune usurarie del padre.
24 Fremito.
25 Nel corpus pirandelliano, uno zelo generoso di pietà e di carità si ritrova solamente in fanciulli devoti e candidi o nelle rare bizzarre figure di santi-matti. Viceversa la pietà e la carità, e la stessa fede, non sono mai generose e fino in fondo persuasive nei personaggi che vestono un abito sacerdotale. Quello di monsignor Landolina è l’esempio estremo, e mirabile, della spietatezza e della gelidità disumane di cui anche l’opera pietosa e caritatevole si ammanta quando obbedisce ad una fede disincarnata e avara, tutta punitiva e penitenziale. In questa figura bianca e diafana di prete non c’è traccia di candore, e la sua incorporea lievità che fila «tra le labbra bianche que’ suoi grumetti di biascia» è destinata a suscitare solo fremiti di orrore e di ribrezzo. Se il povero don Arturo si sentiva scottato come dalle fiamme dell’inferno dall’usura paterna, ben ghiacciata è l’aria del paradiso che spira dallo zelo implacato di monsignor Landolina «esattore di Dio» (v. Padron Dio, n. 5).
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 2 ottobre 1911. L’anno seguente venne compresa nella raccolta Terzetti (Milano, Treves, 1912) ed entrò infine a far parte del dodicesimo volume delle «novelle per un anno», Il viaggio (Firenze, Bemporad, 1928). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Ulteriore travestimento narrativo di Porto Empedocle.
3 Nello scritto intitolato Presentazione, e pubblicato nel febbraio del 1909 su «La preparazione», Pirandello discorreva umoristicamente del terremoto che aveva da poco distrutto Messina e Reggio Calabria, della retorica e dello snobismo che avrebbero persuaso a ricostruirle nei medesimi luoghi sebbene fossero zone sismiche, e del silenzio del buon senso. E a questo proposito scriveva: «Ma forse il nostro buon senso se n’è stato zitto perché la sa più lunga di tutti: sa che una città, un villaggio non si fabbricano, dove si vuole; ma nascono quasi da sé dove urge la vita. O come si spiegherebbero allora certi paesi situati pazzescamente, all’orlo d’un precipizio, o in gole buje, o in un terreno paludoso che li appesta? Lì urge, stramba o triste, la vita. E a fabbricare altrove Reggio e Messina ci sarebbe il rischio di veder le case avviarsi in processione strette agli scialli dei loro intonachi e sotto il cappello dei loro tetti, al posto di prima, dove la vita le chiama e le vuole, a dispetto della morte che si diverte a buttarle giù» (v. SPSV, p. 1024).
4 Per una analoga caratterizzazione d’ambiente, v. L’altro figlio III 81-2.
5 Presi nelle loro brighe.
6 Abbrutiti.
7 Rese furiose come cani idrofobi.
8 Farsi una posizione, sistemarsi.
9 Il metro rigido su cui si misurano i tessuti. V. Il vitalizio, n. 24.
10 Compenso dovuto alle balie (v. Va bene, n. 23).
11 Sonnecchiando.
12 Fiutando.
13 V. Mondo di carta III 478 e n. 18.
14 Ce la.
15 Dignità di vacca, dunque. Ma la greve metafora non ha valore spregiativo e oltraggioso: intende solo crudamente esprimere l’oggettiva degradazione del livello di vita e di coscienza delle miserabili donne di Nisia.
16 Sotto specie di, col pretesto di una.
17 Incrostati di brago. V. L’altro figlio III 82.
18 V. L’altro figlio III 82: «Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola camicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolavano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura, i porcellini cretacei».
19 «Arnese fatto ad arco, di vimini o di legno, che si colloca nei lettucci o nelle culle dei bimbi appena nati, sotto le coltri, per impedire che queste li soffochino; trespolo» (GDLI).
20 Lattante, neonato. Nutrico è voce strettamente regionale, «dal sicil. nutricu, deverb. da nutricari, ‘allevare, nutrire’» (GDLI).
21 Fatte, deposte (v. Benedizione, n. 10).
22 Chioccia.
23 Afferrare, impedire che cada.
24 Smorfie.
25 Dilazione.
26 In disordine, spettinata. V. Pallino e Mimì, n. 42.
27 E il ciclo si riapre, la giostra dell’avidità e della fame riprende a girare. Tra le tante novelle siciliane, è questa una delle più capuanianamente «paesane». La trama narrativa esilissima tessuta intorno a Rosa Marenga e al mercato dei libretti rossi, resta ancillare rispetto alla pittura del quadro d’ambiente preannunciato dall’incipit sulla nascita e la crescita di Nisia. E anche le striature umoristiche, immesse in una tavolozza cruda, e crudele, quasi naturalistica, stentano ad alleggerire le tonalità cupe e fosche. Gli interventi allocutivi della voce narrante aggiungono d’altronde un ulteriore registro al testo senza peraltro giovare alla fusione del tutto. Il racconto non va oltre lo stato di uno studio a più strati.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 19 ottobre 1911. Nel 1915 venne ristampata in testa alla raccolta La trappola (Milano, Treves) ed entrò infine a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1). Nella stampa in raccolta del 1915, la novella era stata sottotitolata (a modo di prefazione).
2 Sciascia annota al proposito: «Erano, nei paesi, il giorno e le ore delle udienze della cosiddetta Conciliazione, in cui un giudice di nomina, non di professione, risolveva le piccole controversie. Quel giorno e quelle ore Pirandello, forse inavvertitamente balenandogli la parola “conciliazione”, e il senso, li adotta per dare udienza ai suoi personaggi: per conciliarli, nell’arte, a se stessi: con giustizia spietata e insieme con grande misericordia» (v. L. SCIASCIA, Alfabeto pirandelliano, Milano, Adelphi, 1989, p. 83).
3 Straordinariamente bizzarri.
4 I quattro capoversi incipitali, con la sceneggiatura dell’attività autorale creativa in forma di udienza, sono palesemente una libera riscrittura dell’identico movimento d’apertura della novelletta-saggio del 1906, Personaggi (v. III 295).
5 Si adombri (v. La casa del Granella, n. 7).
6 V. Personaggi III 296: «Vorrebbero essere tutti belli, i miei signori personaggi, e moralmente inammendabili».
7 La considerazione sarà ripresa alla lettera da Angelo Baldovino, protagonista della commedia del 1917 Il piacere dell’onestà: «Volerci in un modo o in un altro, signor marchese, è presto fatto: tutto sta, poi se possiamo essere quali ci vogliamo. Non siamo soli! – Siamo noi e la bestia. La bestia che ci porta. – Lei ha un bel bastonarla: non si riduce mai a ragione» (v. MN1, p. 571). La bestia non è presente nella novella, ma il fantasma di essa è evocato, nel capoverso precedente, dalla trittologia verbale dell’ostinazione bestiale («aombri e s’impunti e recalcitri furiosamente»). Per l’ambito tematico sollevato dalla contraddizione essere/voler essere, v. anche Non è una cosa seria, nn. 3 e 4.
8 Diffondendo la voce. V. Il nido, n. 15.
9 Già in Personaggi (v. III 296) si leggeva: «Ah che canaglia! dopo che io ho dato loro il mio sangue, la mia vita, e ho sentito come miei i loro dolori, le loro sventure, – sissignori! – appena usciti dal mio studio, vanno dicendo per il mondo che io sono uno scrittore beffardo, che invece di far piangere la gente su le loro miserie la faccio ridere, ecc. ecc.».
10 V. pp. 82-93.
11 V. Personaggi III 295: «Voi avete la fortuna, signori miei, d’esser ombre vane».
12 Il dottor Fileno, qui presentato come personaggio di un lungo romanzo altrui, dunque come un fantasma proveniente non dalla fantasia inventiva ma dalla lettura, è una maschera narrativa dal passato singolarmente ambiguo e complesso. Mentre non è legato da alcuna parentela con Leandro Scoto, il dottore in scienze fisiche e matematiche di Personaggi, ha già circolato nel corpus prosastico pirandelliano, fregiandosi del medesimo titolo di «dottore» ma sotto altro nome o, meglio, sotto lo pseudonimo di Paulo Post. Materialmente pseudonimico è il suo atto di nascita, poiché, a firma Paulo Post, Pirandello aveva stampato nell’ormai lontano 1896 (il 9 e il 18 marzo), sulla rivista «La Critica» diretta da Gino Monaldi, due articoletti: Una spazzola! e I filatori (v. SPSV, pp. 1019-22). A quell’altezza era l’elzevirista Pirandello che si compiaceva di spingere umoristicamente lo sguardo avanti e indietro nel tempo sotto il nome avverbiale, e non dottorale, latino di Poco Dopo. Ma nel 1909 egli pubblica su «La preparazione» un trittico di brevi scritti (Presentazione, Feminismo e Ricomincio a veder l’Europa) sovraintitolato Da lontano (v. SPSV, pp. 1023-34), e Paulo Post nasce per la seconda volta, come pseudonimo del dottore-personaggio oggetto della presentazione, ma figura la cui schiva riservatezza diffida dallo svelarne l’identità. Nella prima delle tre prosette, colui che scrive o, meglio, colui che parla per iscritto in prima persona, deliberatamente favorendo presso il lettore la confusione tra la voce sua e quella di Pirandello (autore sottoscritto), mentre finge di lodare il tempo presente («oggi come oggi, tutto va bene»), dichiara di temerne le tendenze massificanti e collettivizzanti e di sentirsi di scommettere solo sull’uno, e non sul numero, come eventuale salvatore nel caso che «domani, scoppiando una guerra, ci trovassimo assai male e, durando questa pace, fors’anche peggio». Constatata d’altronde l’assenza di grandi capitani e di grandi statisti, «abbiamo bisogno», dice lo scrivente, «di uno che almeno insegni a guardare le cose da un certo lato, che ci nasconda o ci attenui le asprezze disgustose e ci insegni a lamentarci con tristezza decente e con qualche dignità». E continua: «Ebbene, quest’uno ho trovato io. Oggi ve lo presento; ma vi chiedo licenza di non nominarlo. So che egli non legge e forse non ha letto mai in vita sua giornali; so che da anni e anni non esce più di casa, appartato come un eremita tra i suoi libri di storia e di filosofia; ma se venisse a sapere, per una combinazione qualsiasi, che io ho messo fuori il suo nome, se n’avrebbe tanto a male, che mi priverebbe subito della sua vista e de’ suoi lumi, schivo com’egli è, non dico modesto, e serio. Per dargli un nome, lo chiameremo, se non vi dispiace, il Dottor Paulo Post» (v. SPSV, p. 1025). A questo punto il complicato gioco delle maschere letterarie è quasi fatto e la prosa del 1909 ci mette direttamente sulle tracce del dottor Fileno, che uno scrittore di scarso talento e pochi scrupoli ha infilato in un romanzo tradendone lo scontroso riserbo senza neppure capirne la grandezza.
13 Il povero dottor Fileno ha perduto i caratteri soterici che due anni prima l’elzevirista ironico de «La preparazione» aveva creduto di poter riconoscere al dottor Paulo Post, ma questo nulla toglie alla testuale dimostrazione che i due dottori del lontano sono un personaggio solo. Di seguito a quanto riportato nella nota precedente, di Paulo Post si leggeva infatti: «A chi legge ogni mattina od ogni sera il giornale e va appresso a tutte le notizie minute che il telegrafo e il telefono diffondono da ogni punto del globo; notizie spesso inutili, di rado liete; a chi in somma affoga nella cronaca, mi figuro che debba far piacere il vedersi a quando a quando sollevato nella storia attraverso la cronaca stessa trasformata, concentrata, semplificata, o meglio, idealizzata nei suoi caratteri essenziali, mondata di tutte le scorie pigre e disutili, spoglia di tutte le contingenze senza valore, di tutti i particolari ovvii, comuni, caduchi, di tutti i miseri ostacoli quotidiani, che ce la fanno parer triste e greve, ingombrante, oppressiva e disgustosa: veder in altri termini la cronaca fatta storia; tutte le miserie, grosse e piccine, che ci affliggono, tutte le doglie, tutte le noje, i pericoli che ci sovrastano, i bisogni che ci dan pensiero, le cure che ci angustiano, in somma tutta la vita nostra d’oggi vederla allontanata nel tempo, pur restandoci dentro, sprofondata nel passato, pur restando attorno a noi, con noi e in noi presente. / Questo è il metodo del dottor Paulo Post. E con questo metodo egli è guarito di tutti i suoi mali, si è liberato da ogni pena e ha trovato, senza bisogno di morire, la pace: una pace austera e serena, soffusa di quella certa mestizia senza rimpianto, che serberebbero ancora i cimiteri su la terra, anche quando tutti gli uomini vi fossero morti. / Il dottor Paulo Post legge da mane a sera libri di storia e vede nella storia anche il presente, e lontanissimo. Non si sogna neppure di trarre dal passato ammaestramenti per il presente: sa che sarebbe tempo perduto, e da sciocchi. La storia per lui è una composizione ideale d’elementi raccolti secondo la natura, le antipatie, le simpatie, le aspirazioni, le opinioni degli storici, e che perciò questa composizione ideale non è applicabile mai alla realtà viva, effettiva, in cui gli elementi sono ancora scomposti e sparpagliati. Non si sogna neppure il dottor Paulo Post di trarre dal presente previsioni per l’avvenire. Egli fa proprio il contrario: si pone idealmente nell’avvenire per guardare il presente e lo vede come passato. Pochi giorni or sono, per esempio, gli è morta una figliuola: l’altro jeri sono andato a visitarlo: ebbene, era come se quella figliuola gli fosse morta da cent’anni. La sua sciagura ancor calda egli la aveva perfettamente allontanata nel passato. Ma bisognava vedere da quale altezza e sentire con quanta dignità ne parlava. / Ha come un cannocchiale il dottor Paulo Post. Lo apre, ma non si mette già a guardare verso l’avvenire, dove sa che non vedrebbe nulla; ma persuade l’anima sua a esser contenta di porsi a guardare dalla lente più grande, volta all’avvenire, attraverso la piccola, appuntata nel presente. E la sua anima così guarda col cannocchiale rivoltato; e il presente subito s’impiccolisce e s’allontana. / Da varii anni egli attende a comporre un libro, che farà epoca certamente. Il libro s’intitola appunto Filosofia del lontano. Vedrà la luce, quando il suo autore non la vedrà più – (così mi ha detto)» (v. SPSV, pp. 1025-6). Un paio di osservazioni si impone. Innanzitutto, per quanto riguarda il primo capoverso citato, e a proposito dunque di cronaca e storia, va detto che nell’idea di storia ivi proposta non si possono non riconoscere, riformulati quasi alla lettera, quei medesimi caratteri di semplificazione-idealizzazione attribuiti al racconto letterario in Personaggi, alla letteratura non umoristica ne L’umorismo e ai personaggi letterari in Illustratori, attori e traduttori (v. Personaggi III 295-7 e nn. 9 e 25). Sottratta alla cronaca, e dunque alla dolorosa e irritante prossimità del vissuto, per via di selezione e depurazione prima, di ricombinazione e ricomposizione poi, la storia palesa già qui quella virtù balsamica e analgesica di distanziamento e pacificazione che a suo tempo la renderà strumento terapeutico, e serissimamente ludico, insostituibile in mano allo sventurato protagonista di Enrico IV. L’altra osservazione, contigua e interconnessa, riguarda il «cannocchiale rivoltato» che in qualche modo rappresenta il concreto emblema ottico della filosofia della storia come filosofia del lontano. Ne L’umorismo, il telescopio compariva, dopo l’infelicitante macchinetta della logica di cui la natura stessa aveva provveduto a dotare l’uomo, come l’ultimo degli strumenti di tortura che l’uomo si era apprestato da sé: «Ci diede il colpo di grazia la scoperta del telescopio: altra macchinetta infernale, che può fare il pajo con quella che volle regalarci la natura. Ma questa l’abbiamo inventata noi, per non esser da meno. Mentre l’occhio guarda di sotto, dalla lente più piccola, e vede grande ciò che la natura provvidenzialmente aveva voluto farci veder piccolo, l’anima nostra, che fa? salta a guardar di sopra, dalla lente più grande, e il telescopio allora diventa un terribile strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze» (v. SPSV, p. 156). A prima vista, il telescopio rivoltato ottiene un effetto curiosamente opposto a quello del cannocchiale di Paulo Post-Fileno. In realtà, anche a prescindere dal fatto che là il sistema di lenti usato alla rovescia, ossia come ottica rimpicciolente e distanziante, sia maliziosamente puntato sulle glorie dell’uomo e qui invece, con funzione storicizzante lenitiva, sulle miserie, le doglie, le noie, i pericoli, i bisogni, le cure angustiose, anche nell’Umorismo un colpo di tallone umoristico, e pascaliano, ribalta positivamente la visione subissante: «Fortuna che è proprio della riflessione umoristica il provocare il sentimento del contrario; il quale, in questo caso, dice: – Ma è poi veramente così piccolo l’uomo, come il telescopio rivoltato ce lo fa vedere? Se egli può intendere e concepire l’infinita sua piccolezza, vuol dire ch’egli intende e concepisce l’infinita grandezza dell’universo. E come si può dir piccolo dunque l’uomo?».
14 V. Personaggi III 300: «Consideri, per citare un esempio, che Don Abbondio, santo Dio, che è? un pretucolo di villaggio, un’animella spaventata, e sissignori! che bella fortuna ha avuto quello là! Vive eterno!».
15 Entrando in agitazione, in confusione.
16 Il beneficio, il vantaggio.
17 Nel 1909, lo scrivente che aveva presentato il dottor Paulo Post concludeva così: «Per consolazione dei lettori di questo giornale, che ne avranno voglia, io mi propongo di sottomettere di tanto in tanto al cannocchiale rivoltato del dottor Paulo Post i fatti più notevoli, le questioni più ardenti, gli uomini più celebri nell’arte, nella politica, nelle scienze dei giorni nostri. Vedremo che bella figura essi faranno veduti da lontano, impostati nel passato, concentrati e riassunti nella storia. / Ma ho gran paura che molti non si vedranno più» (v. SPSV, pp. 1026-7).
18 Come già al Leandro Scoto di Personaggi, tocca anche al dottor Fileno, contraddittoriamente incapace di mettere a frutto per sé il suo metodo filosofico, patire il rifiuto autorale. L’artificio metanarrativo su cui si fonda la novella si ritorce in artificiosità e non trova soluzione se non nella leggibilità simbolico-allegorica del testo, allusiva di una condizione insoddisfacente, frustrante e deformante dell’uomo moderno, della sua perdita d’identità in una realtà sofferta come aliena e nelle peripezie d’un vissuto in cui non si riconosce, e del suo inutile ricorso ad un autore altro (demiurgo, salvatore, dio? anch’esso peraltro destituito di aura) che gli garantisca emancipazione, realizzazione di sé e speranza d’immortalità. Solo in questa congetturale luce allegorica può assumere senso e significare la tragedia romanzesca ed estetica degli Scoto e dei Fileno; come più tardi quella drammaturgica dei Sei personaggi.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 17 dicembre 1911. Venne poi compresa nella raccolta E domani, lunedì (Milano, Treves, 1917) ed entrò infine a far parte del tredicesimo volume delle «novelle per un anno», Candelora (Firenze, Bemporad, 1928), costituito da quindici delle diciotto novelle della silloge milanese.
2 Nella cassa minuscola della doppia antifrasi attributiva (splendida invenzione pirandelliana del 1917) sono ritratte in miniatura e incapsulate insieme due ottiche irriducibilmente distanti, quella del mittente che ha scelto quel foglietto bello e supremamente elegante e quella della destinataria che ha ricevuto quel foglietto di volgarissimo gusto provinciale. Non potrebbe darsi, da parte di chi, narrando, è capace di fondere discorsivamente l’irreparabile disgiunzione, incipit più crudelmente e oggettivamente infausto: tutto è fin da principio fuori luogo.
3 Forma arcaica e poetica per devi.
4 Stare dentro, farsi contenere
5 I tendaggi pesanti che coprono le porte.
6 A confronto con quello della Momolina «placida placida» che era stata, questo della vedova signora Moma è il ritratto vivente e smanioso dello spaesamento. Colei che il matrimonio col procelloso musicista aveva materialmente spaesato sradicandola dal suo «paesello nativo»; che aveva vissuto ventotto anni di smarrita e frastornata marginalità, sempre sulla soglia d’una vita musicale per lei incomprensibile, sulla soglia della profonda intimità affettiva che aveva legato il marito e la figlia ma non lei, sulla soglia della corte festosa e adorante che aveva circondato il celebre consorte e la figlia bellissima ignorando lei; colei che, rimasta sola, non riesce tuttavia a rendersi conto di non essere mai stata al centro di qualche cosa e di non potere perciò più essere al centro di alcunché, mentre rifiuta infastidita l’amorosa centralità cui la richiama, dal remoto passato delle sue origini, il solo che l’avrebbe voluta al centro della vita, incarna dunque appieno l’implacabile eumenide dello spaesamento oggettivo e soggettivo.
7 A lei, costituitasi a sua insaputa in figura vuota e nulla dell’insignificanza, nessun vivente ha mai avuto nulla da dire, e alla sua impalpabile presenza incapace di lasciar traccia nella vita, nulla sanno dire neppure quegli attori inanimati ma vivi e memori che sono gli oggetti domestici. Ancor più miseranda risulta perciò, per contrasto, la sua presunzione rabbiosa d’aver tante cose da dire: Moma è la personificazione dell’insignificanza che pretende pateticamente di significare qualcosa di diverso da se stessa.
8 La spiegazione che il narratore sussurra, invitando gli inattesi narratari («voi che adesso la chiamate “una terribile seccatrice”») a una discrezione complice e pietosa, non potrebbe ugualmente essere più crudele di così: la placida Moma, da sempre soggetto di predicati esclusivamente passivi, a cominciare dall’innamoramento che, per quanto nel suo caso tiepido, è comunque evento per eccellenza passivo, ha vissuto solo di riflesso e obliquamente la vita che le veniva dagli altri. Una realtà che potesse chiamarsi la vita di Moma non è mai esistita, sommersa dalla vita della moglie del maestro Sorave e da quella della madre della figlia di lui, così come ora da quella della vedova Sorave. La casa di Moma è stata abitata da queste proiezioni seconde, da questi fantasmi della relazione e della complementarità subalterna, non da lei. E perciò, assente di fatto dalla propria vita, Moma è stata anche quasi assente dalla casa che per metonimia avrebbe dovuto significarla, e dunque, come in seguito il Fausto Silvagni de La rosa (v. V 149-50) e i viaggiatori smarriti di Nell’albergo è morto un tale (v. V 155), assente anche da sé. Non può essere taciuto che la redazione prima della novella (utilmente leggibile in NUAIII, pp. 1400-4) era nell’insieme considerevolmente diversa da questa, definitiva, risalente alla ristampa in raccolta del 1917. A parte una differente disposizione dell’intreccio, anche l’impianto narrazionale era altrimenti bilanciato da una voce narrante più diretta ed esplicita. Ben prima, e ben più brutalmente, il narratore spiegava al lettore le ragioni dell’abbandono di cui soffre la signora Moma: «Quell’abbandono proveniva da una ragione profondamente triste, di cui la signora Moma non riusciva peranche a capacitarsi. / Ella non era mai esistita. / Proprio così» (ivi, p. 1401). E con ordine, spietatamente, veniva chiarendo: «ella non era mai esistita [...] per il marito, se non forse nei primi momenti del loro incontro casuale»; «E neppure per la figliuola era mai esistita, non appena questa aveva cominciato a vivere per sé, nel mondo paterno»; «Tanto meno poi era esistita per questi altri». Nel 1917, la comprensione dell’infilzata di meccanismi esclusivi cui va incontro la protagonista è affidata molto di più alla semantica del racconto e alle inferenze di lettura, e molto meno all’autorevole gestione assertiva del narratore.
9 Il poemetto virgiliano in quattro libri (che tratta della vita agreste, della coltivazione, delle cure da dedicare ad alberi e animali, della vita delle api) è notoriamente testo di non facilissima lettura. Giorgio Fantini, pretendente respinto, è un non-protagonista narrativo: tanto più desolante per la protagonista Moma è l’implicita sottolineatura della superiorità di colui che la donna si appresta a congedare con sprezzante fatuità. Attaccato alle proprie radici, Fantini ha saputo crescere, arricchirsi, coltivarsi e consistere; Moma, sradicata in boccio, è restata l’incolta e scipita nullità che era a sedici anni. Il bon ton dei suoi rimproveri all’irriflessivo spasimante sarà tanto più penoso in quanto fondato su una menzogna vanitosa e inconsapevole, della quale, come del fatto che la donna che s’è profferto di sposare non ha niente da dire a nessuno, il Fantini fa presto a rendersi conto.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 31 dicembre 1911. Venne poi compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) ed entrò infine a far parte del terzo volume delle «novelle per un anno», La rallegrata (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Eravate stato ordinato sacerdote?
3 Nella gerarchia ecclesiastica della chiesa cattolica, prima della riforma introdotta con la lettera apostolica Ministeria quaedam del 15 agosto 1972, ordine era detto ciascuno dei gradi della gerarchia stessa. Erano ordini minori l’ostiariato, il lettorato, l’esorcistato e l’accolitato; ordini maggiori il suddiaconato, il diaconato, il sacerdozio, l’episcopato.
4 L’epistola è «la parte della Messa in cui si dà lettura di qualche brano della Sacra Scrittura, per lo più tratto dalle Lettere degli Apostoli» (Devoto-Oli). Il cantare allude alle celebrazioni delle messe solenni.
5 Le ampolline contenenti l’acqua e il vino.
6 «Piattello di metallo (per lo più prezioso), a largo orlo, usato per coprire il calice e per contenere l’ostia, prima e dopo la consacrazione, nella Messa» (Devoto-Oli).
7 La parte della messa dedicata alla consacrazione eucaristica.
8 Sgangherate, sguaiate.
9 Simile e diverso era il caso del professor Luca Blandino nella prima stampa (1901) de L’esclusa: «In gioventù questi era stato lì lì per diventar prete; ma urtato dalle ipocrisie clericali e non trovando, a suo dire, assai acqua per la sua sete nelle pile delle chiese e nei calici dell’olocausto, aveva smesso l’abito talare prima di prender gli ordini religiosi. Tuttavia era rimasto credente, né i libri di filosofia, né lo spirito scettico e positivo della nuova generazione, erano valsi a scuotere la sua fede tormentata» (v. RI, p. 907).
10 È il primo e fatale rovescio umoristico della storia di Tommasino. Normalmente, la perdita della fede si configura come una caduta rispetto alla sete di spiritualità e di elevazione di cui la fede si alimenta; come una resa, per quanto amara e sofferta, alle ragioni terrene e grevi della materialità e della corporalità. Nel rapporto che la fede instaura fra l’io e Dio, fra l’uomo e la trascendenza, è solitamente l’individuo a non reggere alle mortificazioni e alle rinunce che gli imperativi della fede impongono, e a cedere. Tommasino, viceversa – come già peraltro l’altro seminarista dimissionario, il Cosmo Antonio Corvara Amidei di Va bene –, non essendo affatto preda della «violenza di appetiti terreni», non cede, non cade, non precipita per mancanza di vigore e di zelo; viene anzi proiettato oltre la fede da una sete di spiritualità così bruciante da non trovare sollievo e soddisfazione neppure nella santità della vita dedicata al ministero religioso. Poiché ha rigettato la norma dell’abito e degli ordini, di Tommasino può esser detto legittimamente che è «uscito suddiacono dal seminario senza più tonaca, per aver perduto la fede». In fondo, però, egli non ha fatto altro che disubbidire alla norma d’una fede che ha deluso la sua «sete d’anima»: l’insufficienza, la mancanza, il difetto di fede, ossia di sostanza delle cose sperate, stanno tutti dalla parte delle istituzioni della fede e della religione e non dalla parte dell’individuo. È stata la povertà asfittica di quella fede ridotta a rito ripetitivo e a pura liturgia ad irritare la sete spirituale del candido suddiacono e a farla diventare arsura, smania e infine insofferenza e abiura. Come dire che Tommasino era troppo pieno di fede per accontentarsi dello zelo richiesto e del nutrimento spirituale offerto dalla vita di chiesa. Per troppo vigore di santità egli diventa ribelle, anacoreta e martire.
11 Trattenuto dal.
12 Finemente (detto con ironia).
13 Proclamando.
14 La prima redazione conteneva a questo punto l’inserto seguente: «si sprofondò nella lettura dei libri di filosofia antica e moderna, che un suo amico, uscito insieme con lui dal seminario, gli mandava in prestito da Roma» (v. NUAI, p. 1284). Ma era, tutto sommato, il cedimento ad un motivo stereotipo; e Pirandello vi rimediò: la seconda iniziazione del candido suddiacono apostata non si fonda sui libri e non si nutre di filosofia; proviene esclusivamente da ascesi meditativa e dalla compulsazione solitaria del gran libro della natura.
15 Pian della Britta si intitola anche una lirica pubblicata il 16 gennaio 1909 sulla «Nuova Antologia» e raccolta nel 1912 in Fuori di chiave (Genova, Formìggini), che arieggia, in tutta la prima parte (vv. 1-15), il clima ambientale della novella: «Pian de la Britta, che fragor di mare / fan questi tuoi castagni alti e possenti! / Ma l’ombra, sotto, qua e là di rare / luci trafitta, ire non sa di venti, / e tra tanto fragor sospesa pare: // recesso eccelso, a cui la maestà / di questi tronchi immani una solenne, / misteriosa aria di tempio dà; / e quel fragore ad un oblio perenne / di tutto invita: ombra e vento che va... // Pian de la Britta, oblio di tutto... Eppure, / forse per altro l’alte vette adesso / dei tuoi castagni fremono alle pure / aure del monte. Sentono da presso / la sega strider, picchiare la scure» (v. SPSV, pp. 657-8). E il curatore Manlio Lo Vecchio-Musti avverte (ibid. p. 656): «Il “Piano della Britta” sorge nei pressi di Soriano nel Cimino, luogo di villeggiatura frequentato da Pirandello».
16 Si rammenti la modulazione del medesimo motivo in Quand’ero matto... II 215: «M’usciva dalla gola un mugolìo sordo, continuo, che si confondeva col violento stormire delle foglie, come se il mio corpo, ferito, si dolesse per suo conto, mentre l’anima, sconvolta, stupita, non gli badava».
17 La redazione del 1911 parlava di «un corpo enormemente pasciuto e satollo e pago, da padre abate» (v. NUAI, p. 1285), e rinviava ancor più chiaramente di questa al precedente di Acqua amara III 168 («faccione da padre abate satollo e pago»). Il riaffioramento del pacioso comparante conventuale è fortemente indiziario e tutt’altro che casuale, poiché anche il Bernardo Cambiè di quella novella aveva dovuto fare, ancorché con esito assai più felice, i suoi bravi conti con la lacerazione fra corpo ed anima. Qui è proprio questa ingovernabile divaricazione fra corpo (e corporalità) e spirito che fende verticalmente il personaggio e lo dilania fra un’apparenza di sanità e benessere e una intima invisibile essenza di macerazione e melanconia: la sua inesausta «sete d’anima» lo tormenta e lo scava mentre il suo corpo sazio e disappetente lo schernisce e lo espone al dileggio. Ma è anche evidente che la totale identificazione dell’io dimidiato con uno spirito fissato «in un dolore profondo o in una tenace ostinazione ambiziosa», uno spirito immalinconito e stremato dalle «disperate meditazioni», e il simultaneo completo distacco dell’io (v. p. 249: «stanco dell’ingombro di quella sua stupida carne») dal corpo e da ogni desiderio carnale, se configurano l’incorporea leggerezza dell’estasi e del rapimento mistico, configurano però anche, in termini di tetra anestesia e di abulia morbosa, la malattia. Il binomio ossimorico santità-follia, già sotteso nel 1902 alla vicenda allegorico-umoristica di Quand’ero matto, viene qui pienamente ripreso e ritematizzato ben più drammaticamente. Tornando per un momento alla redazione del 1911 e alla dittologia attributiva «satollo e pago» che vi riaffiora per l’ultima volta nell’ambito del corpus novellistico, si può conclusivamente notare che anch’essa, tra Scialle nero (II 476) e Benedizione (v. p. 98 e n. 21) da una parte, e Acqua amara e Canta l’Epistola dall’altra, rivela la sua semantica ancipite, divisa fra la connotazione propria di una essenza bestiale che si manifesta nella sazietà dell’uomo-porco e quella, ingannevole, di un’apparenza grossolana e soddisfatta, e ambigua (da padri abati troppo ben pasciuti per essere puri di spirito e mondi di concupiscenza), che perseguita e rende irriconoscibili personaggi astinenti, casti e meditativi come Bernardo Cambiè e Tommasino Unzio.
18 Per un analogo gioco con nomignoli e accrescitivi, v. ancora Acqua amara III 169: «qua mi chiamano Il marito della dottoressa. Cambiè mi chiamo. Di nome, Bernardo. Bernardone, perché son grosso».
19 Tutta la narrazione si dipana nel raffronto tra una vicenda immaginaria e presunta (quella supposta dal satiresco dottor Fanti, dal rozzo padre del protagonista, dal focoso tenente De Venera e dai paesani stupefatti dinanzi agli eventi che portano al duello mortale) e una vicenda vera e segreta, costituita dai moti e dalle pulsioni profonde di Tommasino e ignota a tutti gli altri personaggi del racconto; una vicenda di cui un narratore onnisciente si fa veicolo presso i lettori e che sarebbe altrimenti inconoscibile. La storia congetturale, quella che «gli sfaccendati del paese» gradirebbero sentir raccontare, sarebbe quella futile ma sapida d’un giovane avviato alla vita ecclesiastica e che se ne strappa per dar sfogo a sane esigenze corporali e sessuali. La storia vera, e per quella cerchia incredibile e incomprensibile, è tutt’altra, e la traccia indiziaria che qui ne dà il narratore non potrebbe essere più chiara. Tommasino, come tutti gli assetati d’anima, prova fastidio o ribrezzo del proprio corpo e non desidera il corpo femminile. Si dà il caso che, nel corpus, siano personaggi maschili piuttosto che femminili a patire quella sete, et pour cause (v. al proposito La levata del sole, n. 5), ma accade anche puntualmente che quella brama spirituale sia inversamente proporzionale alla virilità di chi la prova. Tanto più il personaggio è bruciato da quella sete e tanto meno è maschio e virilmente concupiscente, tanto più propende alla misoginia o a un atteggiamento fobico nei confronti della donna, e tanto più tende invece a manifestare una sensibilità e a provare sentimenti (quello materno in particolare) palesemente e contraddittoriamente femminili. In Pirandello, è molto più spesso l’uomo che aspira ad essere tutto anima (spirito, pnèuma, psyché) e molto più spesso è la donna a restare gravata dall’istintuale e dal corporale (in primo luogo perché trascinata e travolta irresistibilmente dalla sua uterinità), ma in compenso l’anima è istanza intimamente femminile e perciò, nei personaggi maschili, castrante e sublimante (v. Acqua amara III 177 e n. 34).
20 Un lontano ascendente di questo moto d’estraniamento è riconoscibile persino in un sonetto del 1890, Depressione (vv. 12-4): «Atomo umano, guarda in ciel le nubi: / estraneo a tutto sei, estraneo passi. / Scenda pei sogni miei, scenda l’oblio» (v. SPSV, p. 763). E una nitida replica di questo stremato desiderio echeggerà nel terzultimo capitolo di Uno, nessuno e centomila: «Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, così tra l’erba, al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!» (v. RII, p. 896).
21 Abbacinanti (v. Quand’ero matto... II 207).
22 Questa clausola frastica, e la circostanza relazionale uomo-natura che la accompagna e la produce, costituiscono un cliché forte e ricorrente. Forgiato per caratterizzare il personaggio dell’anziano don Cosmo Laurentano nel romanzo I vecchi e i giovani (v. RII, p. 42: «Guardò gli alberi, davanti alla villa: gli parvero assorti anch’essi in un sogno senza fine, da cui invano la luce del giorno, invano l’aria smovendo loro le frondi tentassero di scuoterli. Da un pezzo ormai, nel fruscio lungo e lieve di quelle fronde egli sentiva, come da un’infinita lontananza, la vanità di tutto e il tedio angoscioso della vita»), connota qui il desiderio di estraniazione (un vero e proprio anti-desiderio) della repressa giovinezza di Tommasino e verrà ancora una volta rimodulato a contrassegnare la stanchezza rassegnata del vecchio Guarnotta ne La cattura (v. V 383).
23 A questo punto, dietro la vicenda di Tommasino ormai prossima alla sua catastrofe apparentemente bizzarra, può essere scorta un’altra pagina di Schopenhauer, una pagina del medesimo quarto libro di Die Welt als Wille und Vorstellung cui già Quand’ero matto aveva senza ombra di dubbio rinviato (v. nn. 12 e 14): «La volontà si distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l’affermazione di quella. L’uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della completa soppressione del volere. [...] La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all’ascesi. Non basta più a quell’uomo amare altri come se stesso, e far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l’essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore. Quest’essenza appunto, in lui medesimo palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall’attaccar la sua volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei genitali l’istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto. Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell’ascesi, ovvero nella negazione della volontà di vivere» (v. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari, Laterza, 19936, pp. 496-7).
Un’impressione di pari intensità aveva provato l’anno prima la protagonista de Il viaggio (v. p. 158). Ma là si trattava di uno strano incanto straniante prodotto dal recondito e simultaneo appressamento dell’amore e della morte; qui non si tratta di una sensazione o di un’emozione, ma di un moto ottativo, di un estenuato desiderio di perdita di coscienza e di panica astrazione e dispersione dell’io. Va certo rammentata l’amara e recente considerazione del protagonista di Paura d’esser felice (v. p. 181 e n. 12), ma questa voglia alla rovescia, questa espressione di nolontà coscienziale, intellettuale ed emotiva vanno oltre quella stessa considerazione. Il melanconico io-anima auspica d’essere dilavato di ogni identità e soggettività («senza più affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri»), di diventare strumento imperturbato e remoto di registrazione della «vanità d’ogni cosa» e del «tedio angoscioso della vita», di liberarsi della propria natura pensante e senziente e di regredire ad animale, a vegetale, a cosa inanimata. La discesa invocata lungo la scala bestia-pianta-pietra non esprime propriamente una pulsione di morte, ma piuttosto un percorso mitico regressivo verso l’unità opaca e indifferenziata del cosmo vivente, verso quel tutto unico felicemente inconsapevole ed atarattico dal quale la nascita ci ha sciaguratamente staccati (v. al proposito La trappola). Certo, il non-desiderio di Tommasino è anche un cupio dissolvi, ma è appunto, e letteralmente, voglia non tanto di morte-dissoluzione quanto di scioglimento e di riflusso nel magmatico fiume dell’essere. Questo groviglio psichico e mitico, verbalizzato qui per la prima volta in forma forte e pressoché paradigmatica, arriverà fino a segnare, nel 1925, il capitolo conclusivo di Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 901: «Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace e non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo») e addirittura l’explicit di quell’ultimo romanzo: «muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori» (ivi, p. 902). Senza tuttavia esaurirsi, poiché, nove anni più tardi, quell’istanza di metamorfica ed umile persistenza riaffiorerà prepotente in Di sera, un geranio (v. VI 289).
Breve glossa aggiuntiva: sarà forse soprattutto una suggestiva coincidenza tematico-situazionale, ma certo è che Tommasino, «sdrajato lì su l’erba, con le mani intrecciate dietro la nuca», richiama non senza ragione un poetico protagonista, anteriore di qualche anno, che, «supino nel trifoglio», «estranio / ai casi della vita», «sente fra le sue dita / la forma del suo cranio». Alludo all’io lirico de La via del rifugio, la poesia eponima della prima raccolta gozzaniana (1907), il quale si definisce «questa cosa vivente / detta guidogozzano» (vv. 35-6), manifesta un non-desiderio curiosamente simile a quello di Tommasino Unzio: «Oh la carezza / dell’erba! Non agogno / che la virtù del sogno: / l’inconsapevolezza» (vv. 41-4), e considera la vita «un gioco affatto / degno di vituperio, / se si mantenga intatto / un qualche desiderio» (vv. 165-8), ragione per cui la sua scelta ultima e rinunciataria è precisa: «Un desiderio? Sto / supino nel trifoglio / e vedo un quatrifoglio / che non raccoglierò» (vv. 169-72). E invece la signorina Olga Fanelli distrattamente recide e raccoglie il filo d’erba amorosamente allevato da Tommasino, così come le nipotine di guidogozzano catturavano e trafiggevano a morte, con innocente e fatua crudeltà, una bella farfalla (v. G. GOZZANO, La via del rifugio, in Poesie, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einaudi, 1973, pp. 5-12). A una pura coincidenza non credo, tanto più che il corpus pirandelliano contiene, sparsi, numerosi segni di una qualche inclinazione verso curvature crepuscolari di stampo gozzaniano, e la cosa non può sorprendere più di tanto se si tengono presenti la dose cospicua di autoironia che caratterizza la poesia di Gozzano e le forti figure di straniamento che stirano i suoi racconti in versi e vi determinano, a volte, quasi una declinazione discorsiva di tipo umoristico.
24 L’intero passo, dall’insorgere del desiderio di inconsapevolezza («Non aver più coscienza» ecc.) a questo interrogativo, andrà a costituire il capitolo IX del secondo libro di Uno, nessuno e centomila, intitolato, come il capoverso-emblema novellistico, Nuvole e vento (v. RII, pp. 774-5).
25 V. sopra la n. 15.
26 La zona del Viterbese intorno al monte Cimino era ben nota a Pirandello, che vi ha spesso soggiornato d’estate. Proprio nel settembre del 1911 da Soriano nel Cimino aveva scritto ad Alberto Albertini: «sono qua tra i castagni e i faggi del Cimino» (v. CAR, p. 168).
27 Anche lo sguardo interiore e disincarnato di Tommasino si affaccia sulla faglia oscura che separa le sorti labili degli uomini dalla opaca e ben più duratura impassibilità delle cose e dall’eternità della natura. È la voragine metafisica, misteriosa, che ogni tanto rischiosamente attrae l’attenzione di personaggi dalla vista interiore particolarmente acuta e irrequieta. Si tratta di un’esperienza conoscitiva di distacco dell’io dalla realtà oggettiva che assume a volte (come qui) l’aspetto dell’elevazione e dell’ascesi, altre volte quello pauroso dell’alienazione e della perdita di realtà (v. quanto meno La trappola, p. 303 e, anche per ulteriori rinvii, Pena di vivere così VI 100 e n. 36), e altre volte ancora (si tengano presenti Il viaggio, p. 158 e La carriola V 215-6) quello d’un rapimento mistico in una dimensione spazio-temporale felicitante, altra e nel contempo intima e genuinamente propria. Quella faglia era stata descritta umoristicamente, nel 1906, nella prosetta Le cose (v. Sole e ombra, n. 5), ma le sue epifanie si verificano soprattutto in luoghi testuali ove il tumulto passionale o il silenzio meditativo sono più profondi e tesi.
28 V. Notizie del mondo I 531: «Che diresti tu, amico pipistrello, se a un tuo simile venisse in mente di scoprire un apparecchio da aggiustarti sotto le ali per farti volare più alto e più presto? Forse dapprima ti piacerebbe, ma, e poi? / Quel che importa non è volare più presto o più piano, più alto o più basso, ma sapere perché si vola».
29 Tutta quanta la parte conclusiva di questo paragrafo (da «Su nel bosco dei castagni» in poi) sarà ripresa e riscritta e costituirà il capitolo X, L’uccellino, del libro II di Uno, nessuno e centomila (v. RII, pp. 775-6). Quella zona dell’ultimo romanzo è del resto una vera e propria, e deliberata, centonizzazione di precedenti novellistici; tant’è vero che ai due capitoli provenienti da Canta l’Epistola seguirà immediatamente la ripresa di Alberi cittadini.
30 Tanto più il povero Tommasino è tormentato dalla insaziabile «sete d’anima» che gli ha fatto perdere la fede, e tanto più è beffardamente sospettato d’essere mosso dalla «violenza di appetiti carnali».
31 Il motivo dell’amore-tenerezza per la creaturalità effimera, emerso nel corpus precocissimamente (v. L’onda I 135-6, Il giardinetto lassù I 374-5, Padron Dio I 457), da Quand’ero matto... II 211-2 e da Il guardaroba dell’eloquenza III 437, riaffiorerà più tardi nitidissimo ne La maestrina Boccarmè VI 183. Accanto a questa di Canta l’Epistola – e con questa strettamente apparentata dalla memoria autorale –, nel medesimo 1911 ne va segnalata un’altra estesa occorrenza, quella contenuta nel romanzo Suo marito: «Silvia Roncella [...] aveva rivolto lo sguardo e il pensiero alla verde campagna lontana, ai fili d’erba che colà crescevano, alle foglie che vi brillavano, a gli uccelli per cui cominciava la stagione felice, alle lucertole acquattate al primo tepore del sole, alle righe nere delle formiche, che tante volte ella s’era trattenuta a mirare, assorta. Quell’umilissima vita, tenue, labile, senz’ombra d’ambizione, aveva avuto sempre potere d’intenerirla per la sua precarietà quasi inconsistente. Ci vuol tanto poco perché un uccellino muoja; un villano passa e schiaccia con le scarpacce imbullettate quei fili d’erba, schiaccia una moltitudine di formiche... Fissarne una fra tante e seguirla con gli occhi per un pezzo, immedesimandosi con lei così piccola e incerta tra il va e vieni delle altre; fissar fra tanti un filo d’erba, e tremar con esso a ogni lieve soffio; poi alzar gli occhi a guardare altrove, quindi riabbassarli a ricercar fra tanti quel filo d’erba, quella formichetta, e non poter più ritrovare né l’uno né l’altra e aver l’impressione che un filo, un punto dell’anima nostra si sono smarriti con essi lì in mezzo, per sempre...» (v. RI, pp. 620-1). A controprova di quanto osservato alla n. 17, si noterà che questa tenera affettività è un predicato capace di caratterizzare quasi indifferentemente personaggi femminili e maschili. Negli uni costituisce abbastanza chiaramente una proiezione sostitutiva della pulsione alla maternità, negli altri mantiene questo carattere fondamentalmente femminile in concomitanza con un bassissimo tasso di virilità.
32 Striati. V. Scialle nero, n. 18.
33 La commutazione di genere che l’aggettivo «materna» opera sul soggetto maschile implicito non può più sorprendere dopo quanto detto alle nn. 17 e 23.
34 Tutta la vergine vitalità di Tommasino, ed anche la sua fanciullesca e casta mascolinità, si sono trasferite e sublimate in questa sua fragile metafora vegetale.
35 La risposta alla domanda paradossale è negativa, s’intende. Ma è ormai anche chiaro che il gesto distratto e all’apparenza futile della signorina Fanelli significa una violenza tanto più orribile quanto più gratuita. Dell’ingombro della sua stupida carne Tommasino era stanco, ma la donna (inconsapevole baccante sempre temuta ed evitata) lo mutila crudelmente della sola virilità che gli rimanga e cui tenga, quella dell’anima.
36 È questa una consuetudine costante da parte di personaggi che non potrebbero essere più innocui e meno aggressivi e che vengono sfidati e controvoglia chiamati a battersi. Si rammenti il Bernardo Cambiè di Acqua amara III 179: «Le impose lui, le condizioni: alla pistola. Benissimo! Ma io pretesi allora, che si facesse a quindici passi»; e si pensi al Memmo Viola di Quando s’è capito il giuoco, p. 441: «Ma da che ci siamo, ohè, Gigi, bisogna far le cose sul serio. L’oltraggio è stato grave, e gravi debbono essere le condizioni». La differenza rispetto ad ambedue gli altri casi consiste nel movente (la sua disanimata stanchezza) che spinge Tommasino Unzio a pretendere condizioni gravissime; un movente che trasforma la sua partecipazione al duello in un suicidio camuffato che ha valore di martirio.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 22 gennaio 1912. Venne poi compresa nella raccolta La trappola (Milano, Treves, 1915) ed entrò infine a far parte del quarto volume delle «novelle per un anno», L’uomo solo (Firenze, Bemporad, 1922). Si riproduce il testo fornito da Mario Costanzo sulla base della mondadoriana del 1937-38 (v. Sole e ombra, n. 1).
2 Due motivi si intrecciano angosciosamente: quello dell’ingannevole realtà della memoria e dunque della fallacia di ogni illusione di persistenza e di durata oggettiva; e quello della natura tutta soggettiva ed emotivo-sentimentale del ricordo, che priva i contenuti presuntamente certi della memoria d’ogni riscontro reale. Non sono i mutamenti della realtà esterna a deludere l’ostinazione conservativa della memoria, non è la realtà a non essere più quale la si ricorda, sono i mutamenti soggettivi a impedire all’individuo di porsi con la medesima realtà nella medesima relazione di un tempo.
3 In grado, in condizione.
4 Primo anno della scuola finalizzata a formare i maestri elementari.
5 Cappello a tre punte (v. Benedizione, n. 15).
6 Prete titolare di un beneficio ecclesiastico.
7 Sotto gli occhi esterrefatti di Carlino Bersi in persona, lo sconosciuto dottor Palumba dimostra d’essere il custode non di qualche ricordo, ma del colorito leggendario paesano d’un Carlino Bersi ignoto a sé medesimo.
8 In questa versione definitiva, la novella si chiude drammaticamente sul balbettio rotto e confuso, inarrestabile, di Palumba, che esprime la sua crisi d’identità e di relazione e che, in due riprese verbalizzato, incornicia l’excusatio e le spiegazioni del narratore-protagonista pervadendo l’intero spazio dell’explicit. Il resto qui non è silenzio, ma marasma. La redazione del 1911, nella quale non a caso il protagonista non faceva cenno alla propria crudeltà, amplificava narrativamente quello che qui è solo un tentativo dichiarato, e mancato, di Carlino di venire in aiuto al povero Palumba («Cercai di confortarlo, di calmarlo») e si chiudeva in tal modo con un finale più accattivante e, appunto, assai meno crudele. Visto immediatamente, da questa prima battuta vaneggiante di Palumba, l’effetto fulminante e disorientante del proprio brusco disvelarsi, Carlino Bersi badava subito a rimediare: «– Carlino, Carlino... – gli dissi, alzandomi e aiutandolo a mettersi in piedi per farlo respirare. – Proprio io, caro Lover... cioè, Palumba adesso, caro Palumba! Càlmati, càlmati... perdonami se t’ho fatto questo scherzo; ma tu sei stato per una mezza giornata come un incubo per me! E sono stato uno sciocco a meravigliarmi tanto, perché già avevo sperimentato io stesso che non hanno alcun fondamento di realtà quelli che noi chiamiamo i nostri ricordi. Basta ritornare un po’ sui luoghi, per scoprirli una finzione nostra, caro Lover... cioè, Palumba adesso, caro Palumba! / Il povero dottore seguitò un pezzo a balbettare, in preda a un crescente tremor nervoso: / – Ma come?... che dice?... Ma dunque lei... cioè, tu... tu dunque non ricordi? / Lo interruppi di nuovo, battendogli una mano su la spalla: / Illusioni, caro, illusioni! Di tutto quello che tu dici, che tu credi di ricordare, niente è vero, amico mio, niente... niente... ma non perché tu sii in mala fede, no! Tu ti eri composta una bella favola di me... Me n’ero composta una anch’io, per conto mio, che è subito svanita... appena ritornato qua... Ora, se mi sono apparsi vani i miei stessi ricordi, figurati i tuoi, caro Palumba! Vedi? ti stavo di fronte, e non mi hai riconosciuto... Ma perché tu vedevi entro di te Carlino Bersi, non quale io sono, ma come tu mi hai sempre sognato... / Gli strinsi forte forte la mano per scuoterlo da quell’imbalordimento pietoso in cui era caduto, e mi accomiatai, ripetendo: / – Credi, credi, sì: era tutto un sogno tuo, tutto un sogno tuo, mio buon amico; e mi duole di avertene svegliato» (v. NUAI, pp. 1400-1).
9 A distanza di quasi dieci anni, la novella risuscita e modula la vicenda comico-farsesca di Amicissimi. Ma lì la dinamica era quella della buffa dimenticanza, e la saggia crudeltà conclusiva era quella dell’amicissimo non riconosciuto che rifiuta di svelare la propria identità; qui l’elemento nucleare della vicenda è la sorprendente e inquietante plasticità, dunque l’illusorietà, della memoria, e la crudeltà consiste nello svelamento, il quale non produce una felice agnizione né una ricomposizione della memoria-sentimento e della realtà (del soggettivo e dell’oggettivo), ma soltanto lo smarrimento e il vuoto irrisarcibili d’una inutile reificazione.
1 Fu pubblicata per la prima volta sul «Corriere della Sera» il 4 febbraio 1912. Nel 1922 entrò infine a far parte del primo volume delle «novelle per un anno», Scialle nero (Firenze, Bemporad). Messo sull’avviso dallo sdegno suscitato nei lettori da Pensaci, Giacomino! e dal rifiuto opposto dal «Corriere» a La morta e la viva, il 9 gennaio 1912 Pirandello aveva scritto all’Albertini mettendo le mani avanti: «Le mando [...] la nuova novella richiestami. Se per caso dovesse parerLe che possa urtare la suscettibilità dei lettori del Corriere, me la rimandi senza cerimonie. A me, veramente non pare. Ma Ella è più buon giudice di me» (v. CAR, p. 172).
2 Prima che alla signorina Anita, questo tratto seducente era appartenuto, ne Il fu Mattia Pascal, a un’altra bruna, Romilda: «[...] occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano» (v. RI, p. 345).
3 Sono versi innamorati da accreditare senz’altro al sentimentale amico Marino, come esplicitamente detto nella prima stampa: «Bruna, occhi bellissimi: / negli occhi suoi la notte si raccoglie / profonda, con due stelle ilari, acute... / ricordo i tuoi versi» (v. NUAI, p. 1181).
4 In particolare.
5 Vergogna su chi ne pensa male. È il motto del supremo ordine cavalleresco inglese, l’Ordine della Giarrettiera, risalente al 1347. La tradizione vuole che il re Edoardo III in persona abbia raccolto e graziosamente restituito alla contessa di Salisbury la giarrettiera casualmente cadutale a corte, al tempo stesso gelando con la sferzante arguzia i sorrisi maliziosi dei cortigiani.
6 Un tacchino. V. Richiamo all’obbligo III 301.
7 Il metodo è, naturalmente, quello di una serissima lettura umoristica dei fatti, capace di relativizzarli e di decifrarli traguardandoli attraverso la mutevole e contraddittoria filigrana delle relazioni anziché irrigidirli in termini di predicazione univoca e assoluta.
8 V. Va bene, n. 58. È una tradizionale meta balneare per i romani.
9 Luna quasi piena, essendo la quintadecima il 15° giorno del novilunio, ossia il plenilunio.
10 In Trovarsi, commedia del 1932, Pirandello riutilizzerà, in altra chiave, la circostanza del morso salvifico in mare (v. MNII, pp. 925-7).
11 Ciascuno a suo modo si intitolerà una commedia del 1924.
12 Verbalizzazione nitidissima del motivo denominabile “uno, nessuno e centomila”, del quale qui resta sotto narcosi solo la polarità nullificante. E non è certo un caso se proprio sul ribollente nodo tematico sotteso alla «spiegazione» la riscrittura pirandelliana è intervenuta, a un decennio di distanza, per riaggiustare l’originaria stesura del 1912, che era (dall’inizio del capitoletto e fino a questo punto) la seguente: «Causa di tutti gli errori di giudizio, e perciò di tutte le ingiustizie e dei crudeli tormenti che ne derivano, è il credere alla nostra unità. Mi spiego. Tu conosci la signorina Anita, e secondo la conoscenza che ne hai, le dai una realtà per te. Ma credi che la signorina Anita che conosci tu sia quella stessa che conoscono gli altri? No, caro. Ciascuno la conosce a suo modo e le dà a suo modo una realtà. E per sé stessa la signorina Anita ha tante realtà quante persone conosce, perché in un modo ella si conosce con te e in un altro modo con un terzo, con un quarto e via dicendo. Il che vuol dire che la signorina Anita è realmente una con te, un’altra con un terzo, un’altra con un quarto e via dicendo, pur avendo l’illusione anche lei, anzi lei soprattutto, d’essere una con tutti, perché noi crediamo in buona fede d’esser tutti in ogni nostro atto» (v. NUAI, p. 1182). L’anno seguente il motivo sarà un’altra volta estesamente verbalizzato, in prima persona e in chiave leggera, nell’atto unico Cecè (v. MN1, pp. 113-4). Intorno al medesimo motivo, ancor più pertinenti delle considerazioni sulla molteplicità dell’anima umana contenute nell’Umorismo (v. SPSV, pp. 150-1), e debitrici del libro di Giovanni Marchesini Le finzioni dell’anima (v. Una voce, n. 20), appaiono due foglietti rintracciati da Barbina tra le pagine d’un libro della residua biblioteca pirandelliana. Nel primo si legge: «L’errore sta in questo: nel considerare proprio la vita come un sol tutto, cioè nel concetto unitario della vita. Noi non siamo mai tutti in ogni nostro atto: e non parlo degli atti incoscienti e involontarii, cioè operati all’insaputa di noi stessi. Parlo della realtà che noi ci diamo, con la perfetta coscienza d’essere e di volerci in un dato modo. Questa realtà non è mai una, questo dato modo non è mai uno, noi non siamo mai tutti in un dato modo, cioè in questa realtà che ci diamo cosciente e volontaria. Noi siamo sempre tanti, perché ogni unità non è mai in sé sola, in un solo tutto, ma in tanti tutti. L’unità c’è in quanto c’è il molteplice, e il molteplice è sempre nell’uno: cioè ogni unità è nella relazione delle parti tra loro. Mutate le relazioni muta l’unità. E l’unità muta continuamente. Noi ne vediamo una alla volta e crediamo che questa unità sia un sol tutto, ma non è mai così: noi non siamo mai uno ma tanti, sempre»; e nell’altro: «Per ogni nostra azione, facciamo una scelta: in ogni scelta è un’inclusio unius e per conseguenza un’esclusio alterius. Noi dunque dalla unità che ci diamo per una data azione, escludiamo tant’altre parti di noi, poiché è in noi una possibilità d’essere altrimenti; e come dunque in ogni nostro atto si può essere un sol tutto, se tanta parte ne abbiamo lasciata fuori? Come ogni singolo atto può impegnare tutta la vita? cioè tutta la possibilità d’essere in altro modo, contemporaneamente, come in realtà siamo? Noi abbiamo impegnato una nostra unità, non tutte le altre che contemporaneamente sono in noi e che si svolgono nella molteplicità delle relazioni diverse e non si assommano tutte in quell’una» (v. BRB, p. 64). Le considerazioni contenute nel primo foglietto trovano un assetto ancor più serrato e stringente nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore: «Abbiamo tutti un falso concetto dell’unità individuale. Ogni unità é nelle relazioni degli elementi tra loro; il che significa che, variando anche minimamente le relazioni, varia per forza l’unità. Si spiega così, come uno, che a ragione sia amato da me, possa con ragione essere odiato da un altro. Io che amo e quell’altro che odia, siamo due: non solo; ma l’uno, ch’io amo, e l’uno che quell’altro odia, non son punto gli stessi; sono uno e uno: sono anche due. E noi stessi non possiamo mai sapere, quale realtà ci sia data dagli altri; chi siamo per questo e per quello» (v. RII, pp. 581-2).
13 Come già s’è detto (v. Il dovere del medico, n. 29), il motivo del fatto come gancio e dell’orrore di restare malignamente agganciati ad un atto solo è forte e insistente. Questa formulazione riscrive un passo di Personaggi (v. III 296) e si ripresenterà pressoché intatta sia nella partitura drammaturgica dei Sei personaggi in cerca d’autore (v. MN2, p. 701) che in quella romanzesca di Uno, nessuno e centomila (v. RII, p. 799).