CAPITOLO QUINDICESIMO
IL 19 AGOSTO, LASSÙ SULLE MONTAGNE
Fino all’annuncio della morte, il 19 agosto del 1954, nessuno – tranne pochi familiari e intimi – aveva sospettato che Alcide De Gasperi fosse affetto da una malattia incurabile e irreversibile: tanto che si parlò e si scrisse di «fine improvvisa». Ma il verdetto infausto era stato pronunciato dai medici già nei primi mesi del 1953. I disturbi che De Gasperi accusava non erano, di per se stessi, molto allarmanti: crampi ai polpacci, attacchi d’asma, pressione alta. Acciacchi e disfunzioni che sembravano comuni, e che l’attività stressante dell’ultrasettantenne statista in larga parte giustificava.
Ma la visita cui lo sottopose il 4 febbraio 1953 il professor Giovanni Borromeo, primario ospedaliero e assessore comunale democristiano a Roma – in precedenza De Gasperi si era affidato a un altro clinico che era, anche lui, un amico, il professor Caronia –, diede motivo di seria preoccupazione. La pressione massima era di 230, la minima di 130: per di più De Gasperi accusava una sete costante. Sorse il sospetto d’una sclerosi renale, confermato da un’analisi del sangue: il tasso di azotemia era dell’1,60, altissimo. Trascriviamo qui, per la sua chiarezza, la spiegazione tecnica della malattia che Andreotti ha dato nelle sue biografie di De Gasperi: «L’azotemia può aumentare anche di molto in condizioni morbose acute: ad esempio durante una nefrite acuta, una malattia infettiva e simili. In questi casi può essere un’alterazione del tutto regredibile… Ma quando nel corso di una sclerosi del rene, senza nessun fenomeno acuto intercorrente, ci si trova di fronte a cifre così elevate [del tasso di azotemia, N.d.A.], si tratta di un verdetto di morte come quello che comporta la diagnosi di un cancro inoperabile».
Dopo un consulto col professor Frugoni, che concordò pienamente sulla diagnosi e sulla prognosi, Borromeo informò De Gasperi, con qualche ricorso alla involuta terminologia scientifica, delle sue condizioni. Per rendersene conto, De Gasperi consultò l’Enciclopedia Treccani alla voce «azotemia»: e decise che la sua attività politica non doveva risentirne, finché fosse stato umanamente possibile. Si prodigò nella campagna per le politiche del 1953, e nei successivi travagli parlamentari e di partito: nonché nei consessi internazionali dove si faceva appello al suo europeismo. Per la «vetrina» De Gasperi era quello di sempre. Poiché erano divenuti leggendari taluni suoi svenimenti ritenuti – per la loro opportunità – diplomatici, vi fu chi non prese troppo sul serio i segni di stanchezza che gli si leggevano sul viso, o che affioravano dal comportamento.
Già abbiamo accennato allo sforzo che De Gasperi s’impose per scrivere, e soprattutto per pronunciare il suo discorso al Congresso della DC. Sperava di rimettersi in forze con il soggiorno estivo a Sella di Valsugana: l’aria della montagna gli era sempre stata di giovamento: superò con un’alzata di spalle i timori di chi avrebbe voluto una villeggiatura non montana per via del cuore. Ma a lui, che era stato un camminatore, costò molto percorrere, a fine luglio, il breve tratto dall’ingresso della stazione Termini al treno.
Erano a salutarlo diversi amici, ma meno, molti meno che ai tempi in cui De Gasperi non era il saggio che consigliava, ma il potente che governava. A Sella non ebbe telescrivente, né segretari, né un gruppo di giornalisti che 1o tallonasse in cerca di notizie. Quasi un pensionato e sicuramente per molti, anche nella DC o soprattutto nella DC, un superato.
Le figlie, un po’ per scherzo, un po’ perché ce n’era bisogno, si offrirono di fargli da collaboratrici, appuntandosi sulle camicette cartellini con le scritte «stenodattilografa specializzata in lingue estere», «segretaria particolare abilissima», «scaccia-visitatori inopportuni». Lo sperimentato tessitore avvertiva insieme il calo delle forze e quello della sua influenza sugli avvenimenti: paziente e indomabile, insisteva nei consigli, nelle pressioni, negli ammonimenti. Aveva fretta di veder assestate situazioni e risolti problemi che lo angosciavano: invece le une e gli altri si andavano complicando. Scriveva a Fanfani per incoraggiarlo a ridare unità ed efficienza ad una DC insidiata dai veleni della disgregazione. «Guai se il tuo sforzo fallisse.» Ma lo sforzo di Fanfani portava anche al monopolio della sua corrente «con il correttivo della Presidenza del Consiglio nazionale affidata a De Gasperi e con l’additivo di Scelba quale Presidente del Consiglio dei Ministri» come scrisse Andreotti. Dunque campana a morto per il notabilato tradizionale della DC, nella quale il solo De Gasperi veniva veramente salvato, come uomo-simbolo. Scriveva al fido Paolo Canali, a Rumor, allo stesso Fanfani per sapere se si potesse salvare la CED, e con Scelba ebbe, a questo proposito, una telefonata dai toni drammatici.
«Questo non è un problema da gioco parlamentare sul quale si possa giungere a compromessi,» si sfogava con le figlie, «è una pietra angolare. Se l’Unione europea non la si fa oggi, la si dovrà fare inevitabilmente tra qualche lustro: ma cosa passerà tra oggi e quel giorno Dio solo lo sa. Se io potessi essere a Bruxelles [l’inizio della riunione di Bruxelles sulla CED coincise, lo si è visto, con la morte di De Gasperi, N.d.A.], sento che anche questa battaglia si spunterebbe. Saprei porre certi responsabili di fronte alla loro coscienza di uomini prima che di politici, e sono certo che non uscirebbero di là, senza aver firmato.» C’era in queste parole un lancinante rammarico d’essere accantonato, di essere malato, d’essere lontano. La CED fu il tema dominante nel suo ultimo documento politico, la già citata lettera che inviò a Fanfani il 14 agosto: «Se le notizie che giungono dalla Francia sono vere, anche solo per metà, ritengo che la causa della CED sia perduta… Che una causa così decisiva e universale sia divenuta oggetto di contrattazione ministeriale proprio fra gruppi democratici e gruppi nazionalisti, che sognano ancora la gloria militare degli imperatori, è veramente spettacolo desolante e di triste presagio per l’avvenire. Tu puoi appena immaginare la mia pena aggravata dal fatto che non ho la forza né la possibilità di alzare la voce, almeno per allontanare dal nostro Paese la corresponsabilità di una simile jattura».
Ancora De Gasperi, pur così alieno dal protagonismo velleitario, lasciava intendere quanto la sua presenza sarebbe stata utile, e quanto la sua assenza togliesse, di prestigio e di convinzione, all’impegno italiano per l’esercito europeo. Poi un rimbrotto alla DC: «Non comprendo perché lo stesso Partito, che pure nel Congresso di Napoli ha definito in modo inequivocabile la nostra visione del problema, non abbia creduto di dire una parola in codeste sue ultime sedute. Certamente avrete avuto delle ragioni tattiche che non conosco e di lontano non posso giudicare».
L’atteggiamento francese era visto da De Gasperi, in questo suo scritto che non voleva ma finì per essere un testamento, con grande lucidità: «La Francia tenta di creare un provvisorio, per trarsi ora dall’imbarazzo ed essere libera domani di mutar fronte… Se le proposte di Mendès-France sono queste, è meglio che l’Italia dichiari senz’altro e subito di non accettarle, e ne avverta preventivamente gli altri contraenti. Forse il ritardo della ratifica, fonte della nostra debolezza, può d’altro canto essere utilizzato per dire che il parlamento italiano non accoglierebbe mai le proposte modificazioni». La conclusione era accorata: «Io non sono purtroppo in grado di recarmi a Roma… Sono molto buio, e spero che forse il mio isolamento mi faccia vedere più nero di ciò che sarà».
Fanfani rispose a giro di posta, dando notizia di un comunicato stampa che la DC aveva diramato il 18 agosto, dopo una riunione della direzione, e che «esprimeva il voto che le conversazioni di Bruxelles conservassero alla CED le caratteristiche fondamentali di strumento capace di preparare le funzioni di una comunità politica dei popoli europei». Quando la spiegazione di Fanfani arrivò a Sella di Valsugana, De Gasperi era già morto: l’avesse avuta in tempo, non ne sarebbe stato consolato. Quel far voto generico e distratto contrastava con il suo linguaggio che, per la CED, era netto, perfino perentorio. L’insistenza vigorosa e generosa d’un De Gasperi cui restava poco tempo per vivere – e lo sapeva – su un tema di alto respiro politico e morale, non su meschine questioni di bottega partitica o di potere personale, diede un’impronta finale, e inequivocabile, alla sua levatura di statista.
La fine di De Gasperi è stata raccontata con accenti toccanti, ma senza sdolcinature, dalla figlia Maria Romana: «Il 18 (agosto) mattina, in seguito a un attacco di cuore, restò a letto tutto il giorno, e a turno gli tenemmo compagnia. A me toccò dopo cena verso le 21. Tutti gli altri erano nel soggiorno al piano di sotto. Improvvisamente ebbe un attacco, lo feci alzare e non ebbi il tempo di chiamare la mamma: volle mettersi in poltrona. In pochi minuti tutto passò. Si riprendeva così bene e così presto che non mi resi conto quale grave pericolo avesse superato. Mia sorella e mio marito andarono con la macchina fino al paese a cercare il dottore… Dissi lentamente: “Le montagne questa sera erano tutte rosa”. Alzò gli occhi pieni di tenerezza e mi rispose: “Non sapevo che mi volessi così bene”. La mia voce mi aveva tradito. Quando il dottor Toller arrivò gli fece un’iniezione e restò a riposare con noi dicendo che avrebbe cominciato una nuova cura il mattino dopo. Andammo tutti a dormire. Alle 2,30 il grido della mamma. “Ragazzi, papà muore.”… La mamma in ginocchio gli teneva una mano: “Ma Alcide, non dici niente!”. Fece ancora per lei lo sforzo di un sorriso mentre la voce chiara di Lia leggeva le preghiere dei moribondi dove lui stesso aveva messo un segno: “…ti venga incontro la splendente schiera degli angeli…”. “Gesù” disse con l’ultimo respiro e finalmente tolsi il mio braccio irrigidito dal peso delle sue spalle e me ne andai a cercare un po’ di buio per il mio pianto».
La notizia piombò come una folgore sull’Italia in ferie, e sulle redazioni turgide di affare Montesi. Suscitò commozione, suscitò una sensazione diffusa e impalpabile di rimorso: per come il Paese, la classe politica, il Partito avevano compensato, sconfiggendolo alle elezioni e giubilandolo dopo le elezioni, il grande ricostruttore e il grande moderatore. Scelba si precipitò a Sella di Valsugana, ed ebbe la cortesia, e il tatto, di invitare a prendere posto sull’aereo anche Giulio Andreotti, che non aveva cariche di governo, ma aveva avuto l’affetto paterno di De Gasperi: affetto ricambiato. «La comunicazione datami dalla Presidenza del Consiglio mi colpì come ho provato soltanto alla morte di mia madre» scrisse Andreotti, e per quanti sospetti abbiamo sulla sua sincerità, in questo caso possiamo credergli senza riserve.
Togliatti inviò un messaggio nel quale riconosceva che l’azione pubblica di De Gasperi si era sempre ispirata alla buona fede e al personale disinteresse. Era molto, da parte di chi aveva avuto con lo scomparso polemiche spinte fino all’insulto. Fu anche tentato, Togliatti, d’intervenire ai funerali, ma poi rinunciò, nel timore che un così solenne omaggio sembrasse eccessivo ai suoi, e agli altri ipocrita o strumentale. In Nenni il generoso sangue romagnolo prevalse sulla ragion politica. Un suo articolo, Il limite di De Gasperi, fu non solo rispettoso ma affettuoso (secondo Nenni stesso l’articolo piacque a Fanfani «il quale non pare affatto impressionato dalla eredità che gli è caduta sulle spalle»). Gli appunti di Nenni sul diario (19, 20, 23 agosto) risentono di un’emozione genuina. «La sorpresa è pari al dolore. Ignoravo che De Gasperi stesse così male. Da un anno era disperato per l’insuccesso della sua politica, non disperato, credo, per ciò che gli toglieva di potere e di onori, ma perché gli eventi lo inducevano a domandarsi se la scelta che aveva fatto nel 1947 era giusta. La crisi della CED deve avergli dato il colpo di grazia. De Gasperi meritava di vivere ancora a lungo. Nel 1947 sbagliò per paura del comunismo, ma sbagliò al servizio di forti convinzioni politiche e religiose. Io ho avuto con lui quattro anni di fiduciosa collaborazione e sei anni di opposizione. Il tratto dominante fu sempre il reciproco rispetto e una vena di sincera reciproca simpatia… Egli aveva il piede sul freno, io sull’acceleratore… Grande è tuttavia la mia mestizia mentre il nome di Alcide De Gasperi s’iscrive tra i morti… Andrò a Roma, ma se il ginocchio, che ancora mi duole, non avesse sconsigliato un lungo viaggio in automobile, avrei preferito rivederlo un’altra volta sul suo letto di morte a Sella di Valsugana… Per decisione del governo egli è sepolto a San Lorenzo. Ma quanto sarebbe stato meglio lasciarlo tra i suoi monti e i suoi boschi, dove per certo aveva sempre pensato di dormire l’ultimo sonno.» Tempo prima Nenni aveva definito la casa di Sella la Rocca delle Caminate di De Gasperi, che s’era molto inquietato: e da Sella aveva mandato ad Andreotti una fotografia della modesta costruzione, pregando di farla pubblicare sui quotidiani, così che le proporzioni – tra Mussolini e lui, tra la Rocca delle Caminate e Sella – fossero ristabilite.
Dopo i funerali privati a Sella, il feretro fu trasportato a Roma per la sepoltura nella basilica di San Lorenzo al Verano, gravemente danneggiata dai bombardamenti del 1943. Così era stato deciso dal governo, e la famiglia consentì. Durante il tragitto in treno, che durò molte ore, si vide quanto De Gasperi, questo scarno italiano così poco «tipico», fosse amato. Folla ovunque, e soste impreviste del treno perché la gente, la gente comune, voleva rendere omaggio all’uomo che se n’era andato con tanta discrezione. I funerali di Stato, nella chiesa del Gesù, accanto alla sede della Democrazia cristiana (era una chiesa dove spesso De Gasperi sostava la mattina per una preghiera), furono imponenti ma meno suggestivi di quelli di Sella, dove i valligiani seri e timidi erano accanto ad ambasciatori e Ministri. Monsignor Montini fu tra coloro che piansero, in chiesa, perché avevano perduto un amico di lunga data. Successivamente la collocazione della tomba provocò qualche problema: una cappellina laterale che si prestava allo scopo era preclusa per reconditi motivi liturgici o canonici. Finalmente fu scelto il portico d’accesso «affidando a Giacomo Manzù di comporre – e lo fece in modo egregio – un monumento che insieme soddisfacesse l’umiltà di De Gasperi e la solennità dell’attestato perenne di riconoscenza nazionale» (Andreotti).
La Democrazia cristiana si appropriò della memoria di De Gasperi. Un’appropriazione politicamente e umanamente ineccepibile, perché De Gasperi fu soprattutto cristiano, e insieme democristiano, fino all’ultimo respiro. Ma l’Italia sentì – anche se presto altri avvenimenti la distrassero – che quel democristiano era d’una specie particolare: un gradino al di sopra e al di fuori degli schemi di partito. Non per caso, ai funerali di Sella, mentre la bara veniva portata a spalle da una calca di volontari in lagrime, «un uomo con i capelli già bianchi, un avversario di parte laica» volle unirsi agli altri, anzi quasi si insinuò a forza sotto la pesante cassa gridando «“De Gasperi è nostro” e lo accompagnò fino alla chiesa dimentico di asciugarsi le lacrime» (nei ricordi di Maria Romana). De Gasperi era di tutti perché, prestato all’Italia, pensava all’Italia prima che alla DC e a se stesso: perché, credente senza turbamenti, sapeva rispettare i dubbi altrui; perché, cattolico fin nelle più intime fibre, conosceva i pericoli e le tentazioni del clericalismo e dell’integralismo, contro i quali s’era battuto associando al governo gli alleati laici; li volle in momenti in cui non erano necessari, ed erano magari fastidiosi.
Era un politico: con le astuzie, i temporeggiamenti, i compromessi e se proprio era indispensabile, le bugie del politico. Ma della politica evitò sempre due rischi: il potere per il potere, e il successo del Partito, o personale, ottenuto sulla pelle del Paese. I suoi errori furono onorevoli. Come le sue sconfitte. Nessuno dei diadochi di De Gasperi ereditò tutte le sue qualità, ve ne furono che non ne ereditarono nemmeno una. Scelba ebbe la sua onestà e il suo senso dello Stato, Fanfani il suo pragmatismo sorretto da una religiosità autentica, Pella la sua dignità, Moro la sua arte del compromesso. Ma nessuno raggiunse la sua completezza. Dopo il politico che era anche statista vennero i politici che, nei casi migliori, erano soltanto politici. Se ne ebbe il primo segno l’anno dopo quando, alle elezioni per la Presidenza della Repubblica, il posto di Luigi Einaudi fu preso da Giovanni Gronchi.