L’educazione sentimentale

Il rapporto fisico con mio padre era stato inesistente, a parte certi ceffoni, peraltro sacrosanti, che ogni tanto mi mollava. Era nella cultura ottocentesca di quella generazione (lui era del 1901) che il rapporto fra il padre e i figli maschi non ammettesse svenevolezze, baci, abbracci, carezze. Non è che non ci volessero bene, probabilmente ce ne volevano anche, ma erano stati educati così (con le madri le cose erano diverse). Considero uno dei pochi portati positivi del Sessantotto aver accorciato queste distanze fra padri e figli. Ma con juicio. I genitori non devono essere ‘amici’ dei propri figli, devono rimanere dei punti di riferimento ed ‘esserci’ quando serve.

Bambi, il famoso cartoon di Walt Disney, illustra bene, credo, ciò che intendo dire. Nella prima scena (io lo ricordo in fumetto) è schierata l’intera famiglia della foresta. Al centro c'è il Grande Cervo, il capo della tribù, padre di Bambi. Il cucciolo viene svezzato dalla madre. Il padre non si vede mai. Un giorno Bambi e la madre vengono sorpresi dai cacciatori nella foresta. Fuggono verso la tana, Bambi davanti, la madre dietro, a proteggerlo. Si sente un colpo di fucile (‘bang!’). Arrivati alla tana Bambi, impaurito ma anche eccitato dall’avventura, si volta: «Ce l’abbiamo fatta, nevvero mamma?». Lei non c’è (le mie amiche che hanno visto il film da bambine mi raccontano che a questo punto sono fuggite dal cinema urlando). C’è il padre: «Tua madre non tornerà più». A primavera Bambi, Tippete e la puzzola-maschio escono dalle tane, convinti di tornare agli antichi giochi, che escludono le disprezzate femminucce. Ma il tempo e l’adolescenza hanno fatto il loro lavoro. Dietro un albero compare una puzzola con grandi occhi blu e delle enormi ciglia all’insù e il compagno di Bambi e Tippete è fottuto. I due lo guardano con un certo disprezzo, sicuri di sé, sono di ben altra tempra, loro, non si faranno distrarre da queste sciocchezze. Ma incrociano una coniglietta e anche Tippete s’invola. Bambi prosegue. A lui certe cose non possono capitare, non per nulla è il figlio del Re della foresta. Ma incontrerà e conquisterà Occhidolci battendosi con un rivale (di cui solo io, credo, che ho una certa predilezione per gli sconfitti, ricordo il nome: Ronno). Bambi è ormai un cervo adulto. Ma non ha ancora tutta l’esperienza necessaria. Nella foresta scoppia un grande incendio. Bambi è circondato dalle fiamme. Non sa come uscirne. Si sente perduto. Al suo fianco, a sorpresa, compare il padre. «Seguimi!». E guidandolo per torrenti e fiumi lo porta in salvo. Nell’illustrazione successiva si vede il vecchio cervo che va a morire, solo, nel più folto della foresta. La sua funzione è esaurita. Così vuole la leggenda, ma forse anche la realtà (Fra gli eschimesi esiste – o esisteva – questa usanza. Una sera, nell’igloo, dopo aver mangiato, il capo famiglia guarda a lungo, uno a uno, in silenzio tutti i membri del clan, poi esce e va a morire nella notte polare). L’ultima scena è identica alla prima. Ma adesso al centro c’è Bambi, il nuovo Re della foresta. È il ciclo della vita.

Con mio figlio, Matteo, ho fatto la lotta, gli ho insegnato a nuotare, ad andare in bici. Ma il nostro rapporto è passato soprattutto per il calcio. Appena è stato in grado di reggersi in piedi gli passavo la palla nel lungo corridoio di casa, per la disperazione di sua madre che temeva per i vetri liberty. Da grande era ambidestro, aveva piedi buoni, intelligenza tattica, senso della posizione, un impegno assoluto, doveristico, che assomiglia molto a quello che ho messo io nella mia attività di giornalista e di scrittore. Insomma aveva tutto per essere un buon giocatore. Una cosa però gli mancava: la cattiveria. «Matteo, in dodici anni di carriera una sola ammonizione, non è possibile». Verso i tredici, quattordici anni gli fu offerto un provino all’Inter. Quando lo vidi – ero già separato da mia moglie e vivevo in un’altra casa – gli chiesi: «Beh, com’è andata?». «Non mi sono presentato». «Perché?». «Perché il calcio deve rimanere un gioco». Da una parte non potevo che ammirare la saggezza di questo mio figliolo adolescente (Ne ho visti tanti di ragazzi di diciassette, diciotto anni, quasi all’esordio in prima squadra, liquefarsi nel giro di sei mesi. Per uno che ce la fa mille falliscono). Dall’altra dicevo, fra me e me: ma porco cane, proprio a me doveva capitare un figlio così saggio? Adesso ha trentasei anni fa il ‘mister’ per una squadra di dilettanti e si diverte moltissimo perché ha sempre avuto talento da educatore, come dimostrano i dieci anni in cui ha insegnato matematica all’università e il ruolo di organizzatore della formazione che gli è stato assegnato nella ‘start up’ di giovani e giovanissimi in cui lavora oggi.

Con mio padre il rapporto era solo intellettuale e anche questo molto rarefatto. Giocavamo a scacchi. Gli davo del filo da torcere perché mio nonno Max Tubiasz era stato un campione di scacchi e qualcosa era passato nel mio dna. Ma vinceva sempre lui. Solo una volta, dopo una partita tutta in difesa, con i suoi pezzi che assediavano il mio Re, con una mossa a sorpresa, usando l’ultimo alfiere che mi era rimasto, gli diedi scacco matto. «Figliol d’un Sette!» esclamò lui usando un’espressione toscana. Ma pareva contento (da quel giorno lo chiamai ‘Sette’). Ci fu un periodo in cui, la sera, mi leggeva i classici, I promessi sposi, L’isola del tesoro, Il capitano Nemo, I miserabili (l’unica volta che ho visto piangere mio padre in vita mia è mentre mi leggeva l’ultima pagina, quella della morte di Jean Valjean, chissà per quale processo di identificazione). Un giorno mi fece ascoltare un disco con i discorsi di Mussolini. Alla fine mi chiese: «Beh, che ne pensi? C’è della forza non ti pare?». Io ci sentivo solo retorica.

C’erano troppi anni, quaranta, fra di noi. Comunque non è che non mi avesse capito, mi aveva capito benissimo, mi chiamava «l’avvocato delle cause perse». Anche se avrebbe dovuto cercare di smorzare un po’ questa mia inclinazione. Com’è naturale preferiva parlare con mia sorella Anna, di nove anni maggiore, ‘pagella d’oro’ in italiano al liceo internazionale Manin.

Anche se sostiene che i rapporti intellettuali con suo padre erano ‘rarefatti’, probabilmente esagerando perché quel padre, severo, rigido, non lo ha mai amato, l’adolescente Massimo gode, in casa, di alcune rendite di posizione. Benso Fini, toscano, parla uno splendido italiano, a tavola le conversazioni fra lui e la figlia spaziano dalla politica alla letteratura, al teatro, al cinema e naturalmente ai più importanti avvenimenti di cronaca. Massimo non interviene. Ascolta. E assorbe. Si imprime nella mente vicende come quelle di Rina Fort o della saponificatrice di Correggio. Quando inizierà a lavorare all’«Avanti!», come cronista, ha un bagaglio di informazioni che i suoi coetanei non posseggono o di cui hanno una conoscenza molto vaga («La prima volta che scesi nella tipografia della Same, i tipografi, straordinari artigiani che mi hanno insegnato i rudimenti del mestiere, si meravigliarono nel vedermi così giovane. Per ciò che scrivevo e da come lo scrivevo pensavano che fossi un uomo maturo. Avevo ventisette anni»). Eppoi c’erano le preziose ‘mazzette’ dei giornali che ogni direttore si porta a casa. Massimo si getta su «Tempo Illustrato», il primo settimanale italiano a colori, diretto da un grande giornalista, Arturo Tofanelli, perché in copertina ha sempre una bellissima donna («Mi ricordo un’Ava Gardner strepitosa»). Ma poi, sfogliando, si imbatte in ‘Battibecco’ di Curzio Malaparte che, dal punto di vista giornalistico, sarà una lettura fondante («Malaparte, Flaiano, Longanesi, Buzzati, Pasolini, oltre, naturalmente, a Montanelli, li imporrei come libri di testo a chi voglia cominciare questo mestiere»). C’è anche il «Borghese» che ha un inserto fotografico con immagini audacissime per i tempi. Massimo vi si butta a pesce ma poi finisce per leggere anche Gianna Preda, Mario Tedeschi e Piero Buscaroli.

Mio padre era estremamente pudico nella vita privata ma da giornalista cambiava pelle, necessariamente. Pubblicava anche lui, in prima, foto di ‘donnine scollacciate’ come diceva con comico linguaggio anni Cinquanta e i titoli del «Corriere Lombardo» erano così forzati che era stato soprannominato ‘Il Bombardo’. Cose da educande viste con gli occhi di oggi. Comunque sguaiataggini alla maniera del «Giornale» o di «Libero» non ce n’erano né sul «Lombardo» né altrove. Erano pur sempre gli anni Cinquanta quando Oscar Luigi Scalfaro, in un ristorante, schiaffeggiava una signora colpevole di una scollatura troppo profonda.

Fino a sedici anni non ho letto un libro. I libri mi ricordavano la scuola. D’improvviso scoprii i russi. Fu un coup de foudre. Mi chiudevo in camera e, inginocchiato davanti al letto, su cui mettevo il volume, divoravo Delitto e castigo, I fratelli Karamazov, I demoni, Memorie dal sottosuolo. Mi piaceva anche Guerra e pace di Tolstoj. Ma Anna Karenina non lo lessi perché mia madre, con la solita perentorietà, affermava che era «il miglior libro di tutti i tempi». L’avrei letto solo dopo la sua morte ed è un libro straordinario ma io sono rimasto sempre dostoevskiano. Lessi Cˇechov, Gogol e Puškin anche se mia madre diceva, a ragione, che non è traducibile in italiano. Eppure italiano e russo hanno una musicalità molto simile. Quando mia madre era al telefono io, da lontano, non riuscivo a capire, dal suono, se stesse parlando in italiano o in russo.

Queste sono le letture adolescenziali. Ma quando raggiunsi ‘l’età della ragione’, per dirla col titolo del più importante romanzo di Sartre, si era in pieno clima esistenzialista. Tutta la mia generazione, che precede di poco quella sessantottina (e questo breve scarto sarà decisivo, marcherà la differenza), ha letto Sartre, Camus, Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir, Paul Nizan, Boris Vian. Claudio Martelli era per Sartre, io per Camus. E già da qui si sarebbe potuto capire come le nostre vite parallele sarebbero state tanto diverse (la sua la potete trovare in Ricordati di vivere, un bel libro, quando non parla di politica). La cultura esistenzialista ci rimbalzava poi indietro, a Lautréamont e a Rimbaud che fonda la poesia moderna in quella famosa lettera a Verlaine: «Il poeta si fa veggente mediante un lungo e ragionato sregolamento di tutti i sensi».

L’esistenzialismo, il suo humus, è rimasto profondamente radicato in me: l’ateismo, l’individualismo, il problema della scelta e della assunzione della sua responsabilità, l’amicizia virile, e anche l’omosessualità, sia pur sfiorata, più idealizzata esteticamente che vissuta, quell’omosessualità che circolava a Saint-Germain-des-Prés e disgustava il ‘macho’ Malaparte (Diario di uno straniero a Parigi).

Ma dal punto di vista più prettamente culturale l’esistenzialismo parigino, subalterno della cultura tedesca, è stato importante perché mi traghettò a Heidegger e soprattutto a Nietzsche. Ricordo ancora il giorno in cui entrai alla Feltrinelli di via Manzoni e vidi questo volume, elegantissimo, appena uscito da Adelphi, Umano, troppo umano. Era il 1965. Da lì cominciò una lettura che sarebbe durata vent’anni («Le pagine più belle scritte in lingua tedesca» secondo Mazzino Montinari). Ho letto tutto Nietzsche come ho letto tutto, o quasi tutto, Dostoevskij anche nelle sue opere meno riuscite come L’idiota. Del resto fra Nietzsche e Dostoevskij ci sono molte affinità. («Dostoevskij? Ecco uno psicologo con cui potrei intendermi» scrive Nietzsche nei suoi taccuini, quando viveva isolato a Sils Maria e l’altro era considerato solo un romanziere di appendice). Nietzsche è stato fondamentale per la mia formazione. E chiunque lo conosca sa quanto gli sono debitore, anche se ho sempre tenuto ben presente il suo ammonimento: «Non fa onore al suo maestro chi rimane sempre allievo». Ogni autore va rielaborato secondo la propria sensibilità. È quello che, senza voler fare per questo paragoni blasfemi, dico sempre ai ragazzi che mi seguono: «Non dovete ripetere talmudicamente ciò che ho scritto. Non è utile a voi e neanche a me. Non è sano che un ragazzo di vent’anni pensi le stesse cose di un uomo che ne ha più di sessanta». La cultura è un continuo gioco di elaborazione e rielaborazione, non solo di letture ma, direi soprattutto, di esperienze di vita.

Quando avevo vent’anni ero certamente il meno colto nella cerchia dei miei amici. Alcuni di loro si sarebbero fermati. Io, spinto da una curiosità che fino a qualche anno fa è stata insaziabile, ho cercato di andare avanti.