CAPITOLO SETTIMO

IL MODULO VANONI

Il 3 aprile 1951 De Gasperi compì settant’anni. Per l’occasione la DC gli fece dono d’una villetta sul lago di Castelgandolfo, accanto ai giardini della residenza papale. Così, dopo aver più volte trascorso periodi di riposo da quelle parti, ospite della casa di un amico, lo statista trentino ebbe finalmente un buen retiro tutto suo. Ne fu felice, come un fanciullo, ha annotato Andreotti. «Due ettari: speriamo che Segni non me li tolga», diceva, e volto a Gonella incalzava: «Confido che il Partito non mi lasci le cambiali da pagare». Da quel punto di vista tutto era a posto, il conto saldato.

Ma De Gasperi era sovraccarico di cambiali politiche che la DC, balena epilettica, gli presentava quotidianamente. Il mese prima Andreotti aveva visto De Gasperi piangere (era la seconda volta, ma nel caso precedente s’era trattato di lacrime d’emozione e di commozione per l’estromissione dei comunisti e dei socialisti dal governo): adesso erano invece lacrime di dolore e di rabbia, per le difficoltà che le guerriglie di corrente gli provocavano. Si agitavano sempre più fieramente i dossettiani, o almeno la loro ala intransigente: e si agitavano, da destra, i cosiddetti vespisti del notabile meridionale Carmine de Martino. De Gasperi non aveva requie. E dalla Santa Sede gli venivano a volte negati segnali consolatori. Il governo sovietico gli fece pervenire per i settant’anni i suoi auguri, Pio XII tacque. È vero che De Gasperi ricevette una lettera affettuosa di monsignor Montini, accompagnata da un libro. Ma gli parve non bastasse. Sondò discretamente le penombre vaticane, e gli fu risposto che al di là del portone di bronzo, dove le cose sono viste sub specie aeternitatis, i suoi settant’anni non erano motivo di particolare celebrazione.

Erano alle viste le elezioni comunali, che si svolgevano in due turni (27 maggio e 10 giugno) con la regola dell’apparentamento, che consentiva aggregazioni di forze: ed erano pure alle viste le regionali siciliane (3 giugno). La DC e i suoi alleati andavano verso l’appuntamento in un ribollire di polemiche. I socialisti, e soprattutto i comunisti, speravano che l’imminente appuntamento dimostrasse quanto la fiammata democristiana del 18 aprile 1948 fosse stata eccezionale, il prodotto di circostanze irripetibili. I comunisti s’erano rimessi al lavoro con tenacia, e con una capacità non compromessa di penetrazione capillare. Attizzavano tutte le proteste, fondate o no.

Ma li impacciava la catena sovietica, che era pesante, e stretta. In gennaio, quando il generale Eisenhower era venuto in Italia come comandante della NATO per una visita ufficiale, il PCI e la CGIL avevano promosso manifestazioni degenerate in violenze, con morti a Comacchio, a Piana dei Greci, ad Adrano. Furono presi provvedimenti severi contro amministratori locali di sinistra che avevano istigato alle esagitate manifestazioni. Togliatti rimaneva il portavoce di Stalin; il suo rapporto al settimo Congresso nazionale del PCI, che si tenne a Roma dal 3 all’8 aprile 1951, ammannì a una platea ubbidiente e plaudente un’ennesima esaltazione del paradiso «socialista». Non solo nell’URSS, ma nei «satelliti».

Disse Togliatti: «Essi hanno compiuto tutti tali progressi economici che non possono che sembrare meravigliosi a noi Italiani, che invano andiamo cercando prove di miglioramento nelle statistiche spesso falsificate che ci forniscono i nostri organismi governativi». Unica nota dolente, il passaggio di Tito nel «campo degli imperialisti», ma la vigilanza rivoluzionaria dopo d’allora era stata vigorosa «come hanno dimostrato i processi dei traditori Rajk e Kostov, come dimostrano le recenti energiche misure del partito cecoslovacco per smascherare e punire i provocatori e le spie che erano riusciti a penetrare nelle file del nostro movimento». Qualcuno sollevava dubbi sulla rispondenza di quei regimi a criteri di democrazia, ma Togliatti ebbe la risposta pronta: «Non vi possono essere partiti di capitalisti là dove il capitalismo non esiste più. Vi possono essere ancora degli speculatori, degli agenti dello straniero, dei traditori dell’interesse comune, ma contro di essi viene condotta la lotta che deve essere condotta». Questo linguaggio da «voce del padrone» era tuttavia integrato e corretto, nell’azione quotidiana, da uno sfruttamento accorto delle frustrazioni e delusioni di massa: frustrazioni e delusioni inevitabili, in un’Italia lanciata nella gara al miracolo, che premiava i forti, gli spregiudicati, gli intraprendenti e magari gli impudenti, e sacrificava i deboli.

Le amministrative interessarono solo una parte dell’elettorato – dieci milioni di iscritti alle urne – perché in altri comuni e province si votò un anno dopo. Fu interessata alla consultazione soprattutto l’Italia settentrionale, con le sue grandi città, ed apparve evidente che la valanga del 18 aprile 1948 era, per la DC e i suoi alleati, davvero irripetibile. Alla DC toccò circa il 40 per cento dei voti, contro il 37 delle sinistre collegate: ma nell’ambito della coalizione socialcomunista restò consolidato un rapporto di forze che, da allora in poi, non sarebbe più cambiato, o sarebbe cambiato solo a danno del PSI. I comunisti ebbero peso doppio, o quasi, rispetto ai socialisti. La defezione di Aldo Cucchi e Valdo Magnani – due esponenti a quel tempo di rilievo nel PCI – non danneggiò un partito il cui zoccolo duro diede prova di poter tenere di fronte a qualsiasi emergenza, e di poter via via aggregare fasce di malcontenti e di incerti. La DC era stata anemizzata dalla concorrenza della destra monarchica e missina: un fenomeno inquietante, che in questa tornata amministrativa fu apprezzabile ma non clamoroso: e che avrebbe assunto le caratteristiche – aritmetiche e sociali – d’una svolta quando, un anno dopo, sarebbe stato chiamato alle urne il Sud. Il Movimento sociale, diagnosticò Andreotti, «aveva impostato con una certa disinvoltura la sua propaganda sulla perdita delle colonie e di Trieste: tasti che toccavano le fibre più intime del sentimento nazionale e verso i quali ogni ragionamento sereno e esatto era destinato a sfigurare».

Il governo aveva bisogno di essere rimaneggiato, e la DC aveva bisogno d’una sorsata di tonico. Ma ai suoi vertici si scontravano i fautori d’un monetarismo austero, capeggiati da Pella, Ministro del Tesoro, che era a sua volta l’interprete della linea di rigore voluta dal Presidente della Repubblica Einaudi, e i keynesiani, se vogliamo usare un termine venuto in voga successivamente, alla Vanoni e alla Gronchi. Il dissenso è di quelli che riappaiono in ogni gestione economica: ed è in qualche modo ineliminabile, allo stesso modo della dialettica scudo-spada tra i tecnici militari. Se Pella era preso di mira per l’economia, l’«esterno» Carlo Sforza, sempre più scettico, saggio, e ormai molto malandato in salute, era in sospetto presso i democristiani di sinistra con tendenze terzomondiste per la sua accentuata e aristocratica ortodossia atlantica ed europeista. Da destra si sparava invece contro Segni, titolare dell’Agricoltura. I gruppi parlamentari democristiani si diedero a discutere dei cambiamenti e della loro misura: e andò a finire che, derivasse questo dalla volontà di nuovi indirizzi o dagli appetiti di poltrone, venne chiesta la sostituzione d’una buona metà dei Ministri.

Qualcuno avanzò la proposta che De Gasperi abbandonasse per un annetto la guida del governo lasciandone la responsabilità a un suo fedele ascaro: alla maniera di Giolitti. Ma De Gasperi non ci sentì da quell’orecchio: un po’ perché questi espedienti erano estranei alla sua mentalità, un po’, probabilmente, perché conosceva i suoi polli e immaginava che se qualcun altro si fosse sistemato sulla poltrona di Capo del governo, sarebbe stato difficile schiodarlo di là con le buone. A un certo punto la situazione divenne insostenibile perché, nel direttivo dei deputati democristiani, Gronchi aveva attaccato duramente Pella, e a maggioranza era stata chiesta la sua (di Pella) rimozione. Il Ministro del Tesoro che era a Milano – appena rientrato da Parigi – attese la chiusura delle borse, e poi spedì un telegramma di dimissioni. De Gasperi fu solidale con Pella. Nessuno, dichiarò, «può portarmi via la lealtà e la cavalleria», e il 16 luglio aprì la crisi, risolvendola in pochi giorni con tocchi e ritocchi da maestro degli equilibri. I quali equilibri, per l’occasione, riguardarono soprattutto la DC, anche se i socialdemocratici furono lasciati per strada. Cosicché il precedente tripartito divenne un bipartito DC-PRI. De Gasperi tenne per sé, oltre alla Presidenza del Consiglio, anche gli Esteri, destinando Sforza all’onorifico ma non fondamentale ruolo di Ministro incaricato per gli Affari europei. Attilio Piccioni, che era alla Giustizia, fu promosso vicepresidente del Consiglio (alla Giustizia andò Adone Zoli). Pella lasciò il Tesoro, ma per occuparsi del Bilancio, un Ministero del quale erano state ampliate le competenze. Vanoni rimase alle Finanze, e per di più si prese l’interim del Tesoro. Segni fu trasferito all’Istruzione pubblica, e l’Agricoltura fu affidata al ripescato Amintore Fanfani. A De Gasperi stava molto a cuore di riavere vicino questo dossettiano ambizioso: per utilizzarne le capacità, e anche, forse, per controllarlo.

Le prime informazioni su Fanfani che Giuseppe Lazzati, incaricato di scovarlo, aveva avuto, lo davano in ferie ai bagni di Marina di Grosseto. Invece era tra i minatori dell’Amiata, a chiacchierare e a pontificare. Portato di peso a Roma, Fanfani disse subito di sì. L’applicazione della riforma agraria era un compito che l’incantava: qualcosa di difficile, ma anche di concreto. Dossetti era contro la riforma, che considerava cattiva (e aveva ragione). Per sua volontà era stato preparato un numero di «Cronache sociali» che metteva spietatamente in risalto tutte le pecche del progetto. Fanfani ottenne che la pubblicazione non vedesse la luce. Ma i rapporti tra lui e il maestro s’erano guastati: con malinconia e con sofferenza di entrambi. Rassegnato ormai al fallimento della sua azione o utopia politica, Dossetti riunì una trentina di amici nel castello di Rossena, sull’Appennino emiliano, per annunciare che tornava agli studi prediletti. Ribadì il proposito a Roma: e Fanfani, ormai Ministro, che era presente, gli disse: «Devi però permettere a chi se la sente di continuare la lotta». Dossetti permise, e chi se la sentiva fondò più tardi la corrente democristiana di Iniziativa democratica.

Con due dicasteri in pugno, Vanoni, il protettore di Mattei, l’amico dei dossettiani, era uno dei pilastri della politica economica di De Gasperi: l’altro rimaneva Pella. Ma la popolarità – o impopolarità – di Vanoni gli derivò soprattutto dalla riforma fiscale che varò nell’autunno del 1951 e che prese il suo nome. S’è già accennato a talune caratteristiche di questo «democristiano moderno», come lo definivano i suoi ammiratori. Ma converrà dedicare qualche altra riga alla sua biografia. Vanoni aveva allora quarantotto anni. Nato a Morbegno, in Valtellina, aveva una mentalità «svizzera». Forse anche per questo piaceva molto a De Gasperi, il trentino prestato all’Italia. S’era laureato in economia nel famoso collegio Ghislieri di Pavia, creato da Pio V per aiutare gli studenti poveri (ebbe uno dei sei posti a disposizione, e si classificò primo, su centinaia di aspiranti). Nutriva da giovane sentimenti socialisti, e dopo l’assassinio di Matteotti fu eletto a rappresentare gli universitari antifascisti. Ma il regime mussoliniano, lo sappiamo, aveva il rancore breve. Vanoni era molto apprezzato dal professor Griziotti, che a Pavia insegnava scienza delle finanze, e propugnava una tassazione più equa. Griziotti a sua volta lo presentò a Einaudi che gli fece ottenere una borsa di studio in Germania. Da borghese assennato e valtellinese fedele sposò la figlia dell’esattore comunale di Morbegno, e intanto seguì la carriera universitaria. A Roma conobbe Guido Gonella, che aveva un ufficio nella sede dell’«Osservatore Romano». Lì, un giorno, Vanoni vide un oscuro bibliotecario del Vaticano, Alcide De Gasperi. I due s’intesero. Vanoni era diventato un cattolico socialisteggiante, ma De Gasperi, un liberalcattolico che di economia non capiva nulla, apprezzava in lui soprattutto il tecnico. Così, caduto il fascismo – e dopo che Vanoni aveva avuto incarichi anche in Francia e negli Stati Uniti – il valtellinese che sapeva di finanza entrò nella stretta cerchia di collaboratori dello statista trentino.

Mentre si faceva le ossa nel Ministero del Commercio estero, pensò subito a un riforma fiscale che sostituisse in larga parte l’imposizione diretta – quella che colpisce i redditi «alla fonte» – all’imposizione indiretta che colpisce i consumi, e dunque grava in eguale misura su ricchi e poveri. Diceva: «Bisogna perequare il sistema tributario, per dare modo ai cittadini onesti di dormire la notte». Così nacque il famoso e famigerato «modulo» Vanoni, con la dichiarazione personale dei redditi. La prima denuncia fiscale del «nuovo corso» scattò il 10 ottobre del 1951, l’altra il 31 marzo del 1952. Secondo il Ministro delle Finanze l’operazione era riuscita «perché i redditi più bassi sono stati agevolati e malgrado questo il gettito è aumentato».

Il sistema, nella sostanza, non cambiò più. Come tante altre riforme italiane, anche questa non conseguì gli scopi che si proponeva. È vero, gl’Italiani pagarono le tasse più di quanto avvenisse in precedenza. Ma le pagarono soprattutto i cittadini a reddito fisso, che non potevano sottrarsi agli accertamenti, o subivano i prelievi alla fonte. Continuarono a sfuggire ai controlli i redditi non da lavoro dipendente, o non comprovati da documenti inoppugnabili. La corruzione non fu stroncata, le evasioni rimasero. I cittadini a reddito fisso continuarono a pagare le imposte indirette, e pagarono anche le dirette. Gli altri si arrangiarono, il più delle volte felicemente. La parziale sconfitta del sistema non fu colpa di Vanoni, che senza dubbio introdusse criteri di maggiore modernità e giustizia. Ma l’Italia, certa Italia in particolare, non è la Svizzera. Il fisco prelevò sempre più, comunque, e lo Stato erogò servizi sempre più inadeguati alle somme che rastrellava. Questo andamento a forbice – tasse crescenti, servizi progressivamente scadenti – ha caratterizzato i decenni successivi. È sicuro che la riforma Vanoni non giovò elettoralmente, alla Democrazia cristiana. A Vanoni mancò il tempo di costatare l’inanità di molte sue speranze. Morì nel 1956.

Questa cronaca delle vicende che portarono alla formazione del settimo governo De Gasperi dev’essere completata con un’annotazione riguardante Enrico De Nicola, personaggio delle cui entrate e uscite dalla scena è difficile tenere il conto. All’alba del 20 aprile era spirato Ivanoe Bonomi, presidente del Senato. Se n’era andato con lui uno dei quattro grandi vecchi del prefascismo (gli altri erano Orlando, Croce e Nitti). Tra i quattro, Bonomi era il più scialbo, il meno bizzoso, il meno malato di protagonismo. Aveva ricoperto con dignità, in un momento straordinariamente ingrato, la carica di primo Presidente del Consiglio «civile», ed espresso dal CLN, dopo la fase di transizione di Badoglio. De Gasperi lo rimpianse sinceramente: a un cattolico come lui, un laico come Bonomi andava benissimo.

La scomparsa di Bonomi rese vacante una poltrona politica di rilievo. Si trattava di riempirla. Vennero fatti i nomi di Casati, di Sforza, di Gasparotto, ma poi qualcuno pensò a De Nicola: che era in sdegnoso autoesilio, che aveva solennemente giurato di non rivestire mai più cariche pubbliche, ma che appunto per questo era probabile attendesse l’invito a occuparne una, purché adeguata alla dignità d’un ex Capo dello Stato. De Gasperi, che aveva preso alquanto in uggia De Nicola, accettò infine di vederlo insediato a Palazzo Madama come presidente del Senato.

Ma c’erano due scogli: il primo stava nel fatto che le sinistre avevano riversato i loro suffragi su De Nicola, in contrapposizione a Einaudi, allorché quest’ultimo era stato eletto Presidente della Repubblica; il secondo era che De Nicola pretendeva sempre d’essere invocato all’unanimità, e la DC non voleva che la sua designazione fosse confusa con quella degli oppositori socialcomunisti. L’italico genio escogitò le soluzioni: e Andreotti le ha così riassunte in De Gasperi e il suo tempo: «Fu facile obiettare [per la precedente contrapposizione a Einaudi, N.d.A.] che si era trattato di una manifestazione politica in cui il nome di De Nicola era stato quasi usurpato e comunque certo non usato con il suo consenso. La maggioranza pregò De Nicola di accettare la candidatura che essa gli offriva, senza chiedere pregiudizialmente l’unanimità, perché ciò avrebbe significato dichiarare necessario il consenso dell’estrema “che è avversaria accanitamente totalitaria della maggioranza accusata, in parlamento e nel Paese, di esser fuori dalla Costituzione e di non rappresentare il parlamento”. Questa formula, stilata da De Gasperi, fu presentata a Napoli al senatore De Nicola dai senatori democristiani Cingolani, Magliano, Jannuzzi e Tafuri. De Nicola l’accettò».

La rentrée di De Nicola fu trionfale, e salutata con applausi anche dai socialcomunisti: un idillio che durò poco. Il 30 luglio, mentre De Gasperi esponeva in Senato le linee programmatiche del suo settimo Ministero, i comunisti rumoreggiarono e si esibirono in interruzioni e invettive. De Nicola li esortò alla calma, e per tutta risposta uno di loro, pare Li Causi, rinfacciò al nuovo presidente del Senato d’aver consentito, come presidente della Camera, che Mussolini pronunciasse il discorso del 3 gennaio 1925 con cui annunciava in sostanza l’instaurazione della dittatura. Il riferimento storico era inesatto oltre che offensivo, perché nel 1925 De Nicola era già stato sostituito, alla presidenza di Montecitorio, da Alfredo Rocco. De Nicola perse la pazienza: «Basta! Continuino pure se vogliono, io conosco qual è il mio dovere e saprò compierlo. Ma è veramente penoso che mentre tanto si è lavorato e mentre tanto si lavora per accrescere il prestigio di questa assemblea si dia invece al Paese così triste esempio di intolleranza politica». Il seguito non poteva essere che uno: le dimissioni di De Nicola, che corrucciato partì per la sua villa di Torre del Greco, inseguito da appelli insistenti di tutti e dagli atti di contrizione dei comunisti. De Gasperi, non si sa con quanto entusiasmo e sincerità, si associò all’omaggio generale, augurandosi che «il prestigio del Senato venga, anche di qui innanzi, salvaguardato dalla indiscussa autorità del suo degnissimo presidente». Il fuggiasco si lasciò finalmente convincere. Ma riprese il suo posto solo il 9 agosto, dopo che il Senato ebbe esaurito la discussione di politica generale e votato la fiducia al governo. (Prima che l’anno finisse la sceneggiata napoletana si ripeté. De Nicola, accusato di eccesso di potere per i suoi interventi nel coordinamento della legge sul neofascismo, si ridimise e riritirò le dimissioni.)

Dopo questa tempesta in un bicchier d’acqua, sopravvenne, in un’immensa distesa d’acqua, una tragedia autentica: l’alluvione del Polesine. Con la quale fu portato alla consapevolezza del Paese, nel più triste dei modi, il baratro che separava la vitalità e lo slancio economico di quel periodo dalla inadeguatezza delle strutture civiche.

A metà novembre del 1951 il Po reso gonfio da piogge insistenti travolse e infranse gli argini, nel Delta, e sommerse centocinquantamila ettari di buona terra, investendo Adria e lambendo Rovigo. Antichi errori e imprevidenze apparvero di colpo in tutta la loro gravità. La catastrofe non causò la perdita di molte vite; i morti, una quarantina, erano passeggeri d’una corriera sorpresa dalla prima ondata di piena. Ma le conseguenze economiche e i disagi materiali furono, per le popolazioni, terribili. Ci si consolò affermando che l’evento era stato eccezionale, e che la piena di dodicimila metri cubi d’acqua al secondo registrata nell’ultimo tratto del grande fiume era praticamente senza precedenti. Si corse, in ritardo, al riparo. Vi furono altri allarmi. Ma il Po venne dopo d’allora domato.

Non fu domata invece la perenne diatriba tra gli economisti alla Pella e gli economisti alla Vanoni o alla La Malfa. Einaudi, dal Quirinale, lanciava la parola d’ordine del Piave dei mille miliardi, indicando in questa cifra una circolazione monetaria che non doveva essere superata (oh gran bontà de’ cavalieri antiqui!). Ma gli «incentivatori» ribattevano che l’ossessione del bilancio in pareggio non doveva bloccare lo sviluppo. Secondo La Malfa, ad esempio, gli stanziamenti del piano Marshall non venivano interamente utilizzati perché la macchina politica e amministrativa non era in grado di assorbirli. Pella replicava che i fondi Erp erano stati sfruttati a dovere: essi avevano rappresentato l’11,3 per cento di tutti gl’investimenti effettuati dal ’48 al ’51: un apporto più che sostanzioso. Pella si difendeva bene. Ma il problema dei «residui passivi», ossia delle somme che le casse pubbliche hanno a disposizione ma non sono capaci di mettere a frutto, si trascinò anch’esso per l’intero dopoguerra.