CAPITOLO NONO

ROMA O MOSCA?

Il 27 maggio 1952, lo stesso giorno in cui in Italia si svolgeva la seconda tornata delle elezioni amministrative, a Parigi fu firmato il trattato per la Comunità europea di difesa (CED). Il più ambizioso e più sfortunato tentativo per dare alla costruzione europea una struttura veramente integrata in un settore di particolare importanza e delicatezza: quello delle Forze Armate.

L’idea europea aveva in quel momento sostenitori convinti, prestigiosi, insospettabili di secondi fini. Ne era fervido assertore Alcide De Gasperi, cui l’esperienza politica vissuta nell’Impero austro-ungarico, edificio multinazionale complesso e sotto molti aspetti mirabile, ispirava grande fiducia in questo tipo di realizzazioni. Per l’Europa integrata si batteva il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, che cercava ad Occidente un contrappeso alla pressione che il blocco dell’Est esercitava sulle frontiere della Germania Federale. Per Adenauer la Comunità europea era inoltre uno strumento capace di togliere i Tedeschi dalla condizione di vassallaggio politico in cui li avevano collocati i durissimi vincoli di occupazione. Era europeista il ministro degli Esteri francese Robert Schuman, legato ad Adenauer e a De Gasperi dalla comune ideologia democratico-cristiana. Per l’Europa unita si era pronunciato anche Winston Churchill, che aveva impeti di lirismo nell’esaltare la solidarietà continentale, presto corretti da fredde e se occorre ciniche valutazioni insulari. «Il movimento europeo» aveva scritto Churchill a De Gasperi nel marzo 1949, alla vigilia d’un vertice di leader occidentali «sta facendo grandi progressi e portando nuova fede e ispirazione ai milioni di uomini che giustamente vedono nell’Unione europea la maggiore speranza per il mantenimento della pace e della libertà. L’incontro di Bruxelles fornirà un nuovo possente impeto alla nostra campagna alla quale spero lei ed il popolo italiano vorranno attivamente partecipare.»

La via verso l’auspicata integrazione aveva cominciato ad essere tracciata con il Consiglio d’Europa, un’assemblea parlamentare non elettiva «frutto» secondo una definizione di Sforza «di un compromesso tra le più avanzate aspirazioni franco-italiane e quelle assai più caute del governo britannico».

Il Consiglio si riunì per la prima volta nel settembre 1949 e risultò subito abbastanza chiaro – la battuta è di Roberto Ducci – che l’Europa a Strasburgo era fatta «di delegati governativi privi di poteri e di deputati privi di tutto fuor che della parola».

De Gasperi, che aveva fede ma non era un ingenuo, se ne accorse subito: e si accorse egualmente delle resistenze che sotto sotto gli Stati Uniti opponevano a una crescita politica dell’Europa capace di sminuire l’importanza e l’efficienza del Patto atlantico.

Scrivendo a Sforza nell’autunno del 1950 De Gasperi osservava: «Se il Consiglio d’Europa non prende questa volta una sua fisionomia, è la sua morte civile. Converrebbe trovare una formula che mettendo fuori dubbio la nostra lealtà atlantica potesse esprimere una concezione attiva europea. Ottima è l’occasione della comparsa di Bonn. Prevedo le difficoltà ma tu hai tutte le premesse per superarle: americanismo convinto, apostolato di europeismo, democratismo incontestabile e autorità personale. Non bisogna nascondersi che tra i Nordamericani i fanciulloni sono molti e che anche le democrazie politiche hanno i loro punti deboli. La vecchia Europa è più equilibrata e più esperta».

Ma il Consiglio d’Europa pestava l’acqua nel mortaio tanto che un anno dopo la lettera di De Gasperi il suo presidente, il belga Henri Spaak – altro padre dell’unità continentale –, rassegnava sbattendo la porta le dimissioni. In un discorso polemico accusò i parlamentari d’inerzia, e aggiunse che preferiva «riprendere il suo posto tra i veri combattenti per l’Europa».

Qualche passo avanti per la verità era stato fatto, ma in campo economico. Aveva preso a funzionare l’OECE (organizzazione economica) ed era stata varata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) voluta da Schuman che si proponeva tra l’altro, con la neonata istituzione, di superare l’eterno dissidio franco-tedesco. La CECA prevedeva l’unificazione dei processi e degli obiettivi produttivi dei due Paesi in settori economicamente fondamentali, con la possibilità di accogliere adesioni di altri Paesi. Il trattato della CECA era stato firmato a Parigi senza gl’Inglesi, il 18 aprile 1951: e fu un prologo, appunto, al faticoso e – come poi si vide – inutile accordo per la Comunità europea di difesa: ché l’intero progetto crollò per i pentimenti e voltafaccia francesi.

Adstans (pseudonimo sotto il quale si nasconde il diplomatico Canali, fidato collaboratore di De Gasperi) ha lasciato un racconto vivo della seduta in cui la CED prese forma. «Nel suo discorso in aula De Gasperi aveva detto che questa era un’occasione “che passa e che non tornerà più. Bisogna afferrarla e inserirla nella logica della storia”. Ma in quella notte l’occasione passò per un pelo. Van Zeeland stava per lasciare la seduta poco prima di mezzanotte, per prendere il suo treno prestabilito. De Gasperi lo esortò a indugiare: vi sarebbe stato un altro treno all’indomani. Van Zeeland replicò che aveva impegni a Bruxelles. “Anch’io” insistette De Gasperi “ho lasciato impegni di governo, e ne sono il Presidente, perché ho la convinzione che se non superiamo questo malpasso oggi non lo faremo mai più.” Van Zeeland si lasciò persuadere. Alle due del mattino, dopo lunga discussione in cui affiorarono dubbi e perplessità che il passo non fosse più lungo della gamba, la seduta terminò con l’approvazione dell’articolo.»

Era davvero un passo più lungo della gamba. Vale la pena di spiegare quale fosse, nell’intenzione dei sei Paesi che firmarono il trattato della CED (Italia, Francia, Germania Federale, Benelux) l’assetto dell’esercito europeo. Citiamo dal più recente libro di Andreotti su De Gasperi: «La Francia non voleva che la Germania entrasse nella NATO ed avesse un suo esercito [avrebbe cioè dovuto disporre solo di unità inserite nell’esercito europeo, N.d.A.] … La durata del servizio militare doveva essere uguale in tutti gli Stati, ma vi sarebbe dovuta essere autonomia per la concessione degli esoneri. Il reclutamento sarebbe fatto dal Commissario dopo costituita la Confederazione europea e per ora dalle unità nazionali. Circa l’incorporazione delle truppe, il Comitato dei Ministri aveva proposto di immettere tutte le forze nazionali nell’armata europea ad eccezione delle truppe coloniali, della polizia, nonché delle truppe di occupazione a Berlino e in Austria… I Paesi del Benelux desideravano che nell’interno delle unità (divisioni) operassero criteri nazionali per l’avanzamento degli ufficiali e sottufficiali. Adenauer invece si era opposto perché si sarebbe violato così il principio della unità europea. Per l’istruzione militare si prevedevano collegi militari nazionali e scuole di guerra comuni a tutti i Paesi… Necessario istituire un bilancio comune, ma si poneva il quesito se dovesse essere comune in tutto o in parte». De Gasperi aveva commentato, dopo questa vittoria di Pirro: «L’Europa si fa ora o non più. La Germania riarmerà per conto suo e l’America abbandonerà l’Europa. Come si arginerà allora la pressione bolscevica?». La profezia era troppo pessimista, ma il trattato era troppo ottimista. E naufragò.

L’Europa dei sei

Alla CED si erano vivacemente opposte le sinistre, che del resto proseguivano, forse senza troppa convinzione, la loro battaglia contro il Patto atlantico. Quando il 17 giugno 1952 il generale americano Ridgway, comandante della NATO, venne in Italia, e furono indette manifestazioni a volte violente contro la presenza del «Generale peste», Togliatti pronunciò un discorso alla Camera per deplorare la visita. In esso giustificò «le interruzioni del lavoro che si sono estese a quasi tutte le fabbriche del Paese e alle quali hanno partecipato migliaia e migliaia di lavoratori».

La tesi comunista e socialista sulla posizione dell’Italia era quella d’una vaga neutralità (termine al quale Togliatti e Nenni davano accentuazioni diverse). Ma quando Nenni – andato a Mosca per ricevervi il premio Stalin per la pace – ne parlò il 17 luglio a Stalin stesso, lo vide assai poco interessato. «Stalin lascia cadere il mio accenno a una neutralità italiana garantita a un tempo dall’Unione Sovietica e dagli Stati Uniti d’America e avanza l’idea di un patto di non aggressione tra Roma e Mosca.» Anche se Nenni sembrava dimenticare Yalta, Stalin non incorreva in quella distrazione. Tanto gli era presente la spartizione del mondo, e l’impossibilità – per l’URSS – di aggregarsi l’Italia, che aveva pensato di distogliere Togliatti dai suoi compiti di leader del PCI e di richiamarlo entro i confini dell’Impero sovietico, per un compito ideologico, e d’organizzazione, simile a quelli ricoperti durante lunghi anni.

Questa svolta – anzi mancata svolta – aveva avuto la sua causa occasionale in un grave incidente automobilistico di cui Togliatti era stato vittima a fine agosto del 1950. L’auto di Togliatti, che con Nilde Iotti e con la figlia adottiva Marisa trascorreva un periodo di vacanza in Val d’Aosta, s’era scontrata con un autocarro. Parve sulle prime che le conseguenze dell’urto fossero state lievi, per il leader comunista. Ma un paio di mesi dopo egli fu tormentato da lancinanti dolori alla testa. Non fu subito possibile accertare se si trattasse di un ematoma, conseguenza dell’incidente, o d’un tumore: i medici decisero comunque d’intervenire. Era un semplice ematoma, che fu rimosso. Togliatti trascorse la convalescenza in Italia con l’intesa che, rimessosi in forze, sarebbe stato sottoposto ad attenti controlli medici a Mosca. Poco prima di Natale del 1950 Togliatti, con la sua compagna e la figlia, raggiunse infatti Mosca. Mentre in ospedale i medici lo sottoponevano ad analisi scrupolose, Stalin gli fece sapere, in un primo colloquio, d’un suo progetto. C’era pericolo di guerra, e bisognava riorganizzare il movimento comunista internazionale. Il compagno Togliatti avrebbe dovuto trasferirsi a Praga per assumervi la guida di questa complessa azione. Togliatti sospettò immediatamente che qualcuno dei massimi dirigenti comunisti italiani avesse, a sua insaputa, dato l’assenso, se non proprio il la, al progetto. In una successiva riunione con Stalin, Molotov, Beria, Malenkov, l’invito fu ripetuto: con l’accenno al fatto che «un uomo come Togliatti qui da noi non avrebbe potuto andarsene in automobile come voleva» quasi a insinuare che l’incidente in Val d’Aosta non fosse stato casuale. «Togliatti» citiamo dal libro di Miriam Mafai su Secchia «risponde con calma a Stalin e a Beria affermando che a suo avviso è necessario il suo rientro in Italia, che il Partito ha ancora bisogno di lui. Comunque la questione dovrà essere sottoposta a Roma alla direzione del Partito. È una buona via d’uscita. Stalin l’accetta convinto che la Direzione avrebbe detto di sì. Togliatti l’accetta convinto che la Direzione avrebbe deciso per il no. La Direzione decise per il sì.»

Massimo Caprara, allora responsabile dell’ufficio di segreteria del Partito, fu incaricato di portare a Togliatti, che era ancora a Mosca, il verbale autentico della deliberazione in cui si affermava: «Il compagno Togliatti ci ha insegnato che il compagno Stalin è il dirigente massimo del movimento comunista internazionale, che egli ha in mano tutte le carte per giudicare della situazione mondiale». In parole povere, se Stalin voleva Togliatti a Praga, Togliatti doveva darsi una mossa. Ma «il Migliore» non era d’accordo. «Dissento dall’analisi, non ne condivido l’ineluttabilità, non ritengo opportuno, ora, il mio distacco dall’Italia.» Quando Caprara, ai cui ricordi attingiamo, gli consegnò il verbale, Togliatti «lesse avidamente la decina di cartelle dattiloscritte che avevo cavato dalla borsa. “Chi altri ha questo testo?” “Nessuno” affermai. “E Secchia e Colombi che sono arrivati qui ieri?” insistette. I due, inviati dalla Direzione, erano stati già ricevuti al Cremlino ed avevano portato il sì italiano alla richiesta sovietica di sganciare Togliatti. Molotov, non Stalin parzialmente perplesso, puntava su Secchia come nuovo se gretario del PCI. “Non ne hanno neppure una copia perché non l’avevo ancora fatta battere in ufficio da Sonia” lo rassicurai. Un attimo di sospensione. Poi i suoi occhi inclinarono all’allegro. Apparve sollevato… Girò nella stanza, prese la sua grande borsa a più scomparti e vi fece precipitare dentro il verbale dattiloscritto. “Figli di puttana, credete che non abbia capito che volete farmi fuori?” sembra che dicesse nell’incontro con i due messaggeri della Direzione. Vi fu ancora un colloquio con Stalin e gli altri uomini di Mosca, cui Togliatti, Secchia e Colombi promisero che il progetto sovietico era solo rinviato di qualche mese. Ma Stalin aveva capito. Quando fu di nuovo in Italia, Togliatti si sentì liberato. Mai più tornò a Mosca, finché Stalin fu vivo».

I rapporti tra Togliatti e alcuni notabili del Partito, ma in particolare tra Togliatti e Secchia – che era per la linea dura, e aveva un suo filo diretto con Mosca – s’incrinarono irreparabilmente. Tra l’altro pare che qualcuno – forse Beria – si fosse informato con Secchia sui contatti che Nilde Iotti manteneva, o si supponeva mantenesse, con il Vaticano. La domanda sovietica era una sollecitazione a indagare. La Iotti, con i suoi trascorsi nelle scuole cattoliche, rimaneva sospetta. E ancor più sospetta era diventata dopo il «tradimento» di Aldo Cucchi e Valdo Magnani, due comunisti emiliani che avevano lasciato il Partito dopo una clamorosa dichiarazione secondo la quale, se l’Armata Rossa avesse invaso l’Italia, gli aderenti al PCI avrebbero dovuto battersi, come chiunque altro, per difendere le frontiere del loro Paese. Proprio Valdo Magnani, lontano parente della Iotti, l’aveva introdotta nel Partito. Il che poteva diventare, nell’ossessiva sospettosità comunista, un indizio di colpa, o di non affidabilità. Togliatti diffidava del Partito e il Partito sotto sotto diffidava di Togliatti: tanto che nel villino di via Arbe, a Monte Sacro, in cui Togliatti abitava con la Iotti, furono installati dei microfoni. Secchia fece poi «una severa reprimenda» a Leonida Roncagli, responsabile del servizio d’ordine, che aveva preso l’iniziativa. Ma questi scaricabarile diventano inevitabili quando – come in questo caso – l’oggetto della sorveglianza s’accorge d’essere sorvegliato. Nelle emozioni di quel periodo Secchia fu colpito da un infarto: e Longo gli suggerì la solita convalescenza a Mosca: un modo come un altro per allentare le tensioni.

L’autunno del 1952 diradò i ranghi della superstite classe politica prefascista. Se n’andarono, nell’arco di tre mesi, Carlo Sforza, Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando. De Gasperi rimpianse sinceramente Sforza, questo gran signore che non gli aveva mai dato ingombro con la sua ambizione, che aveva accettato senza un gesto di stizza il ritiro della sua candidatura alla Presidenza della Repubblica e poi – negli ultimi mesi di vita – il passaggio dal Ministero degli Esteri ad un incarico marginale.

Ha lo stile del diplomatico provetto, e del gentiluomo, la lettera con cui egli rispose a De Gasperi che – nella crisi governativa del luglio 1951 – gli aveva fatto sapere, in sostanza, di voler assumere personalmente la responsabilità degli Esteri. «Caro De Gasperi, il prof. Pozzi mi conferma che la completa guarigione della mia gamba può non essere breve. Ciò rompe ogni esitazione: in questi tempi e con vicini impegni peripatetici il Ministro degli Esteri ha bisogno di tutte le sue energie anche fisiche. Tu che hai tanto il senso del dovere mi approverai di chiederti di disimpegnarmi dalla mia carica attuale.»

Il passaggio di Sforza a impegni di minor conto era stato imposto da ragioni politiche: ma la sua salute stava veramente declinando. Una flebite lo aveva debilitato, con successive complicazioni. Dalla Valsugana, De Gasperi incaricava Andreotti di visitare il malato. «La sua stanza» ha scritto Andreotti «era singolare. Al centro vi era una brandina militare e tutto attorno le casse non aperte che aveva lasciato così dal giorno del ritorno dall’esilio… De Gasperi mi chiese se qualche sacerdote avesse fatto visita al ministro malato e fu sua idea di sollecitare il cardinale Celso Costantini, che aveva in comune con Sforza una lunga esperienza ed un vero affetto per la Cina. Qualche sera dopo trovai Sforza che stava leggendo un libro lasciatogli dal Cardinale con una dedica cordiale. Lo vidi l’ultima volta poche ore prima della morte di cui era consapevole. Manteneva assolutamente inalterata la sua imperturbabilità e mi pregò di salutare De Gasperi come se stesse partendo per uno dei tanti viaggi di lavoro. Fui lieto che nel primo anniversario De Gasperi mi inviasse a Montignoso a deporre un fiore sulla tomba di un politico dal quale avevo imparato tante cose e che avevo progressivamente conosciuto e ammirato.»

La coerenza di Sforza lo aveva reso volta a volta inviso alle destre nostalgiche e alle sinistre neutraliste. Nel settembre 1945 un avvocato qualunquista, Emilio Patrissi, aveva detto che «l’origine di tutti i mali d’Italia è dovuta ai rinnegati che per venti anni hanno congiurato per la perdita della Patria e che sono tornati come tanti sciacalli al seguito degli eserciti alleati per accamparsi sulle rovine comuni e sulla miseria di tutti affondando nelle carni martoriate del Paese gli strali acuminati della vendetta e dell’odio». Sforza si riconobbe in quegli «sciacalli»: e all’invettiva becera replicò con pacatezza, sostenuto dall’«Unità» che gli attribuiva «saggezza e spirito superiore di giustizia». Ma nel 1948 Sforza era diventato per Palmiro Togliatti «il più abietto personaggio che si sia presentato nella storia della politica internazionale d’Italia». Le prese di posizione del Conte poterono in qualche momento essere discutibili: ma furono sempre di cristallina onestà, e ispirate dal desiderio di giovare al Paese. De Gasperi ebbe in lui un amico, e un alleato assai più fedele della maggioranza di quanti andava cercando nella sua DC.

La morte di Benedetto Croce fu una perdita per la cultura, non una perdita per la vita politica dalla quale, negli ultimi anni della sua vita, si era progressivamente allontanato. Senatore di diritto per la prima legislatura, era stato visto poco nell’aula di Palazzo Madama e quasi mai aveva preso la parola. Considerava concluso il suo apporto alle vicende quotidiane della politica con i preziosi interventi e mediazioni al tempo della luogotenenza di Umberto di Savoia, o anche in successivi momenti cruciali. Uomo di cultura a 360 gradi, non aveva mai creduto che filosofi e letterati dovessero rinchiudersi in una torre d’avorio, indifferenti e insensibili a ciò che attorno a loro stava avvenendo. La filosofia, aveva detto, non può sostituire l’azione morale e pratica: «In questa seconda sfera a noi modesti filosofi spetta di imitare un altro filosofo antico, Socrate, che filosofò ma che combatté da oplita a Potidea, o Dante che poetò ma combatté a Campaldino, e, poiché non tutti e non sempre possono compiere questa forma straordinaria di azione, partecipare alla quotidiana e più aspra e più complessa guerra che è la politica».

Era stato solidale con De Gasperi, che gliene fu sempre grato, quando nel 1947 aveva estromesso i socialcomunisti dal governo. «È evidente» aveva detto «che prima che un individuo si risolva ad essere liberale o democristiano è necessario che sia vivo: e l’Italia non potrà coltivare l’una o l’altra fede se muore, cioè se cade nella rovina economica politica e morale che al presente la minaccia. Il dovere di salvare la nostra Patria primeggia sugli altri che a lei si riferiscono e ci rende favorevoli al Ministero democristiano che lo ha posto a suo fine precipuo attuale: e ci unisce al sostegno che diamo al conseguimento di questo fine precipuo e attuale. Le logomachie di destra e di sinistra rischiarano assai poco circa la realtà della libertà e della giustizia.»

Nella sua prosa faticosa Croce voleva in sostanza affermare che il vivere è più importante che il filosofare, e che incombeva una scelta di campo non dilazionabile. Anche per il Patto atlantico era stato a fianco di De Gasperi: «Assistendo al tuo discorso ho sofferto per te ma ti ho anche ammirato: e dobbiamo tutti esserti grati per le nobili e giuste cose che hai detto per tutti». In un’altra lettera al Presidente del Consiglio, consolandolo per le amarezze «che è necessario sopportare a un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po’ di bene e per evitare un po’ di male», aveva concluso: «Che Dio ti aiuti nella buona volontà di servire l’Italia e di proteggere le sorti pericolanti della civiltà, laica o non laica che sia».

Con Vittorio Emanuele Orlando se ne andava il Presidente della Vittoria: forse inferiore, nella sua statura di statista, a questo altisonante appellativo, forse troppo vanitoso, smanioso di popolarità e volubile per essere annoverato tra i grandi della politica. Aveva insultato De Gasperi, durante la discussione sul Trattato di pace, accusandolo di «cupidigia di servilismo», era parso in più d’un momento disponibile per combinazioni equivoche (anche se, l’abbiamo visto, rifiutò di capeggiare la lista cittadina di Roma, lasciando il dubbio onore a Nitti). Era profondamente avvocato e profondamente siciliano. Della sua perenne sicilianità Giulio Andreotti ci ha lasciato due divertenti esempi, nel primo Visti da vicino. Einaudi aveva nominato senatore a vita Luigi Sturzo, e il gesto, per altri versi ineccepibile, era apparso a molti, anche a De Gasperi, suscettibile di complicazioni: in quanto sembrava ledere il Concordato tra l’Italia e la Santa Sede che inibiva ai sacerdoti l’attività politica. Per iniziativa di Giuseppe Paratore fu scelto Orlando come arbitro della questione: gli venne perciò trasmessa la pratica gonfia di documenti. Quando Paratore e Andreotti entrarono nello studio di Orlando, questi tagliò corto: «Peppino (Paratore) lascia queste carte: ti sei dimenticato che Sturzo è siciliano come noi?». Un’altra volta Orlando, che tutti immaginavano in ben altre faccende affaccendato, mandò ad Andreotti un appunto per sollecitare un finanziamento pubblico grazie al quale il campo di calcio di Palermo fosse reso regolamentare, sennò «sarebbe in un certo senso il disastro del calcio palermitano».

Un altro notabile prefascista, Enrico De Nicola, godeva per sua fortuna – anche se parlava continuamente di malanni – d’una buona salute. Tuttavia nell’estate del 1952 si dimise dalla Presidenza del Senato, e questa volta sul serio e irrevocabilmente. Era stato infastidito «da alcuni incidenti di etichetta che egli attribuiva ad una, per mio conto a torto, scarsa considerazione in cui era tenuto dal Ministero dell’Interno» (Andreotti). De Nicola era stato turbato da accuse mossegli di non aver rispettato le procedure durante la discussione della legge sul neofascismo. Forse l’aveva avvilito il travolgente successo di Lauro nella sua Napoli, forse preferiva essere fuori dalla mischia quando fosse posta in discussione la nuova legge elettorale, di cui già si parlava. Certo è che, nonostante due votazioni del Senato, un discorso di Gronchi alla Camera e un affettuoso telegramma di De Gasperi, rimase fermo nel rifiuto, cedendo la poltrona a Paratore. Riemerse nella vita pubblica nel 1956 come presidente della neonata Corte costituzionale: anche lì suscitando vespai. Ha ricordato l’onnipresente e onniveggente Andreotti, dotato di memoria di ferro: «Quando fu eletto alla Corte telefonò al prefetto di Napoli per dirgli che non desiderava affatto che prefetto e questore si recassero ogni volta a salutarlo alla stazione: gradiva un po’ di libertà dal protocollo e dagli atti dovuti. Il povero prefetto, che era nuovo all’ambiente, prese alla lettera la telefonata, e avvertì anche il titolare della questura di non andare. Errore gravissimo. De Nicola si offese mortalmente e appena giunto a casa chiamò al telefono l’esterrefatto questore riducendolo uno straccio e chiamandolo perfino “miserabile sbirro”».