CAPITOLO DECIMO
LA LEGGE-TRUFFA
Negli ultimi mesi del 1952 De Gasperi, provato e allarmato dall’andamento delle amministrative, aveva la sensazione che la DC fosse minacciata d’assedio, e d’isolamento. Le destre erano cresciute impetuosamente, le sinistre tenevano e un po’ risalivano la china, gli alleati della Democrazia cristiana denunciavano in più d’una occasione turbamenti e velleità di sganciamento. Il momento magico dello scudo crociato era passato, e passato per sempre. La maggioranza assoluta era stata lo straordinario frutto di circostanze eccezionali. Per De Gasperi – e per chiunque sapesse annusare il vento che tirava – era certo che nelle politiche del 1953 i democristiani non avrebbero più sfiorato il 50 per cento dei voti, e non avrebbero più potuto dominare, da soli, il parlamento.
Nacque così l’idea d’una nuova legge elettorale che concedesse un premio di maggioranza a quel partito, o a quella coalizione di partiti, cui andasse anche un solo voto in più del 50 per cento. Il primo suggerimento al riguardo sembra che sia venuto non dall’Ufficio studi della DC, ma da quello dei socialdemocratici. Lami Starnuti, segretario del PSDI, aveva scoperto in Francia gli apparentamenti, introdotti in Italia, lo si è visto, per le amministrative del ’51 e ’52. Ora si trattava di trasferirne l’esperienza alle politiche. I ruoli dei leader democristiani nell’iniziativa non sono molto chiari. Essa fu attribuita a Scelba, che peraltro dimostrò perplessità. De Gasperi, che successivamente difese a oltranza e fece propria con vigore la legge, non ne fu subito convinto. Sta di fatto che, a un certo punto, il progetto del premio di maggioranza cominciò a camminare, sostenuto dalla DC, accettato alquanto di malavoglia da liberali socialdemocratici e repubblicani, fieramente avversato dalle sinistre che però non s’erano accorte subito degli effetti che la legge poteva sortire: la coalizione che fosse riuscita a superare il traguardo della metà più uno dei voti si sarebbe aggiudicata i due terzi dei seggi in parlamento, il resto sarebbe andato alle opposizioni.
L’approvazione della legge sembrava scontata: la DC disponeva della maggioranza assoluta alla Camera, e inoltre poteva contare sull’apporto degli alleati. Ma pur in condizioni di apparente debolezza, l’opposizione dimostrò combattività, inventiva, capacità propagandistica. La sua strenua lotta contro la legge che concedeva il premio di maggioranza si avvalse di tre armi: l’ostruzionismo parlamentare, strumento tecnico e alla lunga sterile; la coniazione d’uno slogan di tremenda efficacia, quello di «legge-truffa», diventato in breve tempo un luogo comune; l’asserita analogia tra la legge di De Gasperi e la legge Acerbo del tempo fascista, che stravolgeva anch’essa il rapporto di forze espresso dalle urne, ma in ben altra misura: dando cioè i due terzi dei seggi al partito che avesse ottenuto da solo almeno il 25 per cento dei voti.
Il filibustering – ossia l’ostruzionismo parlamentare realizzato sfruttando all’estremo i regolamenti, e inondando gli emicicli di discorsi divagatori il cui unico scopo era quello di guadagnar tempo e d’impedire che la legge sul premio di maggioranza fosse in vigore prima dell’imminente appello alle urne – era un espediente antico. L’opposizione se n’era largamente servita, alla fine dell’Ottocento, per bloccare i decreti autoritari di Pelloux. Ma a questo fine concreto se ne abbinava ora un altro, propagandistico e psicologico di più vasta e, tutto sommato, più incisiva portata. L’accanito dibattito sulla legge-truffa teneva acceso il problema, e impediva che la tensione si allentasse. Questa tecnica funzionò. Ne derivavano sbandamenti individuali e di schieramento, dettati da sincero idealismo o da furba strumentalizzazione della demagogia.
Il disegno di legge che dava 380 seggi, nella futura Camera, agli apparentati vincenti – ossia arrivati oltre la soglia del 50 per cento – fu approvato dal Consiglio dei Ministri il 18 ottobre 1952. Sei giorni prima Andreotti s’era incontrato con Nenni e gli aveva accennato all’imminenza della decisione. Il leader socialista non ne era parso impressionato: disse che poco gl’importava perché, visto come andavano le cose, le elezioni sarebbero state «una vendemmia» per le sinistre. Poiché Nenni non era uno specialista in profezie azzeccate, Andreotti e anche Gonella sorrisero di questa battuta. Non così De Gasperi che era inquieto, stanco, irritabile, a tratti scoraggiato. A metà novembre aveva addirittura covato il proposito di ritirare la legge e di andare alle elezioni con le vecchie norme, a viso aperto. Ma poi ci ripensò. Alternava momenti di indecisione a soprassalti di fermezza. Proprio in quel periodo riaffermò nel Congresso della DC l’esigenza d’una legge sindacale che limitasse lo strapotere delle grandi organizzazioni. Lo disse con chiarezza a Giulio Pastore: «Allo Stato deve essere riconosciuto il diritto, di fronte alla possibilità di abusi, di poter tutelare l’interesse collettivo e la libertà di tutti».
La situazione era singolarmente adatta a questo richiamo: perché la polemica sulla legge-truffa, divampante nell’opinione pubblica e nella stampa, si trasferì per volontà della CGIL nelle strade, nelle piazze, nelle fabbriche. Vennero indetti due scioperi generali oltre ad una miriade di agitazioni locali e settoriali. Scioperi si svolsero in varie fabbriche – l’osservazione è di Gino Pallotta – contro l’«emendamento Rossi»: una proposta del socialdemocratico Paolo Rossi che autorizzava il governo ad approvare la legge-truffa con un decreto. Non potevano esservi dubbi sul carattere squisitamente politico di questi scioperi, e sul sostegno che essi davano agli avversari della nuova legge elettorale. Ma il sindacato di sinistra, forte del vuoto costituzionale e legislativo in proposito, ribadì il suo pieno diritto a questo ostruzionismo di massa che si sommava, altrettanto aggressivo, all’ostruzionismo parlamentare.
Dava particolare disagio a De Gasperi il fatto che fosse addebitato, proprio a lui, di voler introdurre norme antidemocratiche (era un’accusa sciocca: il sistema uninominale, che nessuno si sogna di definire antidemocratico, comporta sperequazioni ben più marchiane), e che tra gli avversari della legge vi fossero uomini di grande integrità e levatura morale, a volte appartenenti all’area della maggioranza. Se Gaetano Salvemini era a favore della legge, Ferruccio Parri e, più significativamente, il liberale Corbino l’avversavano. Era pronto a battersi contro la legge anche Francesco Saverio Nitti, ma in piena bufera una malattia improvvisa lo condusse alla tomba – se ne andava un altro dei «grandi vecchi» prefascisti – il 20 febbraio 1953. Vi furono proposte di compromesso, tentativi di evitare la guerriglia parlamentare, ma si ebbe l’impressione che, una volta messa sul tappeto, quest’idea così contestata procedesse e s’infuocasse di vita propria, all’infuori della volontà dello stesso De Gasperi e di Scelba.
Le sedute alla Camera, ai primi di dicembre del 1952, furono contrassegnate da scambi di invettive, tumulti, pugilati, lazzi e attacchi alla correttezza costituzionale sia del governo, sia di chi presiedeva l’assemblea, sia dello stesso presidente Einaudi. Annotava Nenni, in data 9 dicembre, sul suo tanto utile diario: «Un primo grosso incidente, finito con una zuffa, si ebbe giovedì 4 dicembre, quando d’improvviso si vide il governo prendere posto al completo al suo banco e si alzò Scalfaro a proporre che la Camera sedesse in permanenza, domenica compresa… La proposta di Scalfaro venne naturalmente votata e tutto finì con un pugilato come non si era mai visto. Volarono perfino le palline del banco delle commissioni. Ci furono parecchi contusi e un ferito grave, un usciere. Il secondo incidente c’è stato domenica, protagonista Oreste Lizzadri. Si discuteva di interpretazione del regolamento. Leone, che presiedeva, decise di rimettere la decisione alla Camera. “Allora” gridò Lizzadri “non è più il presidente che interpreta il regolamento, ma Gonella [Leone era vicepresidente della Camera e Gonella segretario della DC, N.d.A.].” Piccato sul vivo, Leone chiese e non ottenne la ritrattazione e inflisse a Oreste l’esclusione dall’aula. Rifiuto di Oreste di uscire… Infine la soluzione si trovò. La seduta venne ripresa senza la presenza di Oreste [che tuttavia precisò di non sentirsi espulso, N.d.A.]».
Togliatti martellava sulle analogie tra la legge-truffa e la legge Acerbo: «Dicono che questa truffa, però, non sarebbe la stessa cosa della legge Acerbo la quale dava la maggioranza schiacciante a un partito che non era arrivato nemmeno ad avere la maggioranza relativa. Ma questo è invece proprio l’obiettivo che si propone la legge clericale. Quando i clericali propongono che il gruppo politico che abbia ottenuto il 50,01 per cento dei voti ottenga il 65 per cento dei mandati nel parlamento, essi hanno davanti a sé il fatto concreto delle consultazioni elettorali del 1951 e del 1952, e hanno fatto precedere questa norma dall’altra che riguarda l’apparentamento e che essa stessa è già una truffa. Il risultato della combinazione tra le due norme, quella dell’apparentamento e quella del premio di maggioranza, quale dovrebbe essere in concreto? Dovrebbe essere precisamente la conquista della maggioranza assoluta da parte di quel partito clericale che nel Paese una tale maggioranza non ha più. Questo è esattamente ciò che si proponeva la legge Acerbo».
La discussione si protrasse, tumultuosa e interminabile, fino alle vacanze natalizie. De Gasperi chiuse il 1952 e inaugurò il 1953 con impegni internazionali e interni per lui lusinghieri: il premio Carlo Magno ad Aquisgrana, una visita ufficiale ad Atene. Ma il suo assillo era il dibattito sulla legge elettorale. Per concluderlo, il governo si risolse (14 gennaio 1953) a porre la questione di fiducia. Dal giorno in cui la proposta del governo fu presentata, fino al giorno (21 gennaio) in cui fu approvata, De Gasperi non lasciò praticamente Montecitorio. Nelle ultime settanta ore vi trascorse anche le notti, dormendo un poco su una poltrona-letto sistemata nel suo studio, a pochi passi dall’aula. Il ricorso alla fiducia troncò la grandine di emendamenti (pittorescamente definiti «a cascata» o «a raggiera» secondo gli effetti collaterali che raggiungevano). Nella seduta finale si contarono 186 dichiarazioni di voto, «ultima la mia con la quale ho annunciato che non avremmo preso parte alla votazione. Siamo quindi usciti al canto degli inni di Mameli e dei lavoratori» (Nenni). Il governo aveva vinto la prima battaglia. Ne restava una seconda, non meno importante, in Senato. E poi la terza, quella delle urne, che avrebbe deciso la guerra.
L’asprezza e il clamore della lotta sulla legge-truffa avevano posto in ombra altri avvenimenti che pure sembravano suscettibili di esercitare un qualche peso (non era forse accaduto nel 1948, con il colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia?) sulla prova elettorale. Il generale Eisenhower, trionfatore alle elezioni presidenziali di novembre negli Stati Uniti, aveva preso le redini del potere a Washington. L’opinione pubblica italiana (anche a livello di governo, e di Palazzo) aveva piuttosto tifato per il suo avversario democratico, Acheson. Non aveva saputo valutare il capitale di simpatia e di prestigio che Ike, uomo di aurea mediocrità, s’era conquistato come militare e come politico: e che aveva rafforzato con un’iniziativa di grande respiro, il viaggio in Corea, per trovare un compromesso che mettesse fine alle ostilità e allo spargimento di sangue americano.
L’ingresso di Eisenhower alla Casa Bianca non ebbe riflessi importanti sugli umori degl’Italiani. Non ne ebbero nemmeno altri avvenimenti che si svolgevano al di là di quella che ancora veniva definita la «cortina di ferro», nella Cecoslovacchia del cupo Gottwald che, gravemente malato e prossimo alla fine, si prendeva le sue ultime vendette, e procedeva alle ultime epurazioni. La febbre autodistruttrice della rivoluzione telecomandata da Mosca aveva dapprima coinvolto la minutaglia del Partito, poi si estese ai notabili. Il grande accusatore nella fase d’avvio della purga fu Rudolf Slansky, dirigente di stretta ortodossia moscovita, che si accanì contro i «deviazionisti di destra», i «titoisti», i «nazionalisti». Cadde nella rete il ministro degli Esteri Clementis. Poi, per un colpo di scena paradossalmente crudele (o giusto?) toccò allo stesso Slansky, caduto in disgrazia, d’affrontare l’inquisizione. Alla fine del 1951 anch’egli fu arrestato, per delitto d’antisovietismo. Non si mancò di rammentare che aveva sangue ebreo, fu riesumato il suo vero nome, Salzmann, si costatò che tra i «congiurati» v’era una maggioranza di ebrei. Per una sorta di abietto divertimento, i «giudici» di Gottwald vollero che Clementis e Slansky fossero processati insieme, e insieme salissero (il 3 dicembre 1952, mentre in Italia ci si accapigliava per la legge-truffa) sulla forca, con altri nove condannati.
Nenni, che aveva conosciuto e frequentato tre degli impiccati (Slansky, Geminder e Clementis) ricavandone la sensazione che fossero comunisti duri e irreprensibili, sentì crescere i dubbi sui metodi di questa «giustizia»: «Noi non riusciamo a capire che chi ieri fu sugli altari sia trascinato non nella polvere ma nel fango. Né riusciamo a capire la specie di delirio e di sadismo con cui gli accusati si autoflagellano riconoscendo tutto, ammettendo tutto: che furono sempre dei miserabili e peggio, anzi aggiungendo alla pubblica accusa dettagli e fatti magari da questa ignorati. Molti gridano alla commedia. Alcuni accennano ai misteri dell’anima slava. Io mi accontento di non capire».
Chi invece si vantava di capire, e approvava con entusiasmo, era Palmiro Togliatti, che su «Rinascita» inveiva contro chi metteva in dubbio la giustizia cecoslovacca. «Slansky e i suoi… non hanno peccato in astratto: il loro non fu un delitto di opinione… E difatti, ci vuol altro che un’opinione per distruggere uno Stato che si avvia al socialismo! Slansky ed i suoi sono stati sorpresi mentre operavano sul terreno della congiura politico-militare, per tentare il colpo di Stato controrivoluzionario. Così come avevano tentato Trockij e i suoi… Ormai la borghesia si è allenata a credere vero solo ciò che essa vuole sia vero. Ebbene, anche se essa non vuole, il processo di Praga è vero non nel senso che dicono i fumetti, ma nel senso che dice la storia.» L’apostolo della Costituzione italiana e dello Stato di diritto, il sostenitore a spada tratta della proporzionale che assicura il pluralismo, diventava meno esigente, in fatto di garantismi e di pluralismi, quando si occupava dei Paesi dell’Est.
Anche in Unione Sovietica la macchina delle purghe staliniane stava macinando le sue ultime vittime. Sulla scia d’una ondata di antisemitismo di cui s’erano visti i segni in Cecoslovacchia contro Slansky, fu inscenato l’«affare» dei medici. Il 3 gennaio 1953 venne annunziato in forma ufficiale (citiamo da Isaac Deutscher) che «nove professori in medicina, che esercitavano la professione al Cremlino come medici personali dei più importanti uomini di governo, erano stati smascherati come agenti dei servizi segreti inglese e americano, per ordine dei quali avevano assassinato due capi del partito, Zdanov e Scerbakov, e tentato di assassinare i marescialli Vasilevskij, Govorov, Koniev, Shtemenko e altri per indebolire le difese del Paese». Molti di quegli assassini in camice bianco erano ebrei, e accusati di avere agito per istigazione del Joint, un’organizzazione internazionale ebraica che aveva il quartiere generale negli Stati Uniti. Kruscev raccontò poi che Stalin aveva diretto personalmente gli interrogatori dei medici e ordinato che fossero incatenati e picchiati. «Se non riuscite a farli confessare» disse a Ignatiev, ministro per la Sicurezza dello Stato «ti accorceremo di tutta la testa.» (Quando seppe dell’incriminazione dei medici Nenni rammentò che due di loro l’avevano visitato a Mosca, e che, quando li aveva avvicinati, sembravano circondati da molto rispetto. Ma con Stalin nessuno era mai sicuro.)
Il bagno di sangue stava tuttavia per finire, almeno in quelle proporzioni e con quella arbitrarietà, perché Stalin morì il 5 marzo 1953, all’età di 73 anni. La sinistra – con trasporto mistico i comunisti, con qualche moderata riserva i socialisti – pianse in lui il saggio padre del suo popolo, l’apostolo della pace, l’intrepido condottiero della guerra contro il nazismo, il promotore d’una nuova società più giusta. In un discorso alla Camera Togliatti lo definì «un gigante del pensiero, un gigante dell’azione». E concluse: «Trionfò di tutti i nemici, quelli di fuori e quelli di dentro. Il suo Paese, il primo Paese socialista, fu da lui portato al rinnovamento economico, al benessere, alla compatta unità interna, alla potenza. Oggi è il primo del mondo… Ogni volta che viene pronunciata una parola di pace, ogni volta che si compie un atto che può assicurare la pace, ivi troviamo Stalin, la sua mente saggia, il suo animo sollecito… Scompare l’uomo. Si spegne la mente del pensatore intrepido. Ha un termine la vita eroica del combattente vittorioso. La sua causa trionfa. La sua causa trionferà in tutto il mondo».
Togliatti e Nenni raggiunsero Mosca per partecipare ai funerali, la cui regia era stata affidata a Kruscev. Montarono entrambi la guardia d’onore al feretro. Nenni, altalenante tra nostalgie di Fronte popolare e velleità di autonomia, scrisse: «Dire che queste sono state le esequie di un dittatore o peggio di un tiranno è uno sproposito di proporzioni monumentali. Basta guardarsi attorno per capire che è morto l’arbitro dei popoli e degli Stati sovietici lasciando dietro di sé un grande vuoto psicologico e politico e una salda struttura di Stato, di partito, sindacale ed economica».
Il disegno di legge sulla riforma elettorale era approdato, in marzo, al Senato: dove rischiavano di riproporsi tutte le difficoltà della Camera aggravate dalle esitazioni del presidente Giuseppe Paratore: che non era un cacadubbi alla De Nicola ma, liberale di vecchio stampo, temeva molto di offuscare, con una condotta parziale, la sua immagine di arbitro super partes. Essendosi rese conto dei tormenti di Paratore, le sinistre si erano rivolte direttamente a lui: e gli avevano detto, per bocca di Scoccimarro, che l’ostruzionismo avrebbe avuto fine se alla votazione parlamentare fosse stato abbinato un referendum con cui si chiedesse all’elettorato se era pro o contro il nuovo meccanismo di assegnazione dei seggi. Il governo rifiutò, con buoni motivi. Primo, gli elettori stavano per essere convocati alle urne, dove avrebbero avuto modo di pronunciarsi per i partiti favorevoli o contrari alla cosiddetta legge-truffa. Eppoi un referendum di quel tipo – non abrogativo – era estraneo alla Costituzione. Ma Paratore non era tranquillo, avvertì De Gasperi che la ripetizione in Senato della scorciatoia utilizzata alla Camera (il voto di fiducia) non gli piaceva. Tra Paratore e De Gasperi si convenne una sceneggiata: durante il discorso con cui De Gasperi avesse chiesto la fiducia, Paratore sarebbe intervenuto, interrompendolo, per ricordargli che quella «trovata», andata liscia alla Camera, non si poteva ripetere in Senato. Parri a sua volta affacciò l’idea che il premio di maggioranza fosse ridotto: e sarebbe stata un’idea abbastanza buona se il poco tempo disponibile prima delle elezioni non l’avesse resa irrealizzabile. La modifica comportava infatti un ritorno della legge alla Camera. Paratore, che era anziano e si pretendeva malato (quanto la malattia fosse vera e quanto diplomatica è difficile dire, il febbricitante denunciava una temperatura di 37,2), chiese a De Gasperi se, in caso di ostruzionismo accanito, sarebbe stato «assolutamente contrario a proporre lo scioglimento delle Camere facendo elezioni con le vecchie leggi». La risposta di De Gasperi non fu negativa e analogo era l’avviso di Gronchi, ma Paratore, a quanto si seppe poi, non ottenne il dovuto assenso del Quirinale, e allora si dimise. Einaudi era stato meno accomodante di De Gasperi.
Si trattava ora di trovare un successore a Paratore. Tupini, che aveva tentato, come vice del Presidente, di mantenere entro gli argini di una tollerabile correttezza un Senato turbolento e in troppi suoi componenti manesco, era stato subissato d’insulti. Non era giudicato proponibile. De Gasperi pensò al suo compagno di partito Adone Zoli, poi al liberale Alessandro Casati: per una ragione o per l’altra li scartò entrambi. Luigi Gasparotto, antifascista intemerato, inserito nei governi del CLN, rifiutò. Finalmente toccò a Meuccio Ruini, che era stato leader della Democrazia del lavoro: un partito del CLN che le vicende politiche e i risultati elettorali avevano cancellato. Era un’ottima persona, onesta e cortese: aveva anche combattuto da valoroso sul Carso e, di fronte agli assalti socialcomunisti, gli ci volle un po’ del suo antico coraggio. Per la verità il professorale Togliatti, nonostante una certa tendenza alle violenze verbali di cattivo gusto, rifuggiva dalle piazzate. Proprio per questo Pietro Secchia lo accusava d’arrendevolezza. Fu Secchia, con quelli che la pensavano come lui, l’istigatore delle risse di Palazzo Madama. «La legge-truffa» ricordò Secchia «ci metteva alle corde, dovevamo batterci. Andai da Togliatti e gli dissi: “Bisogna fare qualcosa, far ritirare le sinistre dal Senato.” “Già” disse lui “e poi che facciamo, la Rivoluzione?” “No” gridai io “non facciamo la Rivoluzione. Ma se ascoltiamo te non facciamo mai niente.”»
Sulla tragicommedia del dibattito il sipario calò, repentinamente, la domenica delle Palme del 1953, 29 marzo. Il Senato era stato bloccato per settantacinque ore dalla discussione sull’urgenza (o sulla non urgenza) di una legge Bitossi concernente la disciplina del lavoro delle mondine. «Il regolamento del Senato» ricordò poi Nenni «non contempla limiti di tempo per le dichiarazioni di voto, e taluni dei nostri compagni, per esempio il taciturno Morandi, avevano parlato per più di quattro ore.» Sulle mondine. Quando finalmente l’argomento fu esaurito, le sinistre si fecero avanti con altri espedienti procedurali. «Ha cominciato Terracini [citiamo sempre da Nenni, N.d.A.] col chiedere la parola per fatto personale. Rifiuto di Ruini. Poi per un richiamo al regolamento. Altro rifiuto. Allora è scoppiato un tumulto, e nel tumulto Ruini ha fatto votare per alzata e seduta una pregiudiziale Bosco che dava la precedenza al voto di fiducia al governo. Ha dato la parola al relatore di minoranza Rizzo, che non ha sentito, al ministro Scelba, che ha rinunciato, e mentre ci si colluttava nell’aula e il Presidente stesso era assalito al suo banco, ha indetto la votazione per appello nominale e proclamato il risultato mentre volavano pugni, schiaffi e perfino tavolette… Ruini era come nascosto dietro un duplice cordone di uscieri e, pallido e tremante, parlava nel microfono facendo registrare le sue parole che nessuno nell’aula poteva udire. Quando affranto è uscito dall’aula, Ruini ha detto: “Ho salvato la democrazia, ma sono personalmente un uomo finito”».
Di quella scena sicuramente non encomiabile, ma memorabile, abbiamo un’altra vivace descrizione, dalla barricata opposta. Ha scritto Andreotti: «Frammenti tutt’altro che invisibili dei banchi della sinistra furono divelti e lanciati contro i seggi della Democrazia cristiana, mentre i commessi riuscirono a stento ad impedire a Velio Spano, portatosi sulla tribunetta che sovrasta il podio del Presidente, di scagliare contro Ruini una robusta poltroncina. Debbo confessare che, fatto uscire da quel trambusto De Gasperi e rimasto solo al banco del governo, ebbi la tentazione, poco estetica, di proteggermi la testa con il cestino della carta, non convinto che valesse la pena di sacrificare un occhio sull’altare del Senato. Ma tutto precipitò, se così si può dire, nel verso migliore. Con un colpo magistrale, Ruini dichiarò chiusa la discussione e, nessuno avendo potuto chiedere, dato il chiasso, la parola per dichiarazione di voto, fece iniziare e finire l’appello e, scortato da fedelissimi commessi dichiarò chiusa la seduta. Prima di lasciare Palazzo Madama, Velio Spano mi lanciò un ammonimento: non dovevo dimenticare piazzale Loreto».
Con le loro forsennate intemperanze, le opposizioni avevano offerto a Ruini il modo di sigillare in modo piuttosto avventuroso quel dibattito. Nessuno poteva negare che l’andamento di quell’ultima seduta fosse stato anomalo, al limite della regolarità. De Gasperi attribuì la svolta ad una volontà superiore: «La Provvidenza di Dio ha disegni non conosciuti e nessun procedurista avrebbe potuto prevedere per oggi la fine del dibattito. Anche i comunisti talvolta si lasciano prendere di sorpresa. Ruini si è conquistato un grande merito: non so se siano effettive certe sue vecchie stigmate massoniche, ma nel caso si confermerebbe che la mano di Dio è grande e si serve degli strumenti più impensati». Forse anche il credente De Gasperi esagerava, supponendo che il buon Dio fosse così attento agli itinerari della legge-truffa.
Restava alle opposizioni, per inficiare la chiusura del dibattito, un ultimo spiraglio: la non approvazione del verbale della seduta. Ma Einaudi, che s’era affrettato a firmare la legge – nonostante una protesta di Terracini ed altri – osservando che «per il Quirinale è sacro il messaggio che viene dai Presidenti delle Camere», tagliò corto. Insieme alla Camera dei deputati fu sciolto, con un anno di anticipo, il Senato. I moventi sotterranei di Einaudi, nel delineare lo scioglimento contemporaneo dei due rami del parlamento, coincidevano con quelli di De Gasperi: dopo tanto travaglio, la legge elettorale doveva dare al Senato e alla Camera una fisionomia omogenea, e parallela. La spiegazione ufficiale, contenuta in un comunicato del segretario generale del Quirinale, Ferdinando Carbone, insistette tuttavia, per comprensibili motivi, sugli aspetti tecnici del problema: «La riforma avvenuta sul metodo di elezioni alla Camera dei deputati non poteva non essere tenuta presente nel prendere una decisione sulla consultazione elettorale. Infatti, i sistemi di elezione delle due Camere essendo oggi diversamente congegnati, nei loro reciproci rapporti, rispetto a quelli che erano nel 1948, è opportuno che gli elettori manifestino, contemporaneamente, coi metodi così differenziati, la loro volontà sull’indirizzo futuro dell’attività del parlamento». La lotta si trasferiva così pienamente dal parlamento al Paese.