Sessantotto e dintorni
I fenomeni più importanti e fecondi, sul piano del costume, il movimento hippy, la liberazione sessuale, il femminismo, sono maturati prima del Sessantotto.
Noi ragazzi borghesi sentivamo soprattutto due esigenze: quella di essere un po’ più liberi, vestire come ci pareva, senza l’odioso obbligo della giacca e cravatta, portare i capelli come ci pareva e che le nostre compagne non fossero costrette a rincasare alle nove di sera per poi, magari, uscire di nascosto a mezzanotte, e quella di un impegno, noi che non avevamo vissuto la guerra, il fascismo e l’antifascismo. Un impegno che non sapevamo dove riversare. Causa a sé facevano i giovani della FGCI, i mitici ‘figiciotti’, che un impegno ce l’avevano (verso il partito, of course) e conducevano una vita austera molto diversa dalla nostra, con codici precisi e inderogabili (la ragazza, se ce l’avevano, doveva essere rigorosamente una ‘compagna’, i vini quelli del popolo, un barbera, un cancarone, un pigato). Io li rispettavo e li invidiavo. Come tutti gli anarchici ho un’attrazione per l’ordine, che avrei sfogato nel gioco regolato, il poker, lo chemin de fer, cosa che sfugge alle femmine, caotiche per natura, fin da bambine. Erano innocenti i ‘figiciotti’, non potevano sapere, a differenza dei loro leader, cosa fosse realmente l’Unione Sovietica, anche se Gide, già a metà degli anni Trenta e Albert Camus nei primi Cinquanta ne avevano denunciato i lager.
È perché sentivamo il bisogno di un impegno che nel novembre del 1966 ci siamo precipitati a Firenze colpita dall’alluvione. Ero in casa con tre amici, in via Novara, quando la radio diede la notizia. Il pensiero istintivo, immediato, fu: «Dobbiamo andare a Firenze, a dare una mano». Divenimmo così gli ‘angeli del fango’.
Io ero particolarmente attratto dal movimento hippy. Non mi sono mai vestito a fiori ma ne condividevo in pieno la proposizione di fondo: ognuno è libero di fare ciò che vuole nei limiti in cui non nuoce agli altri. Che dovrebbe essere un concetto elementare ma, a quanto pare, così non è. Il clima in quegli anni presessantottini era quello. E nel Nord Europa, bypassando il Sessantotto, vi rimarrà anche negli anni Settanta. Jesus Christ Superstar, che vidi a Londra nel 1972, con degli amici, appena uscito (era facile allora procurarsi i biglietti, non bisognava prenotarsi sei mesi prima, come oggi per un concerto di Zucchero) con quel Cristo libertario e ‘border line’ è una perfetta opera hippy, come hippy era la grande Olanda (seconda ai Mondiali del 1974 e del 1978), dei Neeskens, dei Cruyff, dei Rensenbrink, dei Rep, dei Haan, dei Van Hanegem, dei Rijsbergen, dei Krol, dei Suurbier, dei Jongbloed, che portava in ritiro mogli e fidanzate dei giocatori e aveva inventato il ‘calcio totale’. Non per nulla le mete preferite di noi ragazzi, raggiunte in autostop, erano Amsterdam e Londra, oltre a Ibiza dove si radunava la più bella e composita gioventù europea, olandesi, inglesi, norvegesi, svedesi, danesi. Francisco Franco aveva avuto l’astuzia di farne un ‘porto franco’ con libertà di spinello e di sesso, etero e omo.
A Milano ci radunavamo a Brera, all’Angolo tenuto dalla bionda e bellissima Alfreda, suonavamo la chitarra, portavamo i capelli lunghi (‘i capelloni’) e facevamo una caciara innocente. Non mi ricordo nemmeno che circolassero gli spinelli, ma questo, forse, è dovuto al fatto che io non appartengo alla generazione della droga, semmai a quella dell’alcol. (Se non avessi avuto un fegato fortissimo me lo sarei spaccato a furia di whisky, mentre i miei compagni finivano regolarmente ubriachi sotto il tavolo. Ma alla lunga questa resistenza all’alcol si rivelerà molto insidiosa). Una sera sì e una no la polizia faceva irruzione a Brera, ci chiedeva i documenti, ci identificava, ci interrogava e qualche volta ci fermava. E il giorno dopo il «Corriere della Sera», capocronista Franco Di Bella, titolava «Repulisti a Brera» come se fossimo delle cimici. È questa ottusità bigotta della borghesia, come mi ammise anni dopo Indro Montanelli, che trasformerà gli ‘angeli del fango’ nei molto meno innocenti sessantottini. L’Inghilterra, con i Beatles, Mary Quant e la minigonna aveva capito che era venuto il tempo di liberalizzare i costumi e non avrà né il Sessantotto né i fenomeni molto più seri che ne sarebbero derivati.
Mi sono laureato ai primi di febbraio del 1968. Appena in tempo, pochi giorni dopo ci sarebbe stata la prima occupazione della Statale. Una notte, bighellonando come mio solito per la città arrivai davanti all’università e vidi che era illuminata e piena di ragazzi. Mi ci intruppai. Per quel poco che ci sono stato non fui mai un leader. La notte, insieme a un ragazzo padovano, alto, smilzo, allegro, Giorgio Livrini, figlio di un industriale, tenendoci svegli con dei fiaschi di vino rosso, facevamo la guardia a qualcuna delle tante porte della Statale. Ma capii molto presto che non era cambiato nulla. Se prima all’università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso era obbligatorio l’eskimo. Il conformismo aveva solo cambiato di segno. È sempre molto difficile da capire, per certuni, che l’antifascismo non è un fascismo di segno contrario, ma il contrario del fascismo. Eppoi c’era il ‘vizietto’ di picchiare gli avversari, o presunti tali, dieci, venti, trenta contro uno.
Dovevamo essere proprio agli inizi perché nell’Aula Magna, gremita di studenti e fasciata di tazebao, era stato invitato anche il Rettore, Polvani, che, dimostrando di non aver capito nulla di quel che bolliva in pentola, fece un discorsetto paludato, ancien régime. Uscì fra i fischi, seguito da un piccolo codazzo di studenti ‘fedeli’. Fra loro c’era Paolo Longanesi, il figlio di Leo, gobbetto come lui, che fece la sciocchezza di strappare un tazebao. Eravamo in tremila, sarebbe bastato prendere Longanesi per la collottola e portarlo fuori. Invece dal tavolo della presidenza si alzò di scatto Luca Cafiero, un assistente di filosofia che era diventato un leader del Movimento, precipitandosi su Longanesi. Ne nacque un parapiglia furibondo. Lo stavano letteralmente linciando. Le ragazze, isteriche, gridavano «Ammazzatelo! Ammazzatelo!» (le cesse, le carine erano un po’ più chete). Ci mettemmo venti minuti, con i cugini Jucker e altri, per sottrarre Longanesi alla furia degli energumeni. Dopo andai al cesso, a vomitare. Un po’ per lo sforzo e un po’ per il disgusto. Uscendo dal bagno vidi uno degli aggressori, Moneta, un ragazzo ben piantato, figlio anche lui di un grosso imprenditore, in piena ‘trance agonistica’. Tremava. Dovetti dargli uno schiaffo perché si rimettesse insieme.
Qualche anno dopo incontrai Longanesi da Oreste, un bar vicino al «Corriere», frequentato da artisti e intellettuali. Mi venne spontaneo ricordare a Paolo Longanesi quel vecchio episodio. Lui negò che ci fosse mai stato. «Bene – dissi allora, freddamente – vuol dire che la prossima volta lasceremo fare». Mi è capitato quasi sempre, nella vita, che persone a cui avevo dato una mano non solo non mi fossero grate ma prendessero a odiarmi. È un elementare psicologico, pressoché matematico: uno si sente in debito, non lo tollera e appena può te la farà pagare.
Il ‘vizietto’ di sprangare la gente trenta contro uno l’MS, finché è esistito, non l’avrebbe mai perso. Nel febbraio del 1972 i ‘katanga’ (il cosiddetto servizio d’ordine dell’MS) picchiarono selvaggiamente uno studente israeliano accusato, naturalmente a capocchia, di essere una spia della CIA. Questo pestaggio ne seguiva un altro, ancora più violento avvenuto un mese prima ai danni di un sindacalista della UIL, Giovanni Conti, che in un comunicato che cercava di spiegare le ragioni di quell’aggressione venne accusato, insieme a non so più quali nefandezze politiche, di alzare il gomito e di amare la notte. Tale era, sotto le parole rivoluzionarie, il moralismo bacchettone dell’MS. Io allora lavoravo già all’«Avanti!» che simpatizzava apertamente per la ‘contestazione’, come ormai quasi tutti i giornali che facevano a gara per essere ‘di sinistra che più di sinistra non si può’. Ma l’«Avanti!» di Milano (a differenza di quello di Roma sotto lo stretto controllo del partito) diretto da Ugo Intini, il mio vecchio e caro ‘Ugaccio’, era un giornale libero e libertario e mi permise di scrivere questo durissimo corsivo: «Il Movimento studentesco c’è ricascato. A poche settimane di distanza dalla aggressione del sindacalista della UIL, Giovanni Conti, un altro episodio di violenza vile e stupida che non trova aggancio in alcuna seria motivazione politica, ha avuto come teatro la Statale e come protagonisti i picchiatori del Movimento studentesco. A questo punto non si tratta più di casi isolati, di ‘ragazzate’ di qualche frangia particolarmente irrequieta dell’MS – come sostiene, fingendo il nulla, Mario Capanna – ma di metodo. E il linciaggio, la caccia all’uomo e alle streghe, israeliane e non, le grida al ‘monatto’, sono metodi che, ce ne doliamo con Capanna, riecheggiano le abitudini delle squadracce fasciste, sono, soprattutto, espressione di una mentalità (forse inconsciamente) fascista. Il Movimento studentesco deve uscire dall’equivoco. Il linciaggio e l’isteria collettiva non fanno parte del linguaggio politico ma della patologia medica» («Avanti!», febbraio 1972). Queste parole oggi suonano forse ovvie. Ma nel clima di conformismo sinistrorso di quegli anni, che avrebbe partorito da lì a poco le Brigate Rosse («i compagni che sbagliano»), non lo erano affatto. E lo si vide subito. Io, come cronista, dovevo seguire anche le vicende dell’università. Quando misi piede alla Statale fui circondato dai ‘katanga’ che volevano farmi la festa. Mi salvai mettendomi sotto le ali prottetrici di Capanna che alla violenza era personalmente alieno anche se ebbe il torto politico di avallarla. A Capanna piaceva piuttosto lo sberleffo, come il famoso ‘lancio delle uova’ alla Scala sulle signore impellicciate e invisonate che uscivano dal teatro. Io quella sera alla manifestazione non c’ero andato, mi ci trovai in mezzo per caso girovagando per la città come voleva la mia inquietudine notturna. Sbucando da una via laterale vidi il casino, i manifestanti, la polizia. Qualunque borghese di buon senso se ne sarebbe tenuto alla larga. Arrivò invece una lucente macchina blu. Alla guida c’era un uomo con a fianco una splendida bionda. Era Gian Giacomo Feltrinelli con la seconda moglie, Sibilla Melega. Feltrinelli che era a sinistra della sinistra (con portafoglio a destra, naturalmente) pensava di essere intoccabile. Ma i manifestanti non lo riconobbero, nonostante gli inconfondibili baffi, o forse non sapevano nemmeno chi fosse. Circondarono la macchina, la tempestavano di pugni, cercando di sfondare i finestrini e di rovesciarla. «No, no, è un compagno, è Feltrinelli!» gridava inutilmente qualcuno. Intervenne la polizia. Fra quelli che cercavano di proteggere Feltrinelli e la Melega c’ero anch’io. E feci male. Due volte male. Perché nel parapiglia generale mi beccai una ginocchiata nella coscia, il classico ‘colpo della vecchia’, da un caramba e zoppicai per un paio di giorni e perché quel rivoluzionario dilettante meritava una lezione e forse non sarebbe andato a morire qualche anno dopo quando, del tutto inesperto e incapace, cercò di mettere una bomba sotto un traliccio dell’Enel a Segrate.
Più divertente è quanto successe in Largo Gemelli davanti alla Cattolica. Sulla sinistra dello spiazzo c’era una caserma dei carabinieri. Capanna, con un megafono, intimò loro di arrendersi o qualcosa di simile. Si sentirono i tre classici squilli di tromba e cominciò la carica. Ci rifugiammo in una chiesa sconsacrata, lì accanto. Ma eravamo circondati, in trappola. Capanna con altri afferrò una grande asse di legno che serviva per i restauri e la usò come un maglio contro una porticina che dava sul retro. Era una scena medioevale. Nella mia immaginazione postuma lo vedo con indosso una tonaca da monaco (del resto, con quel viso umbro, ce l’aveva un po’ l’aria del monaco eretico). Sfondammo la porta e ce la filammo.
Nell’ottobre del 1973 – ero già passato all’«Europeo» – feci per «Linus», una mappa dei vari gruppi della sinistra extraparlamentare che Oreste del Buono titolò «L’extramappa»: MS, Lotta Continua, Avanguardia Operaia, marxisti leninisti (linea-nera), Potere Operaio (‘Potop’ in gergo, soprannominato anche ‘molotov e champagne’ perché vi militavano ragazzi dell’aristocrazia e dell’alta borghesia romana, fra cui Paolo Mieli futuro direttore del «Corriere della Sera»), Lotta comunista e le ancora misteriose Brigate Rosse. Li analizzavo nei contenuti e, in linea ascendente, secondo la loro propensione alla violenza. Un’inchiesta non pregiudizialmente ostile. Molti di quei ragazzi, soprattutto in Lotta Continua e nel Movimento studentesco, li conoscevo bene. Cercavo di essere obbiettivo. Alla Statale fu appeso un tazebao in cui Oreste del Buono ed io venivamo bollati come ‘spie della CIA’. Oreste, uno degli uomini più intelligenti che ho conosciuto, ma vilissimo, prese subito le distanze dall’‘extramappa’ e, soprattutto, da me. Mi arrivò un minaccioso biglietto di Oreste Scalzone e di Giairo Daghini, di cui al momento non valutai la pericolosità. Ma l’agguato non venne da lì. Nell’‘extramappa’ avevo preso in giro uno dei leader del MS, Luca Cafiero «di cui nessuno sospettava le virtù rivoluzionarie, essendo conosciuto come un ‘bravo ragazzo’, un po’ ‘ciula’, che si era educato a Oxford, faceva l’assistente e girava in Triumph». Quando Ilio Frigiero, un mio amico militante di Lotta Continua che mi aveva aiutato a compilare l’‘extramappa’ e che conosceva i suoi polli, lesse quel passaggio mi disse: «Tu sei pazzo». Qualche sera dopo mentre rincasavo arrivarono in quattro, con i caschi da motocicletta e le catene. Quando il capo del manipolo mi fu quasi addosso lo riconobbi al di là della visiera: era Giorgio Livrini, l’allegro ragazzo con cui sei anni prima avevo fatto il ‘guardiaporte’ alla Statale. Si era appesantito nella stazza del picchiatore. Dissi: «Giorgio...». Vidi nei suoi occhi passare un lampo, che diceva «Questo qui adesso o lo ammazzo, perché mi ha riconosciuto, o lasciamo perdere». Finì a tarallucci e vino. Andammo tutti e cinque da Oreste a berci un bicchiere. Ma se, per volontà del Caso, le cose non fossero andate in quel modo, sarei finito anch’io in sedia a rotelle, come in quegli anni è capitato a molti.
Penso che, in estrema sintesi, il Sessantotto sia stato lo sfogo di una generazione di giovani, che non avevano vissuto, nemmeno di striscio, la guerra, che non avevano vissuto alcun avvenimento fondante e che, come tutti i giovani, avevano una gran voglia di menar le mani («Non si può essere socialdemocratici a vent’anni»). Fu anche il frutto di una generazione di adulti, «che non seppero fare gli adulti», come scrisse Oreste del Buono, che non dissero quei no, ma neanche quei sì, che pur andavano detti, e di una Democrazia Cristiana che, come suo solito, arretrò davanti al fenomeno, almeno fino al delitto Moro, sperando che si esaurisse da solo. E così da noi il Sessantotto, con i suoi addentellati successivi, assai più gravi e sanguinosi, è durato una dozzina d’anni, in Francia e in Germania un paio.
Politicamente il Sessantotto, per prendere a prestito un’espressione di Luigi Einaudi usata per la massoneria, fu «una cosa comica e camorristica». Figli della borghesia che avrebbero dovuto spazzar via la borghesia. Una cosa che avrebbe fatto rivoltare nella tomba il buon Marx. Questi ragazzi di buona famiglia, di giorno giravano per le strade gridando «Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi», «Fascista, basco nero, il tuo posto è al cimitero», «uccidere un fascista non è reato», spaccando vetrine e a volte anche crani, ma la sera, quando rientravano nelle belle case dei loro padri, si attaccavano al telefono: «Pronto Dadi. Pronto Leonetta» che non sono precisamente dei nomi proletari. Nel Movimento studentesco di Milano c’era un solo operaio, un certo Lo Bue, che veniva portato in giro e ostentato come una ‘madonna pellegrina’. Agganci meno vaghi con le fabbriche li aveva Lotta Continua che però non fu mai vista di buon occhio dagli operai. In seguito vennero giovani che presero sul serio quelle parole. I terroristi. Più stimabili, almeno quelli della prima generazione, che mettevano in gioco oltre la vita altrui anche la propria.