AVVERTENZA
Questo libro avrebbe dovuto chiamarsi L’Italia di De Gasperi, e in realtà lo è. Ma l’editore suggerì che questo titolo non avrebbe facilitato le vendite, e noi abbiamo avuto la debolezza d’inchinarci a queste ragioni commerciali e di accettare L’Italia del miracolo, titolo certamente più attraente, ma non altrettanto pertinente almeno dal punto di vista cronologico.
Il «miracolo» infatti venne dopo l’episodio conclusivo del libro: la morte dello statista trentino, nel ’54. Se non come scusante, almeno come attenuante, noi possiamo tuttavia addurre il fatto che, anche se sbocciò più tardi, il miracolo ebbe le sue premesse in questo periodo, che vide il definitivo inserimento dell’Italia nella famiglia delle democrazie occidentali, e non solo come vincolo di politica estera col Patto atlantico e la Comunità europea, ma anche come accettazione delle regole del giuoco economico. Se non ci fossero state, grazie soprattutto a De Gasperi, queste decisive scelte contro le resistenze sia della sinistra comunista che si batté all’ultimo sangue contro di esse al servizio dell’URSS, sia della destra nazionalista, nostalgica e rancorosa verso gli ex nemici, nessun miracolo sarebbe stato possibile. De Gasperi non fece in tempo a vederlo. Ma ce lo lasciò in eredità.
Purtroppo non altrettanto possiamo dire della sua eredità politica, perché di eredi De Gasperi non ne lasciò. E proprio la sua caduta, pochi mesi prima della morte, lo dimostra. Prima che amareggiato, De Gasperi dovette restare stupefatto dalla mancata unanimità del Partito intorno al suo nome come segretario generale. Evidentemente egli non si era accorto che la DC, come del resto anche tutti gli altri partiti, non era più quella ch’egli aveva voluto che fosse e che in realtà era stata fino ai primi anni Cinquanta: una grande cinghia di trasmissione, intesa a interpretare e rappresentare la volontà degli elettori.
Che la DC e gli altri partiti democratici lo avessero fin allora sempre fatto e sempre fatto bene non si può dire. Ma che De Gasperi così intendesse e manovrasse il Partito, è sicuro. Quella che si trovò di fronte al Congresso del ’53 era però una tutt’altra DC in mano a una categoria di apparatchik – come li chiamano i sovietici che di questo sistema sono stati i grandi maestri –, cresciuti a sua insaputa nelle pieghe della «macchina» partitica, e diventatine i padroni.
In questi anni il Paese subisce infatti un’autentica rivoluzione con l’apertura delle sue frontiere, l’accettazione delle regole del mercato internazionale e le tumultuose migrazioni interne dalla campagna alla città e dal Sud al Nord. Le premesse di tutto questo erano state poste da De Gasperi e dalla sua «squadra»: gli Einaudi, gli Sforza, i La Malfa, i Merzagora, i Menichella con le misure di liberalizzazione avversate sia dai comunisti che dalla parte più retriva dell’imprenditoria nazionale avvezza da sempre ai pannicelli caldi dell’autarchia. Ma, scomparso De Gasperi, tutto questo prese a svolgersi al di fuori di una classe politica sempre più chiusa nella sua cittadella, e quindi sempre più estranea al Paese. Sicché, mentre la vita italiana si sviluppava – sia pure nel più totale disordine e con drammatici scompensi – nel campo economico, sociale, culturale eccetera, quella politica si sclerotizzava riducendosi a un giuoco di potere fra partiti, «correnti» e clan e dando inizio a quel deleterio fenomeno che si chiama «partitocrazia», e che oggi è arrivato alla sua fase di putrescenza.
Noi abbiamo cercato di rendere chiaro il groviglio di avvenimenti che segnarono questa fase del dopoguerra. Ci auguriamo di esserci, almeno in parte, riusciti.
I.M.