CAPITOLO QUATTORDICESIMO
L’ULTIMO DISCORSO
Per il terzo governo post-degasperiano, Einaudi convocò dapprima Attilio Piccioni che non volle tuttavia assumersi una così alta responsabilità mentre l’affare Montesi lo investiva con violenza d’uragano. Venne così il turno di Mario Scelba, che del resto aveva posto la sua implicita candidatura a presiedere un nuovo quadripartito col discorso di Novara. I socialdemocratici avevano operata un’altra delle loro numerose conversioni, ed erano disposti ad entrare nel governo: in compenso Scelba fu largo nell’assegnazione di Ministeri agli alleati.
Il 10 febbraio 1954 lo Scelba I era fatto. Il Presidente del Consiglio si era riservato, per irrefrenabile vocazione, anche gli Interni, Saragat aveva la vicepresidenza, il torturato Piccioni gli Esteri. Tre socialdemocratici, Vigorelli, Romita e Tremelloni, andavano rispettivamente al Lavoro, ai Lavori pubblici e alle Finanze. Un liberale, Gaetano Martino, all’Istruzione che la DC s’era sempre tenuta, dal 1945 in poi. Rimasero fuori due personaggi di grande spicco, Amintore Fanfani che in quel periodo stava svolgendo un’azione intensa per affermare nella DC la supremazia della sua corrente e sua personale, e Giulio Andreotti provvisoriamente retrocesso a deputato dopo il breve avanzamento a Ministro.
Il governo Scelba, la cui etichetta era tecnicamente di centrosinistra, ebbe l’immagine e l’impronta di chi lo dirigeva. In qualche modo fu anch’esso un governo «amico», perché i veri giuochi della DC, nella quale Scelba non era in condizioni di dettar legge, si facevano all’esterno. E fu, per la propaganda di sinistra, un governo repressore, guidato da un uomo per il quale «Stato ideale è quello di polizia. Tutti schedati! Tutti sorvegliati! E in cima alla piramide statale: la Celere! Povera democrazia e ancor più povera socialdemocrazia!» (Nenni).
L’aria che tirava nei riguardi di Scelba la si vide quando il governo fu presentato alle Camere, il 18 febbraio. Per sfortuna del neopresidente del Consiglio, il suo discorso programmatico aveva avuto, nel Paese, un prologo tumultuoso fino alla tragedia. A Milano un operaio era morto – per cause naturali – mentre rientrava da una manifestazione di disoccupati sciolta dalla Celere. Si disse che gli erano state inferte alcune manganellate e le polemiche divamparono. Cariche e caroselli anche a Roma per uno sciopero di operai dell’industria. L’episodio più grave era avvenuto a Mussomeli, nella Sicilia di Scelba, dove i carabinieri erano intervenuti duramente per far sgombrare il cortile del Municipio, invaso da dimostranti. Nel fuggi-fuggi che seguì il lancio di bombe lagrimogene, rimasero uccisi tre donne e un ragazzo. Poiché Scelba si azzardò a dire che il governo si associava alle parole di cordoglio pronunciate da deputati della sinistra, i comunisti e i socialisti siciliani cominciarono a inveire: «Assassino, assassino». Il putiferio durò una mezz’ora buona, dopo la quale il presidente della Camera Gronchi, esauriti i vani tentativi di ristabilire la calma, sospese la seduta. Alla ripresa Togliatti dichiarò che i parlamentari del suo partito avevano sempre mostrato deferenza verso la presidenza ma che «lo sdegno morale dei comunisti è esploso… Dopo aver lavorato anni per creare un clima di distensione nel Paese, è tornato un uomo e sono tornati i morti». Quindi, seguito da tutti i suoi compagni, Togliatti uscì dall’aula. Commentò successivamente «La Civiltà Cattolica» che Togliatti «non si ritirava sul Monte Sacro, ma in via delle Botteghe Oscure a smaltire lo sdegno morale, dimentico di non averne provato alcuno quando Tito e i suoi amici riempivano le foibe di morti italiani».
Altri clamori durante la seduta (10 marzo) in cui Scelba ottenne la fiducia, con 300 voti favorevoli, 283 contrari, un astenuto. Il fuoco alle polveri fu dato questa volta da Giancarlo Pajetta, che prese lo spunto da un documento letto durante un’udienza del processo per diffamazione contro Silvano Muto (il pubblicista, si ricorderà, che diede corpo alle voci sulla morte di Wilma Montesi). Si trattava d’un rapporto dei carabinieri, demolitore per il marchese Ugo Montagna. Pajetta si lanciò dunque (citiamo dal diario di Nenni) «in una invettiva feroce contro gli amici del lenone che forniva donne ai gerarchi democristiani, dopo averle fornite ai fascisti e ai Tedeschi e contro il governo che non può fare pulizia perché ha le mani sporche. Ne è nato un tumulto infernale».
Com’era accaduto in passato, durante analoghe tempeste, Scelba faceva mostra d’impassibilità. Era Presidente del Consiglio, ma il suo comportamento rimaneva quello del Ministro dell’Interno che era stato (e che era). Onesto, servitore dello Stato, risoluto nel discriminare i comunisti quando gli pareva che potessero «infiltrarsi» in gangli vitali dell’amministrazione, codino della censura sugli spettacoli cinematografici o d’altro genere. E difensore ad oltranza dei prefetti, e della loro neutralità armata. Ha raccontato il suo biografo, Corrado Pizzinelli, che quando Scelba si sedette nel suo ufficio al Viminale e cominciò a compulsare le pratiche, incappò in alcune nomine prefettizie, fatte da Fanfani ministro dell’Interno, che non gli piacevano. Quei funzionari lui li aveva bocciati. Uno perché due suoi fratelli erano stati condannati per pluriomicidio. Un altro perché la moglie pretendeva sconti nei negozi (sconti sostanziosi, del cinquanta-sessanta per cento). «Come può lei controllare una provincia, una città, la polizia e l’amministrazione» gli aveva gridato tempo prima Scelba, negandogli la promozione «se non è capace di controllare sua moglie al mercato?» Un terzo prefetto «fanfaniano» era stato vice ad Arezzo. «Era stato scartato anche lui per incapacità. Fanfani invece l’ha promosso. Con lui Scelba si diverte trasferendolo subito proprio ad Arezzo. “Fanfani l’ha nominato e Fanfani l’abbia nella sua città” dice. Dopo qualche mese, al primo errore, lo manda a fare il commissario alla scuola infermiere.» Piacevolezze tra democristiani dotati di grinta. Questo «poliziotto» retto poté anche avere tentazioni di maccartismo. Non ebbe quella, che è stata ed è di tanti politici, di porre il Partito al disopra di tutto, anche del Codice penale.
Scelba governava e De Gasperi si affannava a tenere le redini d’un partito che, lo sentiva, gli sfuggiva di mano. Il quinto Congresso della DC, da tenersi a Napoli, era stato indetto per il 27 giugno (1954). «Dalla metà di maggio» ha scritto Andreotti «(De Gasperi) risparmiò coscientemente tutte le sue forze allo scopo di arrivare al Congresso, ed era diventato docilissimo nell’obbedire alle prescrizioni di riposarsi… Scrisse tutto il discorso per il Congresso stando a letto perché l’azotemia aveva raggiunto una punta paurosa… e la debolezza fisica era così accentuata che anche l’attraversare una stanza rappresentava per lui una vera impresa.» Era quello congressuale un lungo, elaborato, appassionato discorso, che la moglie dello statista, Francesca, e il suo medico avrebbero voluto fosse accorciato: ma De Gasperi fu irremovibile. Così pure rifiutò di addurre una laringite per incaricare qualcun altro di parlare in sua vece. Quando si alzò e salì sul podio degli oratori, i suoi intimi trattennero il fiato. Per mezz’ora procedette senza inciampi, ma si vedeva che era stremato. Per sua buona fortuna, la partenza di un delegato della democrazia cristiana francese che doveva porgere il suo saluto gli offrì una pausa d’una ventina di minuti.
La DC cui De Gasperi si rivolse era sempre più una federazione di partiti, anziché un partito. Al momento del Congresso le correnti – pienamente operanti o in fieri e soggette a continui travasi e rimodellamenti – erano otto. Anzitutto il «Centro», che raggruppava la vecchia guardia, con De Gasperi alla testa, Scelba, Piccioni, Spataro, Tupini e altri. Finché c’era De Gasperi questa poteva essere considerata la trave portante del Partito. Ma se De Gasperi cedeva, cedeva anche la trave. Poi la fanfaniana «Iniziativa democratica», nata, come sappiamo, dall’evoluzione – con fratture – dei dossettiani di «Cronache sociali». Questi «ragazzacci» e «professorini» erano rapidamente cresciuti, in prestigio e in potere. Si affiancavano a Fanfani Moro, Rumor, Taviani, Colombo, Zaccagnini. Terza la «Base», fatta di giovani, lombardi in prevalenza, che si stringevano attorno a Vanoni, e che sapevano di poter contare sull’appoggio e sul foraggio di Enrico Mattei. Insomma andava a metano. Alla Base piaceva molto, già allora, l’idea d’un avvicinamento ai comunisti. Vi militavano De Mita, Marcora, Granelli, Galloni, Sullo. Nell’occasione congressuale la Base parve quasi una propaggine di Iniziativa democratica: Vanoni volle che si schierasse senza esitazioni a fianco di Fanfani. «Forze nuove» (quarta corrente) aveva i suoi leader nel sindacalismo democristiano: Pastore, Storti, Donat Cattin, Labor. La quinta, «Politica sociale», era una corrente personale: s’imperniava sulla figura del presidente della Camera, il discusso e da molti ammirato Giovanni Gronchi, prossimo Presidente della Repubblica. Anche Gronchi, un po’ come quelli della Base, era per «i garofani bianchi e i garofani rossi assieme», ma portava in questa vaga visione strategica i suoi tatticismi spregiudicati. Gli era compagno di strada il sindacalista ribelle Rapelli. Alla destra del Partito si collocava (sesta corrente) «La Vespa» di Renato De Martino e Renato Tozzi Condivi, così chiamata perché i suoi adepti si riunivano nella sede del Vespa Club di Roma. I vespisti erano anticomunisti a oltranza. Non meno anticomunisti, ma con più pacato linguaggio, erano Andreotti ed Evangelisti fondatori della corrente «Primavera» (la settima) che nacque proprio allora. La stampa le aveva dato quel nome per l’età di chi la capeggiava: un’etichetta mutuata dalla nazionale giovanile di calcio. Infine si andò formando un gruppo eterogeneo, con caratteristiche moderate, che raccolse Gonella, Aldisio, Pella, e al quale finirono per unirsi Andreotti e Gronchi, rinunciando a far parte per se stessi. Lo si chiamò «Concentrazione», l’ottava corrente, o se preferite alleanze di personalità. In Concentrazione era importante, più che un programma in positivo, l’avversione all’intraprendenza di Fanfani.
L’esposizione di De Gasperi all’assemblea ribollente di fervori e livori ebbe ampio respiro. Spiegò puntigliosamente come fosse composto l’elettorato democristiano: per far capire che ogni politica non interclassista era destinata a danneggiare il Partito. Da ciò trasse spunto per sottolineare che, in base a una recente indagine, su undici milioni e mezzo di famiglie dell’Italia che progrediva, più di un milione e quattrocentomila avevano ancora un tenore di vita miserabile, e un altro milione e trecentomila un tenore di vita disagiato. La socialità consisteva nel por rimedio a così patenti ingiustizie. Ma rivendicò egualmente alla DC il merito dell’avanzata economica, con un reddito lordo che nel 1953 era aumentato del 7,5 per cento rispetto al 1952. De Gasperi si occupò della legge-truffa, e se ne occupò, con sorpresa di molti ascoltatori, affermando che «più logico sarebbe stato il ritorno al collegio uninominale con ballottaggio o con voto alternato». E aggiunse: «Dovendo tener conto di altre forze nucleari della democrazia, pensammo al collegamento tra i partiti democratici… Il principio della legge era giusto, la nostra preoccupazione di consolidare la democrazia parlamentare era più che giustificata… La legge sarebbe anche formalmente scattata se si fosse preveduto un ufficio elettorale imparziale che avesse giudicato rapidamente intorno alle contestazioni… Sostengo anche oggi l’onestà democratica della nostra iniziativa e solo spero che l’esperienza parlamentare futura non renda anche troppo evidente che il tentativo meritava maggior fortuna» (osservazione profetica). De Gasperi fece appello all’unità del Partito, senza ottenerla. Ebbe la consolazione, tuttavia, di vedere il suo nome sia alla testa della lista di Iniziativa democratica e della Base coalizzate, sia alla testa della lista di Primavera, che con Forze nuove era uscita allo scoperto. Iniziativa democratica stravinse, Fanfani fu segretario della DC, e De Gasperi presidente del Consiglio nazionale (all’unanimità, per sua consolazione). Ma di fatto, perso il pieno controllo del Paese, aveva perso anche quello della sua DC.
A fine luglio partì per Sella di Valsugana, un po’ disorientato dalle tante facce nuove e sconosciute che aveva visto affiorare nel Partito (avrebbe voluto conoscere questi novizi ricevendoli un giorno in montagna, disse), amareggiato dalle notizie sulla CED: che stava andando al naufragio. La Germania e i tre Paesi del Benelux avevano ratificato il trattato che costituiva l’esercito europeo. L’Italia, secondo sua abitudine, aveva invece nicchiato, aspettando che si pronunciasse la Francia, e molti si chiesero, successivamente, se una decisione italiana non avrebbe reso più arduo il dietro-front di Parigi. Pierre Mendès-France, nuovo Presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri francese, aveva subordinato il sì all’approvazione di una serie di emendamenti: i quali erano stravolgimenti, e snaturavano l’essenza del patto. Dal 19 agosto – il giorno in cui morì De Gasperi – i Ministri degli Esteri dei sei Paesi della Comunità europea discussero sulla CED a Bruxelles. Mendès-France restò sulle sue posizioni, e il 30 agosto il parlamento francese affossò con un espediente procedurale – un rinvio sine die del dibattito – il progetto di esercito europeo. Mai più fu possibile resuscitarlo.
Pietro Nenni, che era ancora in bilico tra frontismo e autonomismo, ma scivolava impercettibilmente verso quest’ultimo, riaffermò tuttavia la sua soddisfazione per il naufragio della CED. In una dichiarazione all’«Avanti!» disse che il voto francese contro la CED «non mi sorprende» e aggiunse: «Malgrado le enormi e scandalose pressioni che si sono esercitate sulla Francia, ho sempre considerato che il trattato della CED non poteva essere ratificato. Quando in un Paese uomini delle più diverse provenienze politiche e sociali come il vecchio Herriot o il generale De Gaulle, come il comunista Thorez o come il socialdemocratico Jules Moch, come Daladier o come il vecchio nazionalista Marin s’incontrano in una battaglia di fondo come quella contro la CED, non c’è astuzia di politicanti né minaccia di mercanti che possano trionfare… Lungi dall’isolare la Francia, il voto dell’Assemblea nazionale può mettere la Francia alla testa di una politica di distensione e di sicurezza europea suscettibile di portare l’Europa fuori dalla guerra fredda e dalla corsa agli armamenti. Da noi il voto coglie del tutto impreparato il governo e i gruppi dell’effimera maggioranza quadripartita».
Con il tramonto di De Gasperi finiva quel miracolo politico che fu l’Italia dell’immediato dopoguerra, guidata e impersonata da un uomo, anche lui della Provvidenza: ma in modo ben diverso da come lo era stato l’Altro. Si delineava invece il miracolo economico. La divaricazione tra l’itinerario della politica e l’itinerario dell’economia fu così clamorosa da lasciare ancora stupefatti, a distanza di decenni. Il Palazzo romano si abbandonava alla voluttà dell’instabilità, e i partiti – tranne il comunista – al piacere perverso della rissa interna. La vita politica si degradava, nell’imperversare di scandali, mentre l’economia si consolidava, impermeabile al contagio di Roma. Gl’Italiani lavoravano duro, le cinquanta ore settimanali non erano un’eccezione, la macchina stessa dello Stato conservava una certa efficienza. Gli stipendi rimanevano inferiori al livello europeo: erano cresciuti di oltre ottanta volte rispetto all’anteguerra – il dato dice poco in se stesso – ma cominciavano ad essere rivalutati anche in termini reali di potere d’acquisto. Le gerarchie economiche europee erano in via di assestamento, gli operai inglesi guadagnavano ancora più degli altri (sarebbe durato poco). Gli operai italiani – il calcolo fu fatto dall’«Economist» nel 1956 – avevano un salario inferiore del 50 per cento a quello inglese, del 30 per cento al francese, al tedesco, al belga. Il divario si andava tuttavia attenuando. La struttura della società conservava aspetti «vecchi» (un quinto delle famiglie, secondo un’indagine riportata da Giovanni Cavallotti nel suo Gli anni cinquanta, poteva permettersi il lusso d’una domestica, solo un decimo aveva l’automobile) ma il nuovo si faceva largo impetuosamente.
La lira, che la seconda guerra mondiale aveva polverizzato riducendola a un centesimo del suo valore 1938, e che l’impatto della guerra di Corea – con i rincari delle materie prime – aveva depresso d’un altro venti per cento abbondante, era nel 1954 tornata a una soddisfacente stabilità. Negli anni successivi molti prezzi, soprattutto di prodotti industriali, sarebbero addirittura diminuiti: anche perché l’Italia diventava un mercato importante per frigoriferi, automobili, motociclette, e la fabbricazione in serie di questi prodotti consentiva economie di scala, e una riduzione del costo unitario. L’operaio guadagnava tra le 50 e le 100.000 lire al mese, una differenza giustificata dalle diversità di categoria, dagli straordinari, dalle indennità, dai superminimi. Più modesto il salario del bracciante, tra le 37 e le 40.000 lire mensili. Per un impiegato medio lo stipendio variava tra le 100 e le 120.000 lire, per un magistrato agl’inizi della carriera era sulle 180.000 lire. Ai deputati andava mezzo milione al mese più i gettoni di presenza.
Queste retribuzioni devono essere poste a confronto con i prezzi: 25 lire un quotidiano, 40 lire un caffè, mille lire un pasto in trattoria. E ancora: 300 lire un chilo di coniglio, 500 un chilo di nodini di maiale, 1000 un chilo di filetto o di orata, 3000 un paio di scarpe di qualità media, 62.000 lire un frigorifero da 60 litri, 90.000 lire una lavatrice con centrifuga, 60.000 lire un ciclomotore, da 108 a 150.000 lire, secondo i modelli, la Lambretta o la Vespa, 665.000 lire una Topolino C «chiavi in mano». L’acquisto di beni che appena esulassero dalle prime necessità – il pane e la pasta costavano pochissimo – richiedeva sacrifici e sudore. Ma le formiche italiane si sacrificavano, e riuscivano a risparmiare.
Era un momento di grande debolezza dei sindacati, il più delle volte l’un contro l’altro armati: e di «paternalismo» nelle aziende, che realizzavano ingenti profitti, e potevano premiare con aumenti di merito i dipendenti ritenuti migliori. Semmai l’azione sindacale – sostenuta da un moto spontaneo d’opinione pubblica – si rivelava più efficace quando avvenivano grandi sciagure sul lavoro: come un’esplosione del 4 maggio 1954 nella miniera di Ribolla, in Toscana: quarantatré operai persero la vita, e fu posto sul tappeto un problema che era autentico e drammatico. Quello della sicurezza nelle fabbriche, e dei cosiddetti «omicidi bianchi».
V’era in questo straordinario slancio italiano molto di caotico, di egoistico, di selvaggio. I temi che oggi sono in primo piano – protezione dell’ambiente, tutela della salute – stentavano ad affiorare perché non erano chiaramente percepiti dalla coscienza comune. Il sindacato disperdeva le sue forze in battaglie politiche o comunque astratte: Di Vittorio fu costretto a respingere con argomenti discutibili, in un direttivo della CGIL, gli addebiti che venivano mossi alla sua strategia: «Non è vero che abbiamo fatto troppi scioperi politici, non è vero che abbiamo logorato le nostre forze in inutili battaglie». Invece era vero.
Ed era vero anche per il democristiano Giulio Pastore che si impegnò a fondo per ottenere che le aziende a partecipazione statale fossero inquadrate in un organismo «padronale» diverso dalla Confindustria. Insistette su questa linea – facendola alla fine trionfare – anche se la Confindustria stessa aveva prospettato sensatamente i pericoli dell’operazione: «La duplice contrattazione collettiva avrebbe creato una situazione di disordine nel settore sindacale, e nel settore economico avrebbe accentuato gli squilibri tra redditi di lavoro e redditi d’impresa, già rilevati come uno dei maggiori pericoli per le nostre strutture economiche». L’allarme non era infondato. Accadde negli anni successivi – dopo che nel 1956 il distacco diventò effettivo – che le aziende di Stato concedessero a cuor leggero, tanto pagava Pantalone, ciò che gl’imprenditori privati spesso non volevano dare, ma qualche volta non potevano. La dialettica della trattativa di categoria ne fu stravolta. Fu determinante, per imporre il distacco, la volontà di Enrico Mattei, potente suggeritore politico.
Gl’Italiani risparmiavano. Per farsi la casa, contraendo debiti e mutui gravosi (ma assai meno che gli attuali), per avere l’utilitaria, per acquistare un televisore, in bianco e nero ovviamente (costava sulle 160.000 lire, a 18 pollici). Ufficialmente la televisione italiana nacque il 3 gennaio 1954, con un ritardo di venticinque anni sugli Stati Uniti, dieci sulla Francia, nove sull’URSS. Tuttavia le trasmissioni di prova erano cominciate già nel 1949. Alla fine del 1953 i possessori di televisori erano soltanto 16.000, ma si moltiplicarono a ritmo vertiginoso. Finché – ma si era già nel 1955 – un giovane Italoamericano, Mike Bongiorno, che aveva fatto gavetta negli Stati Uniti, e che si era guadagnato qualche popolarità con una rubrica, Arrivi e partenze, in cui intervistava famosi personaggi di passaggio, introdusse nella televisione il telequiz. Lascia o raddoppia? sarebbe diventato un fenomeno di costume oltre che di spettacolo, le strade si sarebbero vuotate durante la trasmissione, con folle di spettatori nei bar e nei cinematografi: in questi ultimi la normale proiezione veniva sospesa per lasciar posto, sul grande schermo, alle domande milionarie, seguite da polemiche furiose come quella per il Controfagotto di Lando Degoli.
Il «miracolo» si annunciava in maniera tortuosa, disordinata, con connotati che ai più sfuggivano. L’apparenza era torbida, la sostanza era solida e valida. L’Italia – almeno l’Italia economica – meritava fiducia ma ancora non ne ispirava. Tanto che negli ultimi anni Quaranta e per tutti i Cinquanta il fenomeno dell’emigrazione ebbe una ripresa imponente.
Vi fu un’emigrazione «europea», di gente che in Italia non trovava lavoro, o lo trovava a condizioni ingrate, e che andava a cercarselo in Francia, in Svizzera, in Germania, in Belgio. Era un’emigrazione che non significava un taglio definitivo con il proprio Paese, che era determinata da necessità e disagi contingenti, e che diede luogo a molti avvicendamenti e ritorni. E vi fu un’emigrazione oltreoceano, nella quale ebbero una parte di rilievo individui e famiglie di buona condizione economica e di discreto livello d’istruzione: convinti che il futuro potesse riserbare soltanto guai alla nostra sovraffollata Penisola, e che fosse meglio cercarselo in Paesi giovani, cui gli oroscopi economici promettevano prosperità. Le statistiche d’uno studio a cura di Gianfausto Rosoli su Un secolo di emigrazione italiana abbracciano il periodo dal 1946 al 1961: si portano cioè oltre l’anno – il 1954 – che segna il traguardo cronologico di questo libro. Ma sono egualmente indicative. Nei 16 anni indicati gl’Italiani che emigrarono furono quattro milioni e mezzo: 2.700.000 si trasferirono in Paesi europei, il maggior contingente in Svizzera (1.200.000), il secondo in Francia (840.000), poi il Benelux, la Germania, la Gran Bretagna. Molti tra loro (il 54 per cento secondo le cifre ufficiali) rientrarono a breve o lunga scadenza. Un milione e mezzo andò in America, circa 250.000 in Australia e Nuova Zelanda, qualche decina di migliaia in Africa, particolarmente in Sud Africa (per l’Africa in generale furono prevalenti i rimpatri, soprattutto di residenti nelle ex colonie). Solo un quarto degli emigrati in Sud America rientrò: solo un decimo degli emigrati negli Stati Uniti, ma un quaranta per cento abbondante, invece, degli emigrati in Venezuela. La maggioranza degli emigrati oltreoceano vi mise insomma radici: per la lontananza, per il costo del viaggio e quindi la difficoltà di venire in Italia a vedere di persona come stessero le cose, e quali opportunità si presentassero. Il più alto numero di espatri fu nel Veneto (14 per cento) seguito dalla Campania, dalla Sicilia, dalla Calabria, dalle Puglie. Nel complesso le regioni meridionali offrirono il più largo apporto, e il minor numero di rimpatri.
Le sorti di questi emigrati – ci riferiamo specialmente a quelli partiti con l’intenzione di non più tornare – furono diversissime. Molti si affermarono nella terra che avevano scelta per rifarsi una vita, raggiungendovi posizioni lusinghiere dal punto di vista economico e sociale. Molti altri vi vivacchiarono alla meglio. Altri ancora scelsero la via del ritorno, sconfitti. Certo è che le valutazioni dalle quali erano stati indotti ad andarsene si rivelarono, per parecchi tra loro, totalmente sbagliate. La ricca Argentina si è ridotta alla bancarotta, ed è stata flagellata da ipersvalutazioni a ripetizione. Lo stesso gigante Brasile che a un certo punto decollò – economicamente – e presto si riafflosciò, ha riserbato amarezze, come il Venezuela provvisto di gigantesche riserve di petrolio. Mentre le Nazioni giovani faticavano a trovare una strada economica percorribile con buoni risultati, la vecchia Italia saliva nella gerarchia dei Paesi sviluppati dell’Occidente, fino ad installarsi in uno dei primi posti. La storia, e l’economia, hanno di queste sorprese. E di questi miracoli, appunto.
Per chiudere l’argomento emigrazione, si deve accennare a quella politica. Ci riferiamo a quei personaggi di maggiore o minore spicco e rappresentatività che in Italia affrontavano, o temevano, pendenze giudiziarie, e che cercarono scampo oltre frontiera: scegliendo santuari che fossero in sintonia con la loro ideologia, e che non aprissero il varco ad estradizioni. Vi fu dunque un’emigrazione di sinistra e un’emigrazione «nostalgica»: alimentata, la prima, da partigiani, «giustizieri» che avevano visto nella fine della guerra e nell’avvento della democrazia l’occasione per abbandonarsi a sanguinarie purghe o per realizzare palingenesi eversive; alimentata, la seconda, da gerarchi e gerarchetti fascisti, o da scherani di Salò, il cui problema era – superata senza danni la spicciativa giustizia delle settimane immediatamente successive al 25 aprile 1945 – di rimanere al riparo mentre i processi, le condanne, gli appelli, le amnistie facevano il loro corso, fino a un generalizzato colpo di spugna. Vi fu anche qualche caso anomalo, di Generali cui venivano imputati comportamenti criminali: così Mario Roatta, Capo di Stato Maggiore dell’esercito l’8 settembre 1943 e protagonista inglorioso della fuga in massa, promosso a Brindisi e successivamente incriminato e rinchiuso nell’ospedale militare del Celio, da dove evase riuscendo a raggiungere la Spagna franchista.
L’emigrazione politica di sinistra prese dunque la via dell’Est: soprattutto la contigua Jugoslavia – fino allo scisma di Tito – e la Cecoslovacchia raggiungibile abbastanza agevolmente attraverso l’Austria. In Jugoslavia trovarono benevola accoglienza, ad esempio, alcuni tra i partigiani che nella notte dal 6 al 7 luglio 1945 irruppero nelle carceri di Schio – gremite di detenuti fascisti o presunti tali – e abbatterono 53 persone (tra esse 15 donne) ferendone altre 15. La Corte d’Assise di Milano inflisse ai colpevoli, nel 1952, la pena dell’ergastolo: ma uno solo degl’imputati assistette al dibattimento, gli altri erano contumaci (la Corte di Cassazione ridusse poi l’ergastolo a 10 anni di reclusione). La rottura tra Belgrado e Mosca rese la Jugoslavia, lo si è osservato, impraticabile per i comunisti ortodossi: che elessero in larga parte Praga a loro rifugio (ma ve ne furono diversi che invece si insediarono a Mosca o in altre capitali «satelliti»).
Il più noto tra gli ospiti di Praga fu Francesco Moranino, comandante (con il nome di battaglia di «Gemisto») di formazioni partigiane rosse nel Biellese. Moranino aveva un rango elevato nella gerarchia comunista, tanto che fu eletto deputato alla Costituente e venne anche scelto dal Partito per occupare un posto di governo: sottosegretario alla Difesa. Senonché il riaffiorare d’un vecchio truce episodio gli complicò molto la vita. Con la sua autorità di capo partigiano Moranino aveva fatto fucilare, tra l’ottobre del 1944 e il gennaio del 1945, cinque partigiani «bianchi», accusati d’essere spie dei Tedeschi e dei fascisti: in aggiunta aveva ordinato l’eliminazione delle mogli di due di loro, essendovi il dubbio, spiegò, che mettendosi a curiosare per sapere dove fossero finiti i mariti, danneggiassero la Resistenza. La Corte d’Assise di Milano che inflisse al Moranino l’ergastolo, poi ridotto a 10 anni di reclusione, ritenne che egli avesse agito per odio settario, e non nella sincera convinzione di eliminare delle spie. La requisitoria affermò che «il vero movente di Moranino, in mancanza di altri apprezzabili, appare da individuare nel proposito di impedire il sorgere e l’affermarsi, nella zona del Biellese da lui controllata, di unità partigiane di diverso colore». Se comunque l’uccisione dei partigiani «nemici» poteva trovare qualche legittimità in un movente politico, seppure stravolto, ingiustificabile era l’uccisione delle due donne. Moranino – non più tutelato dalla immunità parlamentare, perché la Camera aveva concesso l’autorizzazione a procedere – mise dunque casa a Praga fin quando, nel 1965, il presidente Saragat gli concesse la grazia. Rientrato in Italia, fu difeso a oltranza dal Partito comunista, che gli garantì un seggio senatoriale e dopo la morte, avvenuta nel 1971, ne chiese la riabilitazione.
A Praga Moranino non era rimasto in ozio. A lui era stato affidato il controllo delle trasmissioni in italiano di Radio Praga. Egli mise particolare zelo nel suo lavoro e creò una rubrica, Oggi in Italia, la cui virulenza contro il governo italiano era tale che la Farnesina reagì con una protesta ufficiale. Nelle mani di Moranino, Radio Praga fu uno strumento propagandistico impudente e aggressivo. In Italia il popolo soffriva sotto la sferza del capitalismo, all’Est il popolo era felice. Si dice che le informazioni e i commenti più importanti – in quegli anni di totale sudditanza del PCI a Mosca – fossero forniti direttamente dalla redazione milanese dell’«Unità».
I gerarchi fascisti non potevano contare su un’«assistenza» altrettanto efficiente e ufficiale. Franco, Salazar mettevano la sordina ai connotati fascistoidi dei loro regimi: e impedivano ogni azione politica a chi invocasse e ottenesse asilo. In cambio della protezione esigevano la discrezione. Più aperto fu Juan Domingo Perón, che aveva imposto all’Argentina un pasticciato regime social-fascista, nutrito di slogan e imputridito dalla corruzione. Questo demagogo ebbe comunque la lealtà di non rinnegare i vincoli ideologici con il fascismo: e di consentire ai fascisti, fino a quando la sua dittatura cadde – 1955 –, di dichiararsi tali. Gli esponenti fascisti lasciavano l’Italia, a volte, con barbe vere o posticce, ma recenti, e passaporti falsi: e riacquistavano la loro vera identità non appena mettevano piede oltreoceano. Si dice che molti espatri – di uomini e ancor più di capitali – siano stati favoriti da Licio Gelli, che non era nessuno, a quel tempo, ma come nessuno già si dava da fare.
La colonia nostalgica di Buenos Aires fu così fiorente che poté essere pubblicato un periodico, «Popolo Italiano», che era l’organo locale del MSI: e che ospitò articoli di Vittorio Mussolini, nato per l’anonimato e costretto a stare sotto la luce dei riflettori da quel suo importante e ingombrante cognome. La storia di Vittorio fu un po’ la storia di tanti altri. Il pericolo d’una fucilazione «a caldo», poi i processi e la clandestinità in un istituto religioso, infine il viaggio verso l’Argentina (dicembre 1946) su una carretta, la Philippa, che batteva bandiera panamense. L’anno dopo si riunirono a lui la moglie e i figli: fu piccolo imprenditore tessile, senza molta fortuna, quindi assicuratore; e occasionalmente giornalista, con corrispondenze anche al «Secolo d’Italia». Sognava di produrre un «film fascista» per narrare (come ha spiegato Antonio Spinosa nel suo I figli del Duce) ciò che «i fascisti in buona fede avevano sofferto». «Lo so» aggiungeva «che anche gli antifascisti hanno sofferto, anche i partigiani hanno sofferto. Ma hanno vinto, hanno trionfato. Chi perde soffre di più.» Quando un colpo di Stato rovesciò Perón, l’Argentina diventò meno gradevole per Vittorio, che del resto si era già riaffacciato saltuariamente in Italia, dove tornò, per rimanervi, nel 1967. Per lui l’Argentina fu una lunga parentesi, per altri «politici», come per centinaia di migliaia d’emigrati comuni, fu la nuova Patria: una Patria nella quale le comunità italiane erano molto più vicine alla sensibilità «nostalgica» di quanto lo fosse la Patria vecchia, lasciata alle spalle.
Nel luglio del 1954, mentre il caso Montesi occupava sempre più prepotentemente la scena politico-giudiziaria, anche il PCI ebbe il suo scandalo. Non una storiella piccante alla Sotgiu, ma un vero infortunio politico-finanziario. Certamente più consistente del caso Montesi, per taluni aspetti più grave: ma sussurrato, ovattato, ufficialmente ignorato dalla nomenklatura comunista, che riuscì a confinarne gli echi quasi esclusivamente nell’ambito del Partito. Fu lo scandalo Seniga: che offrì a Togliatti un motivo eccellente per sbarazzarsi senza chiasso di Pietro Secchia, ingombrante e recalcitrante vicesegretario del Partito, protetto e diletto di Mosca, fautore – non appena gli avvenimenti l’avessero consentito – dell’insurrezione armata e della rivoluzione proletaria.
Pietro Secchia, responsabile dell’organizzazione oltre che vicesegretario, aveva per uomo di fiducia, amico, confidente Giulio Seniga detto «Nino». Un cremonese bel ragazzo, di modi un po’ insolenti, inseparabile dalla sua pistola, che era stato operaio dell’Alfa Romeo, ed aveva fatto la guerra partigiana – da coraggioso – con Cino Moscatelli nell’Ossola. Secchia se l’era portato a Roma fin dal 1947, affidandogli dapprima compiti di autista e di guardia del corpo, poi un posto di responsabilità nella sezione vigilanza. Lo considerava uno di famiglia. Con questi titoli Seniga non sovrintendeva soltanto alla predisposizione di alloggi per i capi del PCI: si occupava anche di riporre in casseforti disseminate negli appartamenti e villette del Partito i fondi neri (dollari in travellers cheques e banconote) che dovevano essere disponibili per eventuali situazioni d’emergenza. Seniga era sempre più inquieto e scalpitante. Avrebbe voluto un PCI ricalcato sul modello della Rivoluzione d’ottobre o delle violente prese di potere nei Paesi dell’Est, e si ritrovava con il gradualismo burocratico di Togliatti. Secchia mugugnava, tesseva qualche timida trama antitogliattiana, ma in definitiva subiva. Una mattina di fine luglio del 1954 Giulio Seniga accompagnò al cinema il figlio di Secchia, Vladimiro, con il quale era rimasto a Roma (Secchia padre doveva partecipare, a Torino, a una commemorazione del 25 luglio e della caduta di Mussolini). Avevano scelto il cinema Reale di Trastevere dove si proiettava un film della Monroe, Come sposare un milionario. «Nino» acquistò il biglietto per il ragazzo e gli promise di andarlo a riprendere alla fine della proiezione. Quando Vladimiro uscì, Seniga non c’era. Vladimiro prese un tassì e si fece portare a casa: vuota. «Nino» era sparito, e con lui il «tesoro» del Partito, che nessuno ha mai potuto stabilire (al di fuori della cerchia togliattiana) a quanto ammontasse, ma che sembra fosse di circa un milione di dollari, 620 milioni di lire del tempo. Era prescritto che quelle somme potessero essere consegnate solo a Togliatti o a Longo o a Secchia: ma di Seniga tutti si fidavano ciecamente. Era il fido tra i fidi.
Quando un Secchia stravolto gli portò la notizia, Togliatti ascoltò impassibile. Disse di non fare nulla. Niente denunce, per carità: sarebbe stato imbarazzante dover spiegare quale fosse la provenienza di quelle centinaia di milioni, così preveggentemente convertite in dollari, valuta passepartout. A metà agosto Secchia poté stabilire un contatto con Seniga, e chiese a Cossutta, che era a Milano, di procurargli una macchina veloce con i documenti necessari per passare la frontiera. La procurò Giangiacomo Feltrinelli. L’incontro non avvenne tuttavia in Svizzera – come dapprima stabilito – ma a Cremona, nella Federazione comunista. Nuovo colloquio il 20 agosto, mentre si svolgevano i funerali del padre di Seniga. Secchia era convinto che il malloppo gli sarebbe stato restituito: quello di Seniga era stato, si consolava, il colpo di testa d’un militante deluso. Avvenne invece – lo ha raccontato Miriam Mafai – qualcosa di assai diverso: «Quando la bara viene alzata sulle spalle e prende la via del cimitero, Seniga non guarda nemmeno dalla parte dove c’è Secchia, l’uomo al quale è stato legato per anni da un affetto più che filiale. Circondato e quasi protetto dai parenti, si avvia verso una macchina di fronte alla quale l’aspettano due sconosciuti. E con loro scompare». Seniga comunque non lasciò l’Italia, né si rese tecnicamente irreperibile. A chi, rintracciatolo, gli chiedeva precisazioni sull’entità della somma trafugata, rispondeva: «Di’ ai compagni della direzione comunista che me la facciano loro un’accusa precisa, e allora parlerò».
Ma l’accusa non veniva, non poteva venire. Infatti un giorno Scelba, a chi gl’imputava di non avere adeguatamente sfruttato quest’episodio che sottintendeva del losco nel comportamento del Partito comunista (e anche nel comportamento dell’ambasciata sovietica, alla quale non doveva riuscire del tutto nuova l’esistenza del «tesoro») replicò freddamente: «Io non potevo fare nulla perché non era stata presentata nessuna denuncia, e nessuna sottrazione di fondi era stata segnalata all’autorità italiana».
Dove siano finiti i quattrini è difficile dire. Forse a movimenti operaisti che si opponevano al PCI imborghesito. Né i precedenti né gli atteggiamenti successivi di Seniga lasciano supporre che si sia preso il tesoro per avidità personale. Aderì per un certo tempo ad Azione comunista, un movimento extraparlamentare, poi litigò anche con i nuovi compagni che pubblicamente affermarono di non voler aver più nulla a che fare con lui. Al che Seniga replicò che quelli di Azione comunista erano tutti agenti di Togliatti e di Secchia. Un invasato lucido. Che magari – non si può escluderlo – fu raggirato da qualcuno cui aveva affidato, in tutto o in parte, i fondi.
Secchia disse più volte che il caso Seniga fu provvidenziale per Togliatti: perché gli consentì di sbarazzarsi di lui, Secchia. L’intervento provvidenziale fu pagato molto caro. Ma può darsi che Secchia avesse almeno in parte ragione. Messo sullo scivolo, andò perdendo incarichi e prestigio, furente e impotente: perché chiunque poteva chiudergli la bocca con quel nome, «Nino»; il suo incorruttibile, indispensabile «Nino».