CAPITOLO QUARTO
I PULEDRI DI RAZZA
Nei mesi tra l’estate del 1948 e la primavera del 1949 c’erano stati l’attentato a Togliatti, il piano Marshall, la scissione sindacale, l’adesione italiana al Patto atlantico. Quanto basta, e avanza, per renderli memorabili. Ma oggi, retrospettivamente, il 1948 e il 1949 sono importanti anche per l’emergere, sulla scena politica, di due personaggi che la occuperanno, come protagonisti, durante decenni: i «cavalli di razza» Amintore Fanfani e Aldo Moro.
La DC era dominata da De Gasperi con piglio di mediatore – com’era nel suo temperamento – più che di dittatore: e i notabili provenienti dalle file prefasciste del Partito popolare (Piccioni, Gronchi, Scelba, Jacini, Zoli ecc.) erano ancora influenti, oltre che rispettati. De Gasperi, che aveva la stessa loro radice, li sentiva più vicini alla sua umanità e al suo passato. Antifascista, e con ancora nell’animo le cicatrici degli anni di inattività e di umiliazione, era insieme sospettoso e sdegnoso verso i troppi giovani o quasi giovani intelligenti, ambiziosi, capaci di presentare con abilità piani millenaristici, che nell’acqua fascista avevano nuotato disinvoltamente quando non lietamente, e che ora avevano l’aria di insegnargli cosa dovesse essere fatto, e come. Ma De Gasperi, che aveva capacità e intuito da vero leader, non si lasciava influenzare a lungo dalle idiosincrasie personali.
Nell’interesse del Partito, e se capitava anche del Paese, sapeva riconoscere gli elementi di spicco, e valorizzarli: anche se erano lontani dai suoi principi di liberalcattolico, e portavano nell’azione politica certezze integraliste e visioni messianiche.
La sinistra del Partito stava assumendo una fisionomia precisa, sotto l’impulso di Giuseppe Dossetti: alla cui scuderia erano iscritti, con diversa partecipazione, Fanfani e Moro. Professorini, entrambi. E risoluti a fare della DC qualcosa di assai diverso dal grande aggregato interclassista che De Gasperi aveva saputo creare. O piuttosto si deve dire che De Gasperi aveva fatto della DC, la sua DC, il recipiente capace di accogliere, al momento delle elezioni, Italiani di ogni ceto e di varie tendenze, uniti da un tenue mastice confessionale e, assai più fortemente, dalla convinzione che il voto per la DC garantisse stabilità, sicurezza e libertà. (Mario Missiroli diceva che in Italia avrebbe dovuto esserci un solo partito, la DC: esso comprendeva tutti gli altri.) Per ingenui e sommari che fossero, questi sentimenti avevano procurato lo straordinario consenso del 18 aprile a una DC che faceva molto assegnamento sulla sacrestia, e molto meno sull’ideologia. Non che le sacrestie, i confessionali e le tonache contassero poco per Fanfani e Moro: contavano anzi più che per De Gasperi (Dossetti, spirito integro e troppo alto, forse, per la lotta politica, diventerà sacerdote). Ma l’organizzazione della Chiesa era per De Gasperi uno strumento indispensabile, un vincolo, un limite a volte ingombrante: per Fanfani e Moro era il supporto operativo d’una dottrina politica e sociale. Nella sinistra cristiana la sottolineatura clericale e la sottolineatura progressista andavano a scapito dell’impronta liberale. Questo, De Gasperi lo sentiva: ma sentiva egualmente che quei poulains tanto cari alla gerarchia cattolica gli erano fastidiosamente indispensabili.
Nel governo uscito dal trionfo del 18 aprile Fanfani era ministro del Lavoro, Moro sottosegretario agli Esteri, con l’incarico di sovrintendere ai problemi dell’emigrazione sotto l’esperta e altezzosa guida del ministro Carlo Sforza. Amintore Fanfani aveva compiuto da poco i quarant’anni, era nato il 6 febbraio 1908 a Pieve Santo Stefano, fra i monti dell’Alto Tevere, a Nord di Arezzo. Il padre era avvocato, e l’aveva battezzato con il nome piuttosto inconsueto d’un amico, autore d’un inno socialista: Amintore. La famiglia era numerosa e non ricca, il ragazzo non cresceva molto, ma in compenso era parecchio sveglio, generoso, ciarliero, prepotente. La sua fede fu precoce, e manifestata – caratteristica questa che conserverà sempre – nella pratica quotidiana. Giovinetto, Amintore si prodigava per i poveri, con l’abnegazione e insieme la rassegnazione a una volontà superiore che è tipica della misericordia cattolica.
Fattosi giovanotto, atticciato e bassino, Fanfani studiò alla Cattolica di Milano dove si laureò in scienze economiche nel 1930. Due anni dopo era libero docente, sei anni dopo andava in cattedra, non ancora trentenne, per insegnare storia dell’economia. Nel 1939 prese moglie: Bianca Rosa Pravasoli, figlia d’un costruttore lombardo. Tra queste date sta racchiusa la frenetica attività d’un professorino saldamente inserito nell’ambiente cattolico che ruotava attorno a padre Gemelli, fondatore e rettore della Cattolica; un professorino prolifico di libri, articoli, recensioni, partecipazioni a simposi e corsi estivi di lezioni. Un biografo di Fanfani, Piero Ottone, riferisce che alla Cattolica avevano coniato per lui un caustico motto latino: Tantillus homo quantum rumorem facit. Non è necessario tradurre, crediamo. Più tardi vi sarà chi, riecheggiando una frase del repertorio fascista, lo definirà «il motorino del secolo».
I saggi economici di Fanfani (Storia delle dottrine economiche e Protestantesimo e cattolicesimo nella formazione del capitalismo in particolare) erano il riflesso dell’ambiente culturale nel quale si muoveva. Rifiuto del liberismo puro, rifiuto del concetto protestante secondo il quale la ricchezza – e i modi in cui viene conseguita – non sono in contrasto con l’insegnamento cristiano, rifiuto del marxismo. E il riconoscimento d’un nesso doveroso – per il cristiano – tra princìpi economici e princìpi morali. Dunque una via diversa sia dal liberismo, sia dalla riforma protestante, sia dal marxismo. La scelta di Fanfani, e della scuola che lo aveva ispirato, era più convincente nelle negazioni che nelle affermazioni. Robusti gli argomenti contro le teorie che venivano respinte, e che la realtà – si trattasse dei fallimenti economici sovietici per il marxismo o della crisi del 1929 per il capitalismo – aveva fortemente indebolito. Meno persuasiva la linea che veniva indicata. In effetti Fanfani, quali che siano stati e siano gli entusiasmi dei suoi adulatori, non era allora e non fu mai dopo d’allora un pensatore astratto. Fu un pragmatico, un uomo d’azione. Con gl’impeti, le astuzie e le imprudenze dell’uomo d’azione. Ebbe qualche simpatia per il corporativismo fascista, che pretendeva d’affondare le sue radici nel Medio Evo, prediletto dai cattolici per l’afflato religioso che vi spirava. L’antifascismo intransigente gli rimproverò talune concessioni apologetiche verso il fascismo. A Santander – prima che scoppiasse la guerra civile spagnola – disse durante una lezione che «lo Stato corporativo ha per meta la più alta giustizia sociale e il massimo di benessere e di potenza morale e materiale della Nazione italiana». Dopo la campagna d’Etiopia rese merito a Benito Mussolini per la «preveggente preparazione di forze nuove» e per aver dato «all’interno pace politica, sociale, religiosa»; all’estero «il più forte amor di Patria e in ogni straniero ammirazione e rispetto per l’Italia nuova, conquistatrice di ogni primato nella lotta per la civiltà». Peccati veniali di gioventù e d’ambizione.
Questo Fanfani a valvole in testa, incapace di star quieto e incapace di star zitto, trovò l’uomo che seppe incanalare le sue grandi energie in Giuseppe Dossetti, professore incaricato di diritto ecclesiastico alla Cattolica: integro, religioso, mosso alla politica – dalla quale fu poi disgustato – dalla visione d’un mondo pacifico e giusto, guidato dalla parola di Dio. Dossetti era la versione austera di quello stesso disinteressato e nobile integralismo cattolico che aveva in Giorgio La Pira la sua versione giullaresca. Siciliano trapiantato a Firenze, La Pira era, o poteva sembrare, più una macchietta che un maestro di vita. Il suo antifascismo era stato tuttavia senza tentennamenti. Quando la Polonia fu invasa e spartita lamentò «l’assassinio di un’intera Nazione» ad opera di due Stati non cristiani, l’hitleriano e lo staliniano.
Richiamato alle armi e assegnato, nel 1943 a Milano, ad una mansione stupida e comica – il controllo retrospettivo delle forniture belliche per la guerra d’Etiopia –, Fanfani si rifugiò, dopo l’armistizio, in Svizzera. Quando rimpatriò non sapeva bene cosa il destino gli riservasse, ma sapeva che ciò che gli riservava, lui lo voleva fortissimamente. Ebbe fortuna. Dossetti fu nominato vicesegretario della DC, e si circondò di persone, anzi di personalità, che conosceva e in cui aveva fiducia. Fanfani era del numero.
Si formò così a Roma la comunità detta «del porcellino», in cui la sinistra cristiana, che in Dossetti aveva un capo carismatico, cominciò ad avere anche uno stato maggiore. Quanto al porcellino, viene riferito che il nome fu adottato perché una professoressa Bianchini di Brescia che era del gruppo – e che anzi ne aveva scovato la sede – si lasciava scappare qualche «porco qui» e «porco là». Tanto che Fanfani, non solo pittore ma anche poeta a tempo perso, le dedicò quando già era diventato Ministro del Lavoro questa invero modesta quartina:
Lazzati Dossetti Gotelli Bianchini furono a Roma… da porcellini. In eterna memoria di loro eresse… il Ministro del Lavoro.
Così, nel 1947, Fanfani fu Ministro, e La Pira gli fece da sottosegretario. (Lo strano è che in precedenza la carica di Ministro era stata offerta allo stesso La Pira, che aveva rifiutato: e che invece accettò di essere in subordine a Fanfani, ignaro, quest’ultimo, sia della pregressa offerta, sia del rifiuto.)
Quando l’Italia fu messa a soqquadro dall’attentato a Togliatti, e De Gasperi – che per i dossettiani non aveva gran simpatia – era in cerca di diversivi pacificatori, Fanfani avviò a tambur battente un suo piano per la costruzione di alloggi popolari. Il bello – o il brutto – è che De Gasperi vedeva probabilmente nel progetto soltanto un espediente. Fanfani, che invece l’aveva preso sul serio, si lamentò perché l’iter parlamentare della legge procedeva a rilento. De Gasperi si stupì. «Pensi sempre al tuo piano?» gli chiese. E forse ancora più stupito fu che quel piano fosse dei pochi che giunsero bene o male in porto.
Se Fanfani fu prezioso a De Gasperi in un momento critico, Aldo Moro, in un altro momento critico, lo mise in collera. Durante la discussione sul Patto atlantico, Giuseppe Dossetti aveva pronunciato un discorso che prendeva le distanze dalla linea governativa; e che era fitto di dati i quali – secondo De Gasperi – potevano provenire soltanto dal Ministero degli Esteri. Chi li aveva passati a Dossetti? Non certo Sforza che era, umanamente e culturalmente, l’antitesi del casto e mistico Dossetti. Ergo Aldo Moro, il sottosegretario dossettiano. Cui De Gasperi tenne il broncio: e quando Moro uscì dal governo non ve lo fece mai più rientrare.
Aldo Moro, classe 1916 – sottosegretario, dunque, a soli trentadue anni – era nato a Maglie, in provincia di Lecce, da genitori entrambi insegnanti. La famiglia si trasferì prima a Taranto e quindi a Bari dove il ragazzo ebbe la sua formazione culturale e morale. Due qualità dimostrò subito in modo spiccato: la religiosità – spinta fino al bigottismo – e una capacità straordinaria di applicazione allo studio. A tutti i livelli scolastici ebbe splendidi voti. I suoi compagni lo ricordano come un ragazzo gentile, distaccato, scettico, che non rifiutava mai ai compagni somari il suo aiuto, dato senza farlo pesare. Sottile, un po’ molle, malinconico, apparentemente timido, tenace e ambizioso, si fece notare presto. Entrato in università (facoltà di legge) si affiliò al GUF, l’organizzazione universitaria fascista, e alla FUCI, l’organizzazione universitaria dei cattolici: due universi giovanili tra i quali s’erano avuti momenti di aspra battaglia, ma che negli anni della guerra d’Etiopia e del massimo consenso al fascismo convivevano, e spesso collaboravano. Infatti Moro «cresceva» nel suo GUF, che rappresentò più volte ai Littoriali, e «cresceva» nella FUCI barese, della quale assunse la presidenza nel 1937, in attesa di diventarne – il che accadde presto – il presidente nazionale. Difensori d’ufficio di Moro affermarono, quando i missini nel 1960 lo presero di petto come voltagabbana, che l’iscrizione al GUF e la partecipazione ai Littoriali erano obbligatorie. Non è vero. Ma è vero che lo diventavano, in qualche modo, per chi come Moro sentisse, sotto quella sua superficie d’acqua cheta, una gran smania d’arrivare. Le pubblicazioni giuridiche di Moro – che, presa la laurea nel 1938, ebbe in piena guerra la libera docenza di diritto penale e poi l’incarico di filosofia del diritto – sono migliori, secondo gli esperti, delle pubblicazioni economiche di Fanfani. Meno caduche, meno frettolose, meno legate al momento.
Per gli universitari del 1916 – che la bizzarria burocratica volle privilegiare rispetto a quelli tartassati del 1921, volontari con cartolina precetto – la chiamata alle armi venne tardi: e quando venne, Moro non rispose con entusiasmo. I cavalli di razza democristiani correvano a tutto galoppo verso le glorie della Roma ministeriale, non verso le glorie del fronte. Si ha la sensazione, dalle loro biografie, che la guerra gli scorresse accanto, senza investirli. Così Moro fu – sempre a due passi da casa – prima sergente presso il Tribunale militare, poi ufficiale – col grado di capitano, che carriera anche lì! – del commissariato aeronautico dove fu destinato all’ufficio disciplina. Gli impegni militari gli fecero lasciare la presidenza della FUCI nazionale che passò a un altro vispo puledro di razza anche lui, Giulio Andreotti.
Dopo la tragedia dell’8 settembre Moro si faceva spesso vedere all’EIAR di Bari, per avere informazioni. Annibale del Mare lo ha ricordato in questi termini: «Quasi ogni giorno, intorno alle 17, veniva a farci visita… Sempre elegante nella sua divisa nuova di capitano d’aviazione (talvolta vestiva anche quella bianca estiva)… Scorreva i nostri bollettini di intercettazione telefonica e commentava con noi gli avvenimenti… Quasi ogni mattina, quando mi soffermavo nella cappella adiacente all’università, mi capitava di incontrarlo e lo trovavo assorto nel seguire la messa e nel ricevere la comunione». Il matrimonio fu coerente con il suo stile di vita. Noretta Chiavarelli, la prescelta, aveva il merito d’essere «seria e fortemente caratterizzata dalla fede» e di frequentare anche lei gli ambienti dell’Azione Cattolica.
Consolato della perduta presidenza della FUCI con quella, non meno prestigiosa e più duratura, di presidente dei laureati cattolici, Moro aveva allora fama di moderato. Tra monarchia e repubblica, sapendo quali fossero gli umori dell’elettorato pugliese – secondo solo alla Campania, il 2 giugno 1946, nella opzione sabauda –, non si pronunciava Teneva comizi tra maree di bandiere con lo stemma dei Savoia. Poi professava simpatie di sinistra. Era incerto. Corse voce, allora, d’un suo tentativo d’entrare nel Partito socialista. Italo Pietra nel suo Moro, fu vera gloria? ha indugiato su questo episodio, dal leader democristiano sempre smentito come calunnioso. Comunque Moro fu candidato democristiano per la Costituente, e rastrellò, alla sua maniera soave, ventisettemila preferenze: forte delle quali, trentenne, approdò definitivamente a Roma: e, nella Costituente, ebbe un posto nella commissione dei settantacinque, quella che elaborava le proposte di articoli e poi le passava all’assemblea plenaria. È stata attribuita a lui la formulazione del principio di «repubblica fondata sul lavoro» con cui esordisce la Costituzione. Nilde Iotti ha ricordato che Togliatti fu impressionato dagl’interventi di Moro: i quali dovevano essere musica comprensibile per l’orecchio d’un incallito cremlinologo abituato ai sottintesi e alle sfumature, alla forma ovattata che nasconde la sostanza dura. Questo saper teorizzare più che fare, questa presbiopia politica, che faceva vedere nitidamente traguardi remoti, e in maniera confusa esigenze impellenti e attuali, erano fatti apposta per piacere ai più dottrinari tra i dossettiani, su cui Moro infatti fece colpo. E si unì al gruppo nonostante i precedenti non progressisti e l’agnosticismo su molti temi incalzanti, tranne uno: la necessità di una presenza costante della fede nell’azione politica.
Il Moro di quel tempo era d’una onestà personale rimasta leggendaria. Antonio Rossano, un giornalista pugliese che ne L’altro Moro ha dato un’immagine non convenzionale, e ricavata da esperienze personali, del leader ucciso dai brigatisti, rievoca questo episodio. Trasferitosi a Roma, il professor Aldo Moro andò al Commissariato per le requisizioni degli alloggi di Bari e disse che l’abitazione a suo tempo concessagli non gli serviva più. «L’impiegato non fiata. S’alza di scatto e corre negli uffici della direzione dal commissario, generale Ferraro: “Generale, venga fuori lei. C’è un provocatore, dice che vuole lasciare la casa che gli avevamo assegnato”.»
Il giovane professore e parlamentare aveva ancora qualche indecisione sul suo avvenire, era tentato dalla professione di avvocato, però capiva che gli mancava la grinta necessaria per presentare parcelle salate. Le elezioni del 18 aprile 1948 dissolsero ogni dubbio. I quasi settantamila voti di preferenza di Moro furono un piccolo trionfo personale nel grande trionfo del Partito. Erano voti caduti dal cielo: nel senso che li aveva fortemente agevolati il Clero con una campagna insistente per quel cattolico esemplare, rassicurante, cortese, benevolo, fedele alla sua terra. Anche l’arcivescovo di Bari Marcello Mimmi s’era impegnato a fondo per la buona riuscita del suo protetto: che fu sottosegretario agli Esteri in un settore – quello dell’emigrazione – che a un Fanfani avrebbe servito su un piatto d’argento l’occasione agognata per far valere le sue capacità organizzative e la sua instancabilità motoria, ma che per Moro era troppo poco adatto a teorizzare, tessere, discettare con infinita pazienza. Il «dottor Divago» non si sentì a suo agio.
Il nodo dell’emigrazione era importante, e dava esca a polemiche. Monsignor Baldelli, a nome della Pontificia commissione di assistenza, insisteva perché si desse impulso a questa valvola sociale, e sosteneva che i maggiori ostacoli erano frapposti dal Ministero del Lavoro – l’emigrazione aveva doppia dipendenza, dagli Esteri e dal Lavoro – rimasto un feudo socialista, anche se il Ministro era Fanfani. Forse questa dietrologia era infondata: secondo l’opinione di Stefano Jacini i due Ministeri procedevano, sulla questione, parallelamente, e come le parallele, non s’incontravano mai. Moro, che inventerà solo molto più tardi le convergenze parallele, leggeva molti rapporti di ambasciatori, sapeva tutto e non faceva nulla. Non per questo, s’è accennato, De Gasperi s’impermalì. Ci fu il sospetto per l’intervento dossettiano. Ma ci fu anche dell’altro. Ci occuperemo più tardi del no opposto dai democristiani che si riconoscevano in «Cronache sociali» – la rivista sulla quale comparivano articoli di don Mazzolari – all’ingresso nel sesto governo De Gasperi. E Moro fu del numero. Ma Italo Pietra crede probabile che «anche prima di quell’episodio [la discussione sul Patto atlantico] De Gasperi avesse un’ombra di perplessità verso Moro, così come verso Fanfani, per via della tessera fascista. Fanfani affascinò il Presidente con l’attivismo, con l’abilità organizzativa, con la ricchezza di stupende immagini nel modo di esporre i problemi. Risorse di quel genere, Moro ne aveva ben poche».