Il cielo con la rete

‘Right or wrong, my country’. Credo sia stata questa ottocentesca coerenza che spinse mio padre, nella primavera del 1940, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia, a far ritorno in patria.

Benso Fini, contrariamente a quanto fecero altri fuorusciti, non se la sentì di rimanere in un Paese che è in guerra contro il suo.

Se poi aggiungiamo che mia madre era ebrea, sia pur convertita alla religione ortodossa, e che le leggi razziali erano in vigore già dal 1938, la scelta era rischiosa. Tuttavia per gli uomini del primo Novecento, concetti come Patria, nazione, onore non erano slogan.

Autunno del 1943. Re Vittorio Emanuele III ha da qualche mese destituito Mussolini, avvicendandolo col Maresciallo Badoglio. Mentre il Duce, dopo l’audacissimo blitz di Otto Skorzeny al Gran Sasso, che però Mussolini sente più come una condanna che una liberazione («Madonna, i tedeschi!» dirà alla vista degli aeroplani che in un primo tempo aveva preso per inglesi) si arrocca nella Repubblica di Salò e il Meridione viene conquistato dagli Alleati, il Nord Italia è ancora in mano ai tedeschi e ai fascisti. Per piegarne la resistenza le principali città italiane vengono sconvolte dai bombardamenti alleati, degli americani in particolare. Milano, dove la famiglia Fini si è trasferita al rientro da Parigi, è ovviamente l’obbiettivo principale. Le donne e i bambini vengono prudenzialmente spediti in paesi e località sulle colline intorno ai laghi (‘gli sfollati’). Gli uomini rimangono in città, a lavorare. Zinaide e la piccola Anna si trasferiscono a Cremeno, paesino a est del lago di Como. Siamo a quasi 60 chilometri in linea d’aria dal capoluogo lombardo: eppure anche da lì si possono scorgere i bagliori dei bombardamenti.

Zinaide a Parigi ha vissuto il dramma di una secondogenita morta pochi giorni dopo il parto, a causa di un’allergia alimentare. Un problema che qualche decennio più tardi sarebbe stato tranquillamente risolto. Sulle prime, la comprensibile reazione della madre ferita è che di bambini non ne vuole più sapere. Ma si è in guerra, si può morire da un momento all’altro, che cosa resta se non fare l’amore? Massimo Fini nasce il 19 novembre 1943, nel momento probabilmente più drammatico della seconda guerra mondiale. In città Benso Fini partecipa a quel poco di Resistenza che ci fu al «Corriere della Sera». A differenza di altri non se ne vanterà mai. Comunque è sotto la sua direzione tecnica che verrà pubblicata la prima edizione dell’«Unità» nell’Italia liberata. A guerra finita la moglie, con i due figli, si ricongiunge al marito, a Milano.

Di Cremeno, o per essere più precisi di Maggio, un paesino ancor più minuscolo dove sono nato, ho solo ricordi vaghi: le mucche, un corvo che cerca di strapparmi a beccate un panino che sto sbocconcellando e io che mi difendo come posso («pio, pio, pic, pic» spiegherò a mia madre che mi troverà in lacrime. Ma il panino, quello no, non l’avevo mollato).

I primi ricordi nitidi sono di Milano. Per me, bambino di campagna, i cavi dei tram e dei filobus, allora molto fitti e che nelle piazze si intrecciavano (in quel primissimo dopoguerra tram e autobus erano quasi i soli mezzi di trasporto, le automobili, le ‘pot pot’ come le chiamavo io per il rumore dei clacson, rare) erano una novità. Alzavo gli occhi e dicevo «Milano ha il cielo con la rete».

La seconda immagine è quella della città sventrata. Si vedevano le facciate delle case, con le occhiaie vuote delle finestre senza vetri. Ma dietro non c’era niente. Sembravano delle quinte di teatro. Conservo una fotografia dove io, boccoluto e biondo, ho alle spalle una finestra senza vetri, protetta solo da delle assi di legno incrociate. Gli americani avevano bombardato alla cieca, come sempre, senza curarsi dei bersagli. Un obbiettivo strategico come la Stazione Centrale, a pochi passi da dove ora abito, rimase intatta.

Zinaide Tubiasz Fini esce dalla guerra con un altro figlio ma senza più una famiglia d’origine. Tutte le ricerche, fatte attraverso la Croce Rossa Internazionale, daranno esito negativo. Genitori, la sorella Anja, zii, cugini, parenti vari: non resta più nessuno («Non ho mai avuto nonni – dice Massimo – anche i genitori di mio padre sono morti, per cause naturali, prima della mia nascita»). Comunque Zinaide si ambienta con grande facilità in Italia anche grazie alla notoria propensione degli slavi per le lingue.

Mia madre parlava sette lingue, almeno a suo dire. Che ne potevo sapere io se conosceva davvero il polacco o il lituano? Comunque parlava un italiano perfetto, senza accenti o inflessioni. Nello scrivere aveva difficoltà solo con le ‘doppie’ che in russo non esistono. La cosa curiosa è che io, che scrivo da quarant’anni, se qualche volta ho un dubbio mi viene proprio sulle ‘doppie’ e devo andare a consultare il Palazzi.

Benso Fini lavora al «Corriere Lombardo» (ex «Giornale Lombardo») che gli Alleati subito dopo la guerra hanno regalato a quattro giornalisti che vengono dal «Corriere» momentaneamente in ‘stand by’: Fini, Afeltra, Fallaci (lo zio di Oriana) e Dino Buzzati che pur essendo stato connivente col fascismo è considerato, giustamente, ‘irresponsabile’. Quando il «Corriere» riprenderà le pubblicazioni, Afeltra, Fallaci e Buzzati vi rientreranno. Fini rimarrà invece al «Lombardo» e lo dirigerà per tredici anni.

La nuova casa milanese di via Washington, dove la famiglia Fini va a vivere, porta ancora i segni della guerra. Verrà sistemata un po’ alla volta. È una casa modesta. Ma con quel giardino sul retro per il piccolo Massimo è la casa più bella che ci sia («Era solare. Era ‘la bianca casa che i bambini non vorrebbero mai lasciar’, cioè la loro infanzia», Marisa Sannia).

Milano a quel tempo era molto diversa. La cementificazione selvaggia era ancora di là da venire. Negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta Milano era una città di quartieri. Bambini o ragazzini uscivamo di casa alle due del pomeriggio e rientravamo alle otto di sera. I nostri genitori non si preoccupavano, e non perché fossero degli incoscienti, forse lo erano anche un po’, ma perché esisteva un controllo sociale. Ci conoscevamo tutti, e se un bambino o un ragazzino si fosse messo nei guai sarebbe intervenuto un adulto. Un pedofilo sarebbe stato avvistato a un chilometro di distanza. C’era poi il ‘ghisa’, figura mitica, che era una sorta di vigile di quartiere: disarmato, svolgeva le funzioni del ‘bobby’ londinese. Per ogni questione ci si rivolgeva a lui («Dillo al ghisa», «C’è lì il ghisa», «Chiedilo al ghisa»).

Via Washington era una strada molto larga. Con una palla e le cartelle a fare i pali giocavamo a calcio. C’era solo l’eterno dilemma: era il tiro ad essere troppo alto o il portiere ad essere troppo piccolo? Quando, ogni tanto, passava una macchina, ci spostavamo. L’altra questione era quella dei falli. Se uno toccava la palla con la mano dicevamo ‘ens!’. Perché ‘ens’? Il dilemma l’ho risolto di recente, deriva dall’inglese hands, mani (sono gli inglesi, com’è noto, ad aver inventato il calcio e, nella loro proverbiale superbia, per molti anni si sono rifiutati di incontrare le nazionali degli altri paesi). Se uno teneva troppo la palla dicevamo ‘sei un Venezia’. L’ho sentito gridare qualche anno dopo anche a Berlusconi che ho visto giocare sul campo dei Salesiani in via Copernico: era alto come un soldo di cacio, pretendeva di fare il centravanti e, appunto, non passava mai la palla. C’era già tutto Berlusconi. L’origine del ‘Venezia’ però, nonostante le ricerche non l’ho mai appurata.

Col padre, impegnatissimo al giornale, il piccolo Massimo cresce circondato da sole donne: la madre, la sorella, la domestica («Mia madre, in memoria dei suoi trascorsi zaristi, pretendeva la ‘domestica fissa’ in casa, cosa che nemmeno i ricchi si permettevano, svenando mio padre. La faceva dormire in un bugigattolo vergognoso»).

Quando non uscivo a prendere a calci il pallone ero totalmente chiuso in me stesso, giocavo in modo solitario, barricato nel mio mondo. Quanto alle bambine, era come non esistessero. Non giocavano, quindi non mi interessavano.

Nel 1953, quando Massimo ha dieci anni, Benso Fini compra un appartamento in un condominio di una cooperativa di giornalisti che sanno che di lì a poco nella zona sorgerà la ‘City’. La posizione è centrale, il palazzo, in perfetto stile anni Cinquanta, anonimo. Ma i giornalisti, spesso famosi (Dino Buzzati, Giovanni Mosca, Achille Campanile, Paolo Murialdi, Egisto Corradi) vi vengono via via ad abitare. Lo considerano un salto sociale.

Il piccolo Massimo stenta a lasciare il suo incantato mondo di giochi.

Non volevo, disperatamente non volevo, uscire dall’infanzia. Quando i miei coetanei indossavano già da tempo i calzoni lunghi, io li portavo ancora corti, quasi all’inguine. Con i ‘figli dei giornalisti’ mi trovavo a disagio. Poveri ragazzini non era tutta colpa loro, ma esprimevano il razzismo sociale dei loro genitori, un ceto medio borghese sine nobilitate che si stava allora affermando. Un ascensore era per ‘i signori’, l’altro per la servitù. C’era proprio un cartello: «Riservato alla servitù». Una cosa ridicola perché entrambi gli ascensori erano piccoli. Ma i giornalisti invece di farne uno solo, spazioso e comodo per tutti, ne avevano voluti due, per marcare le distanze. Eppoi c’erano fenomeni di ‘bullismo’ che non avevo mai visto finché ero vissuto in periferia. Un pomeriggio in via Galilei, sotto casa, vidi un gruppo dei ‘figli dei giornalisti’ che aveva preso in mezzo un ragazzo magro fino ai limiti dell’handicap, un ‘quattrocchi’ nel gergo di allora quando a portare gli occhiali erano in pochi ed era considerato un’onta. Lo stavano sottoponendo ad ogni sorta di vessazioni e di umiliazioni. Io osservavo la scena a una ventina di metri di distanza. Di colpo un velo nero mi calò davanti agli occhi e non so come mi ritrovai in mezzo al gruppo che avevo sferrato un cazzotto al capoccia, Mariano Campanile, nipote dell’umorista, spaccandogli il labbro a sangue. Fu una delle poche volte che ‘il terzo occhio’ che da sempre mi guarda vivere e mi giudica si chiuse, liberandomi. Il giorno dopo il gruppo pretese una sfida all’‘ok Corral’ tra me e Mariano. Lui aveva quindici anni, io tredici, era già sviluppato, io no, ma soprattutto a me era passato il furore. Le presi di santa ragione. Quando fui ben pesto e sanguinante il branco decise che la lezione poteva bastare.

Ma non fu questo episodio ad allontanarmi definitivamente dal mondo borghese. La cosa che mi colpiva era l’ipocrisia dei cosiddetti ‘figli dei giornalisti’, ipocrisia che rifletteva, anche qui, quella dei loro genitori. Andavano in chiesa, facevano i pii, ma fuori davano addosso ai più deboli o ai più timidi o ai più soli. Una cosa per me intollerabile. Una bella lezione evangelica. Così mi allontanai anche dalla Chiesa.

Massimo, lasciati i vecchi compagni, comincia a frequentare i ragazzi che bazzicano la via General Fara, strada popolare non lontana da casa sua.

Giocavamo a calcio dai Salesiani, l’unico posto in cui c’era un campo vero, con le porte. Ma ci andavo solo per quello. Riuscivo a disertare anche i dieci minuti di catechismo che, in tutta la giornata, il povero prete ci richiedeva, nascondendomi, insieme al mio amichetto Paolo Mosca, dietro certe colonne.

Se all’altezza dei vent’anni il percorso universitario a Giurisprudenza sarà ottimo, la carriera dello scolaro Massimo Fini è a dir poco sciagurata.

Non studiavo. Dopo le elementari, alle medie fui rimandato in quattro materie in prima, in cinque in seconda (credo sia un record). Fui promosso in terza, ma solo perché ero abilissimo nell’intortare i professori delle commissioni esterne, che non mi conoscevano. Quattro materie in quarta ginnasio. Nel secondo trimestre della quinta arrivai a casa tutto allegro mostrando la pagella ai miei genitori: avevo migliorato di tredici punti. Ciò non toglieva che la pagella fosse piena di 5, di 4 e anche di 3 (in greco). Mio padre mi disse: «Se quest’anno vieni promosso ti porto a Roma in Settebello (il massimo del lusso, allora) e buttiamo i libri dal finestrino». Aggiunse anche: e io inseguo il treno a piedi. Fui promosso. Per il solito motivo: c’erano gli esami. Pretesi da mio padre che onorasse la scommessa. Gli abbonai solo, per pietà, l’inseguimento del treno, ma il mio austero genitore, appena fummo in un tratto di campagna, dovette gettare con me gli odiati libri nei prati.

I licei classici li ho girati quasi tutti: il Parini, il Berchet, il Carducci. Perennemente ‘l’ultimo della classe’, recuperavo sempre in extremis, come in certe corse ciclistiche ad eliminazione. In seconda liceo, al Berchet, nel compito in classe di greco, io e l’altro asino della classe, Piero Derenzio, figlio di un noto ginecologo, fummo sbattuti in fondo all’aula, separati dagli altri da un banco vuoto, per impedirci di copiare. Lui prese 1, io 1-, «perché – disse il prof – perlomeno il tuo compagno ci ha provato». Mentre io avevo copiato da lui. La volta successiva smontammo gli ultimi banchi così il professore non poteva isolarci. I banchi furono riparati ma noi li smantellammo di nuovo. Il prof sgamò l’inganno. Ci beccammo due giorni di sospensione. Una bravata assai più grave, audacissima per i tempi, la feci l’anno dopo quando dal Berchet ero passato al Carducci dove mi trovai come compagno di banco Claudio Martelli. Nell’ambiente nuovo, nonostante i tentativi di Claudio di inserirmi, ero a disagio. Inoltre mio padre si era ammalato, di cuore, e questo non aiutava il mio equilibrio. Uno dei primi giorni decisi di ritornare nella mia vecchia classe del Berchet. Mi nascosi dietro le spalle di un compagno. La professoressa, mi pare di latino, era nuova e non conosceva ancora tutti gli alunni. Ma non mi bastava. Mi feci anche interrogare, alla cattedra. A metà girai il culo e aprendo la porta della classe mi voltai verso i compagni: «Bye, bye ragazzi». Dopo pochi minuti il Berchet era circondato dai caramba. La pelata del preside, Joseph Colombo, un ebreo di grande capacità, moderno, duttile coi ragazzi, cui mi rammarico di aver fatto quello sberleffo, era rossa per l’indignazione: «Chi ha profanato il mio istituto?». I compagni del Berchet sottoposti a interrogatorio resistettero stoicamente, ma alla fine qualcuno cedette. Tutta la classe fu sospesa per quattro giorni. Il preside del Carducci mi convocò, accompagnato da mia madre. Dopo la rituale ramanzina disse che mi avrebbe sospeso per due giorni. «Eh no – replicai io – deve darmene almeno quattro». Altrimenti avrei perso ogni prestigio con i miei compagni del Berchet. In realtà facevo queste cose un po’ per ribellismo e molto più per superare la mia timidezza e insicurezza, per farmi notare.

In greco credo di non aver mai preso più di 3. La cultura greca, che considero la più profonda, molto più della strombazzata cultura giudaico-cristiana, avrei cominciato a recuperarla qualche anno dopo, attraverso la lettura di Nietzsche: soprattutto i presocratici, Eraclito, Parmenide, Democrito e, naturalmente, i tragici, Eschilo, Euripide, Sofocle. Proprio il modo dissennato con cui l’ho fatto dimostra la validità del ‘classico’ di Gentile perché, nonostante tutto, me ne è rimasto l’imprinting.

A far da spartiacque tra il turbolento studente liceale e l’universitario che si laurea col massimo dei voti e la lode, c’è un evento chiave: la morte del padre.

Trascorsi il periodo del liceo facendo pena a scuola e il cazzaro, in una contestazione che non aveva alcun senso se non quello di una ribellione, confusa e generica, all’Autorità. Quando mio padre morì, apparentemente non provai alcun dolore. Scoprii però che un padre morto pesava assai di più di un padre vivo. Ci metterò vent’anni per liberarmi della sua ingombrante figura. Comunque con la morte di mio padre, d’infarto (io avevo diciassette anni), ci fu un capovolgimento inconscio: se prima pensavo che nulla di male avrebbe potuto mai capitarmi, adesso pensavo che solo tutto di male poteva accadermi. Entrai in un periodo di depressione (il primo della mia vita, il successivo lo vivrò nei primissimi anni Ottanta). Giocavo a calcio, in quegli anni. Più d’una volta, al momento d’entrare in campo, mi sentivo così privo di forze che ero tentato di dire all’allenatore di lasciarmi fuori (allora non c’erano le sostituzioni). Cominciava la partita e in qualche minuto quell’angoscia mi lasciava, dandomi tregua. Ma poi tutto ricominciava. «Come prima, più di prima» come cantava Tony Dallara.

L’università arriva al momento giusto per il diciannovenne Massimo Fini. Da sempre insofferente alle imposizioni ora deve autoregolarsi. E la cosa funziona.

Avrei voluto fare filosofia, ma lì c’erano esami di greco e latino, ostacoli per me insormontabili. Scelsi Giurisprudenza, un po’ per prendere tempo e capire qual era la mia vocazione, se mai ne avevo una, e perché era una facoltà apparentemente facile, mnemonica. Però, oltre ai rudimenti del diritto che, visto come siamo conciati oggi, io comincerei a ficcare in testa ai bambini fin dalla prima elementare, mi ha insegnato qualcosa di più importante, la ‘logica formale’ che mi sarebbe tornata molto utile nell’‘arte della polemica’.

Studiavo in un modo tutto mio. Avendo capito fin dall’inizio che in quell’università nozionistica frequentare le lezioni era inutile perché i professori non facevano che ripetere quanto era scritto nei libri, non ci andavo. Per sei mesi non la vedevo neanche la Statale di Milano, con quello splendido cortile del Filarete e i suoi chiostri. Giocavo a poker, facevo il filo alle ragazze, viaggiavo. Due mesi prima dell’appello (allora ce n’erano tre, a giugno a ottobre e a febbraio) mi chiudevo in casa. In modo monacale e maniacale. Amici, amiche, eventuali fidanzate non esistevano più. Avesse bussato al mio convento anche Brigitte Bardot, il mito assoluto della mia generazione, non le avrei aperto (e qualche volta è accaduto, non con Brigitte ovviamente, per lei forse avrei fatto un’eccezione).

Per sperimentare se il mio metodo fosse azzeccato diedi come primo esame il più difficile: Istituzioni di diritto privato. «Trenta» disse l’assistente. «No, trenta e lode» lo corresse il professore. Poiché il libretto allora contava, da lì fu una strada tutta in discesa, una serie di 30 e lode e di 30, con pochissime eccezioni, il voto più basso fu un 27, mi pare in Scienza delle Finanze.