CAPITOLO DODICESIMO
PELLA CONTRO TITO
Nella cartella di pelle nera che Luigi Einaudi aveva sempre sul suo scrittoio, e che conteneva alcuni appunti riservati, v’era anche un elenco dei possibili candidati alla Presidenza del Consiglio. Il secondo nome – essendo stato depennato De Gasperi – era quello di Attilio Piccioni: un veterano che aveva militato nel Partito popolare, e partecipato all’Aventino.
Durante il fascismo aveva esercitato con successo la professione di avvocato a Pistoia e a Firenze: era riemerso alla politica nel periodo della Resistenza e della Liberazione prima come membro, per la Democrazia cristiana, del CLN toscano, poi come segretario del Partito a Firenze. D’ingegno sottile, cauto, taciturno, onesto, pigro ma anche capace di risolvere situazioni difficili, Piccioni era considerato un fedele di De Gasperi, un moderato, un notabile al disopra delle parti e di ogni sospetto. De Gasperi gli aveva lasciato, dal 1946 al 1949, la segreteria nazionale della DC, e poi l’aveva sempre voluto nei suoi governi, alla vicepresidenza, perché curasse in particolare i rapporti con il parlamento: il che si addiceva perfettamente alla sua vocazione mediatrice.
Per una decina di giorni Piccioni tesse faticosamente e senza entusiasmo la trama del suo Ministero. Aveva ottenuto consensi, anzi ne aveva ottenuti, in un certo senso, troppi: erano ben disposti – o pareva lo fossero – sia i socialdemocratici sia i monarchici, ma il favore degli uni vanificava quello degli altri. Con Piccioni, De Gasperi era stato caloroso: «Sa di poter contare su tutta la mia affettuosa solidarietà. Confido che tutti gli amici politici e gli uomini di buona volontà agevolino il suo compito». Sorsero difficoltà perché Piccioni avrebbe voluto, tra i suoi Ministri, Togni e Bettiol, invisi a Saragat e anche a una parte della DC; e perché l’idea, non ancora del tutto abbandonata, degli Esteri a De Gasperi suscitava inquietudini nei possibili alleati: i quali temevano, probabilmente, che il governo Piccioni, se includeva De Gasperi, fosse in realtà un nono governo De Gasperi al quale Piccioni facesse da schermo.
Scartata l’ipotesi d’un monocolore DC, Piccioni era tornato a quella d’una coalizione che comprendesse i quattro partiti apparentati; democristiani, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Ad evitare il sospetto che la supervisione delle trattative spettasse a lui, De Gasperi se n’era andato ostentatamente a Sella di Valsugana. L’11 agosto parve proprio che il governo fosse cosa fatta. «Il Popolo» del giorno successivo fu in grado di indicare, oltre ai nomi dei Ministri, anche quelli dei più importanti sottosegretari. Il PSDI non sarebbe entrato nel governo ma – annunciò Ezio Vigorelli – avrebbe votato la fiducia.
Tutto cambiò nel volgere di poche ore. La sera di quello stesso 11 agosto Saragat riunì i suoi collaboratori, e riesaminò la questione: arrivando però a conclusioni che suonavano a morto per il tentativo di Piccioni. Fu deliberato infatti di non concedere a lui ciò che era stato negato a De Gasperi. Un pretesto puerile per un voltafaccia alla cui radice stava il travaglio di Saragat, particolarmente sensibile in quel momento alle sirene d’una nuova alleanza con il PSI, affrancato dal patto d’unità d’azione con i comunisti. Nenni aveva favorito la manovra, anche perché genuinamente ansioso di sottrarsi al soffocante abbraccio di Togliatti. A Formia, Nenni e Saragat s’erano incontrati e, a quanto risultava, s’erano anche capiti. Nenni aveva fatto pervenire a Piccioni, nel corso dei negoziati per la formazione del governo, un memorandum contenente «richieste minime» per la benevola neutralità del PSI: ma alcune tra esse furono interpretate come veti a determinati esponenti democristiani. Il sostegno di Saragat senza partecipazione al governo era stato un espediente per conciliare il diavolo con l’acqua santa (anche se Nenni non meritava proprio l’appellativo di diavolo, né la DC quello di acqua santa). Ma, ripensandoci, Saragat se n’era pentito.
Informato della novità, Piccioni non si consultò con nessuno. La mattina del 12 agosto, indossato l’abito blu delle grandi occasioni, andò a Caprarola per annunciare al Capo dello Stato la sua rinuncia. La dirigenza della DC, e lo stesso De Gasperi, seppero del colpo di scena dalla radio né furono in grado d’avere spiegazioni da Piccioni che per una mezza giornata si rese irreperibile. La sera stessa, al telefono, De Gasperi dettò al fido Andreotti queste norme di comportamento: «1°) Non era affatto matura una sua [di De Gasperi, N.d.A.] ripresa del timone, tanto più che non voleva dare l’impressione di non aver sostenuto a fondo Piccioni; 2°) gli sembrava il momento adatto per Pella; 3°) non era opportuno definire il governo [Pella, N.d.A.] come d’affari, ma si poteva utilmente chiamarlo amministrativo».
Per bocca di Gonella, segretario del Partito, la DC reagì con molta durezza al fallimento di Piccioni, imputandolo alla volubilità dei socialdemocratici. «Come è noto» disse Gonella «era partita dal PRI e dal PLI l’iniziativa di costituire un governo con l’appoggio parlamentare di quattro partiti. È stato prontamente e lealmente accolto l’invito, con l’unanime adesione della direzione della Democrazia cristiana, e dell’incaricato a costituire il governo. Ad esso i responsabili dei partiti democratici hanno, nel pomeriggio di sabato scorso [8 agosto, N.d.A.] dato la loro piena adesione, assicurando la più ampia collaborazione. Piccioni ha dimostrato la massima buona volontà ed ha compiuto con pazienza e fino in fondo tutto il suo dovere. La Democrazia cristiana è stata come non mai unanime e solidale attorno allo sforzo di Piccioni. Non vi è una parola o un gesto che possa giustificare le pietose critiche di intrigo che partono da coloro che miseramente credono, con queste insinuazioni, di eliminare le loro responsabilità, o di mascherare l’incapacità a superare il loro interno travaglio di indirizzo e le loro polemiche post-elettorali. Il generoso tentativo di Piccioni è stato sabotato da coloro che gli hanno posto condizioni incompatibili con la dignità ed il prestigio di chi ha l’incarico di costituire il governo.»
Il candore che Gonella attribuiva alla Democrazia cristiana era naturalmente di repertorio: tutti sapevano quali e quanti colpi di stiletto fossero vibrati all’interno dello scudo crociato. Ma nell’occasione Piccioni aveva pagato, con l’insuccesso, l’irrequietezza del PSDI sconfitto come singolo, il 7 giugno, oltre che come apparentato nella coalizione andata in pezzi.
Einaudi trasse dunque dalla sua cartella il terzo nome dell’elenco, che era quello d’un outsider, l’uomo nuovo Giuseppe Pella. Cinquantenne, «biondo, alto, un po’ pesante e massiccio, sempre cortese e amabile» secondo la descrizione che di lui diede Domenico Bartoli, Pella segnava un netto distacco dalla dirigenza democristiana che l’Italia aveva fino allora conosciuta: si trattasse dei notabili prefascisti e antifascisti alla De Gasperi e alla Piccioni, oppure dei giovani rampanti, alla Fanfani e alla Moro, che magari avevano avuto qualche condiscendenza verso il regime mussoliniano, ma si erano poi fortemente ideologizzati e politicizzati.
Pella non era certo stato un resistente. Vercellese di nascita ma ambientato a Biella (e dalla città adottato), vi aveva fatto una brillante carriera di commercialista. Laureato in economia e commercio, poi professore di contabilità nazionale presso le Università di Roma e di Torino, era considerato uno degli esperti più qualificati nello studio dei problemi economici e monetari. L’attività professionale e quella dell’insegnamento non gli avevano impedito, anche durante il ventennio, di rivestire incarichi pubblici; che erano sempre stati locali, e di carattere amministrativo: ma che gli valsero, durante il dibattito sulla fiducia, qualche interruzione polemica: «Si vuole forse tornare ai tempi di Mussolini?», «Si crea un altro Duce in tempo di Repubblica?». Del dittatore, Pella non aveva nessuna caratteristica. Era freddo, compito, preparato. Il che gli aveva valso la stima di Einaudi, esaminatore difficile. Era entrato in politica subito dopo la Liberazione, schierandosi nell’ala conservatrice della Democrazia cristiana: sottosegretario alle Finanze già nell’ottobre del 1946, era stato poi titolare, volta a volta, dei tre dicasteri economici: Finanze, Bilancio, Tesoro.
La candidatura di Pella – e questo spiegherà tanti atteggiamenti successivi – non era approdata al Quirinale tramite i due gruppi parlamentari democristiani: vi era approdata per iniziativa dei monarchici, i quali avevano fatto sapere che il loro voto era disponibile a sostegno dell’economista piemontese. A questa designazione trasversale – seppure rafforzata dalla personale stima di Einaudi per Pella – fu subito dato un avallo importante. De Gasperi fece a sua volta sapere dal rifugio montano che Pella doveva essere appoggiato. Lo disse in termini concitati a Gonella («non mettete in discussione, per l’amor di Dio, la designazione di Pella, perché se Pella rifiutasse l’incarico, e voi sapete di quale sensibilità egli sia dotato, il Capo dello Stato sarebbe costretto a chiamare Cesare Merzagora, e in questo caso la Democrazia cristiana perderebbe la Presidenza del Consiglio, forse per sempre»); lo ripetè per iscritto, a scanso di equivoci. Qualificò il possibile governo Pella come «amministrativo», gli attribuì il compito di «promuovere per un periodo posteriore la costituzione di una maggioranza politica», aggiunse che «una figura come la mia, politicamente pronunciata, non potrebbe partecipare a tale governo». Aiutò Pella anche il terrore che i neodeputati avevano d’un nuovo ricorso alle urne, che li rimettesse alla stanga per brigare l’elezione, senza alcuna sicurezza (per molti di loro) d’ottenerla.
In quattro e quattr’otto il monocolore di Pella vide la luce. Poiché fu firmato il 15 agosto del 1953, venne battezzato «governo dell’Assunta». Gli fu anche dato un bel motto: «novità nella continuità». Per sé Pella tenne, oltre alla Presidenza, due interim vistosi, gli Esteri e il Bilancio. Fanfani rimase all’Interno, Silvio Gava ebbe il Tesoro, Taviani la Difesa, Antonio Segni la Pubblica istruzione, Tambroni la Marina mercantile. Andreotti restò, indispensabile, sulla sua poltrona di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. I dibattiti parlamentari scivolarono via lisci, grazie alla stagione e grazie a Pella le cui maniere soavi rendevano difficile (lo osservò Giancarlo Pajetta) dirgli di no, anche quando occorreva farlo.
Il discorso programmatico del Presidente fu denso delle solite buone intenzioni, con un particolare accento sull’austerità. Pella non mancò di sottolineare i risultati che l’economia italiana aveva conseguito sotto la gestione di De Gasperi. «L’aumento della produzione italiana» citiamo dal volume di Gino Pallotta sull’Italia repubblicana «aveva avuto un aumento senza equivalenti negli altri Paesi. Mentre all’epoca della Liberazione essa era dimezzata rispetto al ’38, nel ’52 la produzione presentava un aumento del 32 per cento rispetto al periodo preso come punto di riferimento. Per l’industria meccanica e siderurgica il valore della produzione nel ’54 era 59 volte superiore a quello del 1938. Era aumentata l’occupazione, l’Italia destinava agl’investimenti il 21 per cento del suo reddito nazionale e questo era considerato come un’altissima percentuale. Nel 1936-40 il consumo di zucchero in Italia era stato di 8 chili all’anno pro capite, mentre nel ’54 se ne consumavano 14.»
Dal punto di vista dell’aritmetica parlamentare, quello di Pella fu un trionfo. A Montecitorio ebbe una maggioranza di 100 voti (315 favorevoli, 215 contrari, 44 astenuti), che erano i socialisti: un distacco clamoroso del PSI – O di molti del PSI – dalle posizioni frontiste. A Palazzo Madama i favorevoli furono 140, i contrari 86, 10 gli astenuti.
Partito avendo in poppa il vento parlamentare, Pella ebbe ben presto anche quello della pubblica opinione, conquistata dal suo atteggiamento durante un improvviso riacutizzarsi della questione giuliana. La sorte volle che questo biellese abituato a vedersela con i numeri dovesse prestare il suo linguaggio forbito e il suo stile da grand commis ad una ondata di passione irredentista, la prima di quell’impeto da quando Trieste era stata sottoposta all’amministrazione alleata. Gli Anglo-americani erano ansiosi di liberarsi d’un onere che era per loro pesante sia dal punto di vista politico-militare sia da quello amministrativo-finanziario: si dichiaravano pronti ad affidare integralmente all’amministrazione italiana la Zona A del cosiddetto Territorio libero; ma non potevano garantire che, avvenuto questo passaggio, Tito non procedesse a sua volta ad un’annessione anche formale della Zona B, già nei fatti totalmente incamerata nel territorio jugoslavo, e assimilata ad esso sia per quanto riguardava gli ordinamenti amministrativi sia per il clima politico: che era di asservimento ideologico, di culto della personalità e di sradicamento di quanto restava dell’italianità.
De Gasperi, cui questo baratto era stato proposto, l’aveva sempre rifiutato, ritenendolo non del tutto a torto un passo indietro rispetto alla Dichiarazione tripartita su Trieste del 20 marzo 1948. In essa gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia avevano suggerito la stipulazione d’un accordo che prevedesse la restituzione all’Italia del Territorio libero nella sua totalità, Zona A e Zona B. L’intera zona, affermava la Dichiarazione, era etnicamente italiana, la soluzione del Territorio libero s’era dimostrata impraticabile perché nella Zona B la Jugoslavia aveva instaurato un regime dittatoriale e violato i diritti umani. Le tre potenze occidentali ritenevano pertanto che «il miglior modo di venire incontro alle aspirazioni democratiche del popolo e per rendere possibile il ristabilimento della pace e della stabilità nella zona fosse il ritorno del Territorio libero alla sovranità italiana». Ma per essere tradotta in pratica, la Dichiarazione avrebbe dovuto ottenere l’assenso sovietico: che ovviamente non fu mai dato. Essa rimase pertanto come solenne affermazione di principio, cui il governo italiano s’aggrappò tuttavia tenacemente.
Il gesto anglo-franco-americano non era stato disinteressato. Si proponeva d’influire sul risultato delle elezioni del 18 aprile 1948, e sicuramente vi influì, anche se non è possibile stabilire in quale misura. Ma l’onesto De Gasperi si sentiva vincolato da quella promessa assai più di quanto si sentissero vincolati gli alleati occidentali. Durante una riunione della primavera del 1953, in cui s’era discusso della volontà anglo-americana di porre fine al contenzioso di Trieste, l’ambasciatore a Washington Tarchiani aveva incalzato De Gasperi: «Se questa – Zona A all’Italia, Zona B di fatto jugoslava – dovesse essere la sola alternativa dinanzi a noi, l’accetteresti o non l’accetteresti?». De Gasperi, che pure era un uomo paziente, ebbe uno scatto: «Non mi tormentare!».
Il nodo era rimasto insoluto, pur tra tanti avvenimenti e cambiamenti. La caduta di De Gasperi indebolì, almeno psicologicamente, la posizione italiana, tanto più che sopravvenne dopo che tra Mosca e Belgrado erano stati riallacciati normali rapporti diplomatici in forza dei quali il maresciallo Tito non era più un reprobo né per l’Est né per l’Ovest. Su questa tesa e prolungata fase interlocutoria si abbatté il 28 agosto 1953 una nota dell’agenzia ufficiale di stampa iugoslava, la Jugopress, che nel suo passo più significativo affermava: «La Jugoslavia ha perduto la pazienza con l’Italia per quanto concerne la questione di Trieste e sta pensando ad un cambiamento del suo moderato e tollerante atteggiamento probabilmente annettendosi la Zona B in risposta alla fredda annessione della Zona A da parte dell’Italia».
Il riferimento della Jugopress, nell’ultima frase, era ad alcune misure adottate dalle autorità anglo-americane di Trieste nel maggio del 1952, dopo che, in marzo (per l’anniversario della Dichiarazione tripartita), s’erano avuti in piazza dell’Unità gravi incidenti tra i dimostranti e la polizia alleata che fecero un morto e alcuni feriti. Due mesi dopo, come s’è accennato, gli alleati decisero di liberarsi d’una parte delle responsabilità per Trieste. Al consigliere politico britannico e a quello americano si aggiunse, con pari poteri, un consigliere italiano. L’amministrazione fu assunta da un «direttore superiore italiano» che dipendeva dal comandante della zona e aveva come collaboratori diretti due direttori (per l’Interno e per l’Economia) anch’essi italiani, come la totalità del personale subalterno. La gestione alleata si era insomma ridotta a un guscio vuoto: rimasero di sua competenza solo la Giustizia, la Pubblica sicurezza, le Poste, il Porto e le Informazioni pubbliche. Ma il principio d’un territorio libero diviso in due zone e sottoposto agli Anglo-americani – Zona A – e agli Jugoslavi – Zona B – non era stato formalmente intaccato. Per questo la Jugopress parlava di «fredda annessione».
La nota provocò a Roma un’emozione e un’agitazione spropositate. Pareva che Tito dovesse da un momento all’altro annettersi la Zona B e magari tentare di incorporare la Zona A che il quotidiano «Borba» aveva definita «parte integrante del territorio jugoslavo». In concitate riunioni Pella e i suoi collaboratori presero in esame un’azione italiana verso la Zona A, qualora Tito si fosse annessa la Zona B. Se si fosse arrivati a questo, le conseguenze sarebbero state serie, per i rapporti tra l’Italia e gli alleati: i quali erano disposti a cedere la Zona A, ma non a farsela prendere. Secondo l’ambasciatore Mario Toscano, eminenza grigia del Ministero degli Esteri, Pella avrebbe detto di voler «far sparare, se necessario, anche sulle forze anglo-americane qualora ci fosse stato vietato di entrare nella Zona A». Pella smentì questa versione, e sostenne d’aver dato, in un telegramma alle nostre maggiori ambasciate all’estero, queste direttive: «Qualora nostra occupazione Zona A dovesse incontrare resistenza fisica non assumeremmo naturalmente iniziativa provocare versamento di sangue tra alleati, ma ne prenderemmo atto e ne trarremmo conseguenze. Prima fra queste sarebbe necessità per governo, che ha fondato sua politica estera su pilastro Alleanza atlantica, dimettersi e lasciare al parlamento di interpretare sentimenti e volontà Nazione».
Mentre Pella si consultava con i massimi responsabili della diplomazia italiana, e anche con Einaudi e De Gasperi assenti da Roma (Andreotti, che secondo la sua indole minimizzava, se ne era invece andato alle corse al trotto a Montecatini), veniva deciso di spostare contingenti di truppe verso il confine. In un primo tempo – stando sempre alla testimonianza di Toscano – il segretario generale degli Esteri, conte Zoppi, aveva addirittura pensato d’inviare la flotta a Trieste. Gli era stato obiettato che, quand’anche gli alleati avessero consentito, entro pochi mesi sarebbero stati costretti a dare a Tito analoga autorizzazione «e noi avremmo ottenuto soltanto di far mandare a Trieste anche la flotta jugoslava».
Le misure militari italiane trovavano giustificazione, oltre che nel linguaggio aggressivo della «Tanjug» e della «Borba», anche nel raduno oceanico previsto a Okroglica (San Basso), a sei chilometri dal confine, per un discorso che Tito avrebbe pronunciato il 6 settembre (1953). Settantadue treni speciali e altri mezzi di trasporto avrebbero portato sul posto duecentocinquantamila ex partigiani, e migliaia di altri antiitaliani esagitati: tra essi una rappresentanza degli Sloveni abitanti in Italia. L’importanza dei movimenti che alcune divisioni italiane effettuarono in quei giorni è contestata dal massimo esperto della questione giuliana, Diego De Castro: «Fu deciso di muovere le truppe verso la zona di Gorizia, con lievissimi spostamenti rispetto alle loro sedi abituali. Gli spostamenti in questione, aventi soltanto uno scopo dimostrativo, data la loro insignificante entità, venivano invece a toccare una grossa questione di principio: l’Italia era membro della NATO e le truppe erano state mosse senza avvertire gli alleati. Si sarebbe potuta verificare una forte reazione; per contro non solo nessuno si scompose ma quando poco dopo il generale Gruenther, comandante dello SHAPE, venne a Roma, non ne fece la minima parola».
Quel gesto di fierezza e d’intraprendenza di Pella fu puramente simbolico sotto il profilo militare (con diecimila soldati alleati a Trieste, uno scontro diretto italo-jugoslavo era da relegare nel novero delle possibilità remote). Ma il significato politico dell’iniziativa fu profondo. Lo fu per l’opinione pubblica italiana, presto infiammata con recrudescenze di antichi, sopiti ma non spenti rancori antiinglesi, anche a causa del generale britannico Winterton che a Trieste comandava. E lo fu in senso sostanziale. Là dove De Gasperi, per non rinnegare le promesse elettorali del ’48, rifiutava d’incamerare la Zona A, considerando questa mossa il preludio ad una mossa analoga jugoslava, Pella e molti esponenti di rilievo della diplomazia italiana pensavano che l’acquisizione della Zona A fosse un passo necessario. Sottintendendo che il problema di diritto internazionale sarebbe rimasto impregiudicato.
Tra i movimenti di truppe italiane – seguiti da un incrociarsi di note di protesta jugoslave e di note italiane che le respingevano – e il discorso di Tito, vi fu una presa di posizione americana: che, more solito, accrebbe la confusione, anziché dissiparla. Il segretario di Stato John Foster Dulles, che era uomo di grande energia e coerenza, ma di poca cautela, era stato interrogato dai giornalisti sul problema giuliano. Domanda: «Signor segretario, ha ella una politica ufficiale su Trieste dopo la Dichiarazione tripartita del 1948 in base alla quale tutto il territorio di Trieste sarebbe stato dato all’Italia?». Risposta: «Gli Stati Uniti, da allora, hanno esplorato altre alternative e sono stati sempre ben disposti verso altre alternative. In altre parole noi non dobbiamo considerare quella dichiarazione come le leggi dei Medi e dei Persiani, che erano valide per sempre. Per ora non siamo arrivati ad altre proposte ufficiali». Il richiamo storico era raffinato, ma la dichiarazione era una gaffe. Pella la definì «particolarmente sfortunata non solo per il modo in cui è stata formulata ma anche e soprattutto per il momento in cui è stata pronunciata». Infatti gli jugoslavi dissero che «la breve e secca dichiarazione di Dulles è il decreto di sepoltura ufficiale, da parte americana, della Dichiarazione tripartita». Ci si mise poi una pezza tardiva e poco convincente: l’ambasciata italiana a Washington strappò a Foster Dulles una precisazione secondo la quale gli Stati Uniti mantenevano fermo il loro precedente atteggiamento, per quanto riguardava Trieste.
Quando si rivolse, il 6 settembre, alla folla immensa dei suoi partigiani, Tito fu duro, spesso ironico, a tratti sprezzante. Alle accuse per gli orrendi massacri nelle foibe replicò elencando con puntiglio – e certamente ingigantendoli – i crimini e soprusi commessi dagli occupanti italiani. Parlò di 67.000 Sloveni rinchiusi in campo di concentramento, 11.000 dei quali morti. Rievocò i rastrellamenti, fece ascendere a 438.000 persone gli uccisi dall’esercito italiano in Jugoslavia, disse che erano state distrutte 142.000 case, valutò a 10 miliardi di dollari i danni subiti dal suo Paese. Posta questa premessa che trovò nell’uditorio rispondenza indignata e solidarietà osannante, si occupò del Territorio libero. La Jugoslavia, sottolineò sarcasticamente, non aveva nessuna intenzione di annettersi qualcosa, come la Zona B, che aveva già in mano. La questione dunque riguardava unicamente il resto del Territorio libero: e la Jugoslavia lo pretendeva. Definì «aggressione» il rafforzamento dei presidi confinari italiani, e volgendo l’occhio al di là della frontiera, che era a due passi, aggiunse: «No, la Zona A non l’occuperete. Perciò sarebbe meglio far rientrare le divisioni nelle caserme, dov’erano, e cominciare una conversazione, e vedere se esistono punti di contatto, se possiamo metterci d’accordo, in questa situazione, se non su tutto almeno su qualcosa». Respinse inoltre l’idea d’un plebiscito perché la sua attuazione avrebbe richiesto l’impossibile ripristino della situazione ante-1920.
Il 13 settembre Pella rispose a Tito. Lo fece in Campidoglio, dove si celebrava, nella sala degli Orazi e Curiazi, l’anniversario della Resistenza romana e il sacrificio dei suoi caduti. «Domenica scorsa» disse Pella «è stato pronunciato a San Basso un discorso su cui mi consentirete di intrattenermi brevemente…» Avvertì che si sarebbe astenuto da violenze di linguaggio, affermò con pacatezza che il problema triestino doveva trovare una soluzione «aderente alle attese dell’anima nazionale», definì «strumento valido e non rinunciabile» la Dichiarazione tripartita, rilevò l’arroganza di Tito. «Nel discorso di San Basso non si è esitato a dichiarare che la Zona B è ormai definitivamente nelle mani jugoslave, affermazione che non saprei se dire più insultante nei confronti del diritto internazionale o dell’ammirevole sopportazione alleata.» Infine Pella riaffacciò una proposta che già in passato era stata indicata come democratica e risolutrice, ma che Tito non gradiva: un plebiscito in tutto il Territorio libero, «in base al principio democratico dell’accertata volontà della maggioranza per una scelta tra Italia e Jugoslavia, beninteso senza la presenza delle truppe delle due parti interessate». L’idea di Pella, non nuova e in sé ineccepibile, era anche irrealizzabile. Ma rientrava in una schermaglia nella quale le due parti – ciascuna secondo il suo stile – facevano la faccia feroce, sapendo che in qualche modo si sarebbe arrivati a un compromesso ingrato ma inevitabile.
Pella tuttavia presentò questa proposta come taumaturgica e indilazionabile, sottoponendola a termini che parvero ultimativi. «Una riunione a brevissima scadenza da tenersi in località neutrale» con «rappresentanti dei governi americano, britannico e francese insieme con quelli italiano e jugoslavo» avrebbe dovuto definire le modalità del plebiscito. Se Belgrado avesse rifiutato «tutti dovranno trarne le debite conseguenze: primi fra tutti gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, entrati e rimasti a Trieste come esecutori d’un trattato che l’Italia ha subito protestandone l’ingiustizia e di cui essi stessi hanno riconosciuto l’ineseguibilità». Nella conclusione Pella si disse fiducioso che la giustizia avrebbe trionfato. «Se ciò non dovesse verificarsi, e mi rifiuto di crederlo, parlamento e governo saprebbero rendersi interpreti degli interessi del Paese e della volontà della Nazione.»
Giulio Cesare Re, che di Pella era uno stretto collaboratore, e che aveva messo mano alla stesura del discorso, ha lasciato una cronaca vibrante dell’accoglienza che il discorso ebbe, a caldo: «applausi scroscianti», «le autorità gli si fanno intorno e si congratulano», «Pella è costretto a sostare nella sala degli Orazi e Curiazi più del previsto, e quando finalmente si avvia verso lo scalone per scendere e lasciare il palazzo si tenta di spingerlo al balcone del piano perché possa rispondere al saluto della folla che si accalca nella piazza, tutt’attorno alla statua di Marc’Aurelio, e lo acclama a squarciagola scandendo il nome: Pel-la, Pel-la, Pel-la».
Tra tanti consensi, mancò a Pella quello che, forse, più gli premeva. A De Gasperi il discorso non piacque. La figlia Maria Romana ha reso nota una lettera che lo statista trentino aveva preparato, e che – secondo lo stesso Re – Pella non ricevette mai: probabilmente perché De Gasperi, essendosi accorto d’avere ecceduto in severità, preferì lasciarla nel cassetto. La lettera di De Gasperi – un promemoria critico, piuttosto – era fitta di punti interrogativi. «Il deferire la decisione al parlamento significa trovare una soluzione? Evidentemente no… C’è il pericolo che [le Camere, N.d.A.] subordinino al T.l.T. la fedeltà alle alleanze e la collaborazione europea? Sì, il pericolo esiste, perché il governo ha affermato l’inscindibile concatenazione dei nostri fondamentali problemi esteri… dichiara che in caso di rifiuto o anche solo di tattica dilatoria tutti dovranno trarne le conseguenze. Tutti vuol dire in prima linea gli alleati… Ma gli altri siamo noi. Noi, che cosa faremo?… È da pensare che Tito si pieghi a compromessi prima delle elezioni?… Che cosa possiamo fare in caso negativo? La guerra, no. Sarebbe, oltretutto, la vittoria del comunismo. La disdetta della NATO? Sarebbe la vittoria del neutralismo con quel che segue. Immagino che tutte queste cose le hai pensate da te e l’abbiano meditate a Palazzo Chigi; e forse è superfluo che te ne scriva.» Formula retorica per dire: evidentemente non hai pensato a queste cose, e te le ricordo.
Pella era stato forse un po’ gigione, nel suo atteggiamento, De Gasperi a sua volta enfatizzava troppo le incognite e le minacce. Le cose procedevano per loro conto verso un epilogo scontato. La tesi del plebiscito, cui nessuno credeva, aveva, forse proprio per questo, raccolto molti consensi: da quello di Saragat a quello di Nenni e di Pacciardi. Togliatti faceva invece parte per se stesso, insistendo sull’effettiva indipendenza del Territorio libero, dal quale avrebbero dovuto allontanarsi tutte le truppe di qualsiasi Paese: il che significava la smilitarizzazione totale di un’area in cui si trovava un forte contingente angloamericano. L’URSS ne sarebbe stata deliziata, insieme a Togliatti.
L’8 ottobre 1953 i governi di Washington e di Londra compirono un altro passo per sbloccare la crisi. Annunciarono di non potersi ulteriormente addossare la responsabilità dell’amministrazione nella Zona A, e di volerla pertanto rimettere al governo italiano. Senza indugi Pella chiarì che «l’eventuale accettazione da parte italiana della responsabilità e degli oneri dell’amministrazione di Trieste e della Zona A non avrebbe potuto in alcun modo significare rinuncia alla rivendicazione di tutto il Territorio libero di Trieste». Tito andò su tutte le furie, o fece mostra d’andarci: disse che avrebbe reagito con le armi se le truppe italiane fossero entrate in Trieste, e si rivolse perfino all’ONU (di cui l’Italia non faceva parte, vi fu ammessa solo nel 1955). Gli Anglo-americani ebbero così le mani legate. E l’Italia si trovò nella spiacevole condizione di non poter più invocare la famosa Dichiarazione tripartita, che l’annuncio dell’8 ottobre aveva sostanzialmente accantonata, e di non poter nemmeno prendersi ciò che l’8 ottobre le era stato promesso. Temendo di uscire malconcio – moralmente e politicamente – da questa morsa, Pella incaricò l’ambasciatore a Washington Tarchiani di chiedere formalmente a Foster Dulles se davvero gli alleati avessero intenzione di onorare la loro dichiarazione dell’8 ottobre. Foster Dulles lesse il memorandum italiano e lo restituì bruscamente a Tarchiani: «Non avendo il governo italiano fiducia nella parola di quello americano, è inutile che io aggiunga altro per spiegare la posizione degli Stati Uniti». L’ostentata stizza mascherava presumibilmente un profondo imbarazzo.
Il 4 novembre Pella parlò a Venezia dopo aver reso omaggio, nell’anniversario della Vittoria, ai caduti di Redipuglia. Centomila persone gremivano la piazza San Marco. Il Presidente del Consiglio promise «per Trieste buona guardia. Sì, amici, siatene certi. Per l’Italia, per la sua dignità, per i suoi vitali interessi, questa è la consegna a cui questo governo – ogni governo italiano – ubbidirà: buona guardia!». Mentre Pella concionava con periodare rotondo, cominciarono ad arrivare notizie di disordini gravi a Trieste, dove la passione della folla italiana era incandescente, e si scontrava con un servizio d’ordine cui il generale Winterton aveva dato disposizioni rigorose. Quello stesso 4 novembre la polizia del Gma (Governo militare alleato) aveva caricato la folla; alcuni arresti, feriti e contusi.
Ma il peggio doveva venire. Ecco come Giulio Cesare Re ha riassunto i successivi avvenimenti: «Il giorno dopo [5 novembre 1953, N.d.A.] davanti alla chiesa di Sant’Antonio Nuovo, la polizia spara sulla folla inerme, in mezzo a cui si sono rifugiati gruppi di giovani inseguiti dalle forze dell’ordine: due morti e una cinquantina di feriti. Il comunicato diramato in serata dal generale John Winterton ignora la profanazione del tempio. Il 6 novembre i disordini continuano: la polizia spara sui dimostranti senza usare prima le bombe lagrimogene e gli idranti. Alla fine della giornata si registrano altri quattro morti e ancora una cinquantina di feriti».
La stampa inglese fu acida verso il governo italiano, e attribuì l’accaduto agli eccessi di piazza. A sua volta il ministro Anthony Eden respinse una protesta che gli era stata presentata dall’ambasciatore Brosio (passato a quel posto dalla precedente sede di Mosca) affermando che il Gma godeva del pieno appoggio del Foreign Office. Pella avrebbe voluto intervenire ai funerali delle vittime, ma ne fu vivamente sconsigliato da Diego De Castro, commissario civile del governo di Roma presso il Gma. Perciò si limitò a indirizzare al Paese un radiomessaggio molto equilibrato, nel quale deplorava lo spargimento di sangue innocente, e chiedeva la punizione dei responsabili: invitando nel contempo gl’Italiani di Trieste a «contenere» la loro indignazione.
Ma intanto i moti triestini avevano offerto agli Jugoslavi – e a chi per gli jugoslavi simpatizzava – il destro di individuarvi segni di risorgente fascismo. Contro queste insinuazioni Luigi Sturzo, con la sua autorità indiscussa di oppositore del regime mussoliniano, scrisse che i tragici incidenti erano stati il cattivo frutto d’una politica sbagliata, non di nostalgie deprecabili: e ricordò la Carta atlantica secondo la quale non vi dovevano essere «mutamenti territoriali che non fossero conformi ai voti liberamente espressi dai popoli interessati».
Dovette trascorrere quasi un altro anno prima che il nodo triestino avesse un suo scioglimento teoricamente provvisorio, ma destinato a durare e a consolidarsi nel trattato di Osimo che gli diede veste definitiva. Nel frattempo – lo vedremo – Pella era caduto, era caduto anche un meteorico governo Fanfani, e la Presidenza del Consiglio era finita nelle mani di Scelba, rientrato alla grande nella politica. Ma Einaudi aveva in qualche modo avocato a sé – tra questi rivolgimenti di Ministeri e di coalizioni – la questione triestina. Il senatore a vita Jannaccone, amico di Einaudi, disse addirittura nell’aula di Palazzo Madama, riferendosi al problema di Trieste, che un dibattito al riguardo «non poteva aver luogo perché era viziato dal fatto che il Presidente della Repubblica si era assunto tutte le responsabilità».
Così si continuò a negoziare: e finalmente il 5 ottobre 1954, a Londra, l’ambasciatore Brosio, il rappresentante degli Stati Uniti Llewellyn Thompson, il sottosegretario aggiunto al Foreign Office Geoffrey Harrison e l’ambasciatore jugoslavo Vladimir Velebit siglarono un Memorandum d’intesa il cui articolo 2 (quello fondamentale) prescriveva: «Non appena il presente Memorandum d’intesa sarà stato parafato e le rettifiche alla linea di demarcazione da esso previste saranno state eseguite, i governi del Regno Unito, degli Stati Uniti e di Jugoslavia porranno termine al governo militare nelle Zone A e B del Territorio. I governi del Regno Unito e degli Stati Uniti ritireranno le loro Forze Armate dalla zona a Nord della nuova linea di demarcazione [Zona A, N.d.A.] e cederanno l’amministrazione di tale zona al governo italiano. I governi italiano e jugoslavo estenderanno immediatamente la loro amministrazione civile sulla zona per la quale avranno responsabilità». Il governo italiano, diventato «amministratore» a tutti gli effetti della Zona A, s’impegnava a mantenere a Trieste il porto franco. Entro un anno coloro che già risiedevano nelle Zone A e B e che se ne erano allontanati potevano farvi ritorno, con gli stessi diritti degli altri residenti: coloro che non volessero far ritorno, o che intendessero nel frattempo andarsene, erano autorizzati a trasferire i loro fondi.
La mattina del 26 ottobre, in un tripudio di bandiere tricolori e in una immensa commozione di folla, i soldati italiani entrarono in Trieste restituita per la seconda volta all’Italia. Alle celebrazioni del 4 novembre 1954 intervenne, acclamatissimo, Luigi Einaudi.
L’Italia poteva ottenere di più? Forse, se avesse agito con maggiore tempismo. Comunque avrebbe potuto arrivare molto prima, solo che lo si fosse voluto, al compromesso del 5 ottobre 1954. Fu più conveniente la tattica attendista di De Gasperi, o quella di rottura di Pella? Tutto sommato si deve arrivare alla conclusione che De Gasperi, paralizzato dai suoi tormenti morali e calamitato dal suo disegno europeo, s’illuse sull’utilità del rinvio e della dilazione. Nella sua azione Pella – bollato da Domenico Bartoli come «uno dei più mediocri Capi di governo dell’Italia repubblicana» – fu a sua volta maldestro, con una buona dose di jattanza (comunque di gran lunga meno di quella tonitruante di Tito): ma diede uno scossone all’ingranaggio inceppato, e rese possibile l’eliminazione del contenzioso triestino. Semmai gli si può rimproverare – se è un rimprovero – d’essersi comportato come se alle sue spalle stessero una classe dirigente risoluta e un Paese disposto a rischiare e pagare. Mirabili d’intraprendenza e audacia per il loro particulare, gl’Italiani preferivano, nelle cose riguardanti la collettività, gli slanci emotivi agli sforzi tenaci. «Bisogna pur dire» ha annotato impietosamente l’ambasciatore Toscano «una cosa sgradevole: il popolo italiano sentiva profondamente i problemi nazionali, e più di ogni altro sentiva il problema di Trieste, ma all’aspirazione di risolverli non corrispondeva una volontà seria di sacrificio. Quando don Sturzo chiese all’Italia di non ratificare il Trattato di pace… urtò contro l’indifferenza e l’assenteismo degli Italiani, della classe politica in particolare. L’Italia fu, in quel torno di tempo, il solo Paese dell’Europa occidentale, tra vinti e vincitori, comprese la Gran Bretagna e la Francia, in cui erano in vendita libera il pane bianco e le paste con lo zucchero. Noi non potevamo avere la botte piena e la moglie ubriaca: avevamo però la botte piena e cioè il pane bianco, lo zucchero eccetera. Si gridava molto anche per le colonie, ma non si voleva pagare il prezzo necessario. Così per la questione di Trieste.» Diagnosi molto dura ma non campata in aria.
Quanto alle recriminazioni dei giuliani e di taluni accesi ambienti nazionalisti (del tutto comprensibili le prime, non così le seconde), si deve soltanto osservare che la Zona A, la Zona B e le terre istriane non furono perdute né alla firma del Trattato di pace né alla firma del Memorandum d’intesa. Furono perdute il 10 giugno 1940, quando Mussolini precipitò l’Italia nella seconda guerra mondiale.