Sex, drugs and rock ‘n’ roll

La politica, in particolare quella democratica, con i suoi compromessi, i suoi torbidi intrighi, i suoi riti astratti, la sua esangue mancanza di nerbo e insomma di vita, non mi ha mai appassionato. Un’esistenza da seduti. Non per niente ho scritto, nel 2002, Sudditi. Manifesto contro la Democrazia che ha come suo simbolico contraltare la biografia del Mullah Omar (2011), che al di là di ogni presa di posizione ideologica, racconta di un’esistenza degna di essere vissuta. A me è interessato sempre, solo e semplicemente, l’uomo.

Nelle migliaia di pagine scritte da Massimo Fini vanamente cerchereste anche un solo brano dedicato alla politica in senso stretto. Anche quand’era all’«Europeo» mentre i suoi colleghi facevano spallate per seguire i ‘grandi eventi’, lui preferiva raccontare storie, insolite e bizzarre della cronaca italiana. Il fotografo che in Vietnam, durante la guerra, era stato il principe dei reporter, il più coraggioso, ma che tornato in Italia si trovò ad avere a che fare con un nemico molto più insidioso dei vietcong, la canea dei ‘paparazzi’ romani, non resse questa concorrenza e si impiccò in un buio e squallido scantinato (Questa vicenda è utilizzata nel romanzo Il Dio Thoth, 2009). La storia, che il direttore dell’«Europeo» intitolò ‘Il Jean Valjean italiano’, di un uomo che quarant’anni prima in un paesino della Puglia aveva ucciso la moglie, per gelosia. Ed era riuscito a sfuggire alla caccia delle forze dell’ordine. In realtà si era rifugiato in un paesino poco lontano, facendo il fabbro, lavorando da mane a sera e conducendo una vita irreprensibile perché non poteva permettersi nemmeno un’infrazione stradale, altrimenti gli avrebbero chiesto i documenti e sarebbe stato scoperto. Quando fu alla fine rintracciato, un comunicato dei carabinieri ne annunciò la cattura con toni trionfalistici, come se si trattasse di un pericolosissimo capomafia. Un’altra storia, quasi al contrario, riguardava un uomo che, di punto in bianco, era sparito dal suo paese (siamo sempre al Sud) abbandonando moglie, figli e lavoro e vi era poi ritornato trent’anni dopo pretendendo di ritrovare il suo posto nella comunità, nello stesso ruolo in cui l’aveva lasciata.

Anche quando mi mandavano all’estero non sceglievo mai, a meno che non ci fossero esigenze particolari, degli hotel di lusso (quelli che piacciono tanto a Carlo Rossella) ma alberghi a due o tre stelle perché se vuoi conoscere un luogo e la gente che vi abita o vi circola, il servizio, oltre ai racconti dei tassisti che dall’aeroporto ti portano in città, comincia proprio da lì.

Sono sempre stato affascinato dai mondi ‘borderline’, poveracci, accattoni, clochard, barboni, alcolisti, piccola malavita, omosessuali fino a che sono stati costretti a vivere nelle catacombe (dopo sono diventati insopportabili). Insomma il mondo dei ‘relitti dell’esistenza’, i frequentatori dei ‘bar della rabbia’ di una bella canzone di Alessandro Mannarino. Non perché a me piaccia pascermi della sofferenza altrui nel modo vampiresco di Madre Teresa di Calcutta. Nulla di più lontano da me. Ma per altre ragioni. Penso che un pizzico di verità, se mai esiste, o comunque di umanità si trovi più facilmente nel mondo della miseria, del dolore e dell’emarginazione che nei luoghi di lusso o, più borghesemente, all’Ikea o negli outlet dove compunte famigliole vanno a consumare le loro domeniche.

Poi c’è un processo di autoidentificazione. Io mi sono sempre sentito ‘un vinto della vita’. Anche quando l’ho avuto mi sono comunque definito «un fallito di successo». C’è in me uno spleen, una malinconia di fondo, un mal de vivre che mi accompagna da quando ho ‘l’età della ragione’ e forse anche prima. Questo non mi ha impedito di avere periodi di serenità e anche momenti di – diciamo la parola proibita – felicità («Esiste, in rari momenti della vita di un uomo, un rapido lampo, un attimo fuggente e sempre rimpianto, che chiamiamo felicità», Cyrano, se vi pare...).

In questo credo di essere rimasto profondamente cristiano. Ma il Cristo cui io penso è quello di Jesus Christ Superstar, a sua volta un ‘borderline’, uno che delira, un mezzo folle che crede veramente di essere figlio di Dio e che sulla croce dubita, umanamente dubita con quella invocazione che, secondo me, è la più commovente del Vangelo: «Padre, padre, perché mi hai abbandonato?».

Per me la questione di fondo, irrisolta, che altri potranno giudicare puerile, è stata sempre la mancanza di senso. Il senso l’ho cercato per tutta la vita ma non sono stato capace di trovarlo. Ho provato a riempire questo vuoto con l’iperattività. Molti ricorrono alla Fede. Io sono troppo razionale per aderire. Alle mie spalle c’è sempre un occhio, una sorta di ‘terzo occhio’, che mi guarda vivere, che mi osserva, che mi giudica, continuamente, ossessivamente, e che si è chiuso solo pochissime volte. Io penso che tutte le religioni siano nate per lenire l’angoscia di morte dell’uomo, l’unico essere del Creato lucidamente consapevole della propria fine. È umano e comprensibile. Esiste un unico popolo che, secondo Mircea Eliade, il massimo studioso di religioni, non ha iddii né alcuna forma di culto. Sono gli indigeni delle Isole Andamane, quelli che si sono salvati, tutti, dallo tsunami pur essendo vicinissimi all’epicentro del maremoto. Per la verità in tempi remotissimi un dio l’hanno avuto anche loro. Si chiamava Peluga. Ma essendosi accorti che questo dio se ne fregava altamente di loro lo hanno rimosso e dimenticato. E questo non gli ha impedito di vivere, per millenni, felici e contenti.

Un giornalista, non mi ricordo più chi, facendomi un ritratto, mi ha definito «un mistico senza una fede» e Salvatore Scarpino, sul «Giornale», «un febbricitante ufficialetto russo», una specie di conte Vronskij, l’amante di Anna Karenina, che non è poi cosa tanto diversa. Mi riconosco in questa definizione. Quello russo è un popolo mistico e nessun comunismo è riuscito a sottrargli questo carattere (ce la farà forse il turbocapitalismo). Quando chiesi a mia madre di accompagnarmi ad intervistare Nurejev a Londra per ammorbidire l’ombroso tartaro, i due si misero subito a parlare della ‘grande Madre Russia’, della terra russa, della tundra, del Volga. Erano entrambi atei ma c’era nel loro rapporto con la terra un che di animistico, di spirituale. Qualcosa del genere alberga anche in me. Non c’è stata quasi notte della mia giovinezza in cui non uscissi di casa, prendendo la macchina, nella speranza di incontrare se non Dio il Mistero. In genere incontravo dei ragazzotti autostoppisti strapenati che mi chiedevano di portarli in qualche ‘non luogo’ dell’hinterland. Lo facevo e ritornavo a casa. Deluso.

Questa esigenza di spiritualità è stata sempre molto forte in me. Come Bergman o Prezzolini ho cercato Dio tutta la vita, senza trovarlo («Se c’è, si è nascosto molto bene» ha detto Baudelaire).

Comunque escludo, per quel che mi riguarda, conversioni in articulo mortis, alla Guttuso, dettate solo dal terrore della morte. Se Dio ci fosse davvero (ma «la sua sola giustificazione è di non esistere» ha detto un altro scrittore francese) penso che non terrebbe in alcun conto queste conversioni dell’ultimo minuto. Claudio Villa, il reuccio di insopportabili canzoni melodiche all’italiana, si è riscattato, ai miei occhi, quando colpito da infarto mentre cercava di avviare la sua moto, trasportato in ospedale, intubato e attaccato ai soliti macchinari, si strappò tutto guadagnandosi una morte degna.

Spostando lievemente il tiro, uno dei miei problemi è stato quello di avere una fortissima passionalità, quella, toscana, di mio padre, e un’altrettanto forte istintualità, slava, ereditata da mia madre, che la mia razionalità, lo stramaledetto ‘terzo occhio’, ha quasi sempre castrato. Hanno trovato sfogo nella scrittura, nella polemica violenta e, in qualche caso, nelle relazioni sentimentali.

Non ho mai avuto nulla a che fare con la droga. Appartiene a una generazione di poco successiva alla mia. A metà degli anni Sessanta andai in Afghanistan con degli amici di poco più giovani attratti dal fatto che in quel Paese c’era libertà di spinello (l’altra meta era il Nepal). Ne fumai uno, non mi fece alcun effetto e lasciai perdere. Conobbi però gli afgani. È gente che se non gli vai a sangue è meglio che giri alla larga, altrimenti ti cacciano a colpi di kalashnikov, se invece ti prendono in simpatia diventano ospitalissimi. Noi, che eravamo una decina, facemmo amicizia con alcuni ragazzi afgani della nostra età. Per un paio di settimane ci ospitarono nella fattoria del loro clan, poco fuori Kandahar (il Mullah Omar che è nato a Tarok e che a quell’epoca doveva avere sette od otto anni, non era molto lontano). Poco distante c’era un altro clan che ospitava, allo stesso modo, dei ragazzi francesi. Non so cosa avesse combinato uno dei francesi, fatto sta che si presentò la polizia del re (allora c’era ancora il re, Zahir Shah) per arrestarlo. «Il ragazzo è mio ospite – disse il capoclan – e finché è mio ospite voi non lo toccate. Quando uscirà dalla mia casa non sarà più affar mio». E i poliziotti se ne andarono. Quando penso che oggi a «Tolo Tv», la televisione di Kabul, c’è un format molto simile a X Factor, con giovani afgani ingiacchettati e incravattati, viene voglia a me di imbracciare il kalashnikov (ci penserà Omar, quando verrà il momento, a rimettere le cose a posto).

Questa faccenda della mia lontananza dalla droga ha un’eccezione. Ero a Londra e non so perché mi calai uno yellow sunshine, un acido potentissimo. Quattro cinque ore dopo mi ritrovai steso vicino ai binari della metropolitana di Londra in un tratto all’aperto. Cosa abbia fatto in quelle ore non lo so. Posso aver fatto di tutto. L’esperienza fu così traumatica che non la ripetei più.

La mia è stata la generazione dell’alcol. Ho bevuto whisky in quantità industriale. Non mi piaceva, non mi è mai piaciuto, ma se ne bevevo un bicchiere poi ne infilavo altri dieci. Quando giocavamo a poker whisky e fumo erano di rigore. Eppoi vodka pepata, gin, rhum, Carlos Primero, Alexander, Rosso antico, tequila («Tequila bellezza altiera, regina della tribù» era una canzone di quegli anni, legata al mio primo amore), insomma ogni genere di schifezze. I miei compagni, prima o poi, finivano sotto il tavolo. Io no. Ma qui stava l’insidia. Quando nel 1979 dopo quasi vent’anni di questo andazzo andai da uno specialista per smettere, perché era nato mio figlio e non volevo farne un orfano, il medico mi disse: «Lei non può aver bevuto quanto dice, perché il suo fegato è a posto, ingrossato solo di mezzo dito». Sì, il mio fegato era a posto, o quasi, ma l’alcol aveva cominciato ad attaccarmi il sistema nervoso. Smisi e dopo un anno e mezzo in cui mi ricostruii fisicamente senza bere un goccio (se incappavo in un cioccolatino con dentro un po’ di liquore lo sputavo) e annoiandomi a morte, caddi nella più grave delle depressioni, la peggiore delle tre che ho avuto nella mia vita.

Da giovane, e anche nella maturità, avevo un surplus di energie. Quelle in più le scaricavo nell’autodistruzione. L’alcol era l’ideale. Anche se è un amante molto esigente. Avevo cominciato a bere dopo la morte di mio padre, prima poco, poi in maniera sempre più smodata. Il giornalismo, cui approdai dieci anni dopo, non aiutava di certo. Tu vai in luoghi di cui non conosci la lingua, i costumi, la storia, se non sommariamente, e devi tornare indietro con un servizio che dia il senso di quei posti. L’alcol ti aiuta a superare queste difficoltà (siano stramaledetti i paesi musulmani).

Io poi, come quasi tutte le persone aggressive sulla pagina, sono fondamentalmente un timido. E una persona rigida, poco duttile. In servizio devi scordartelo. Se fai un’inchiesta sul mondo mafioso devi fingere di simpatizzare coi mafiosi, mica gli puoi dire «tu, mafioso di merda, mi fai schifo». Se ti toccava un servizio sugli omosessuali dovevi fingerti un po’ dei loro. Questo, ad esser sinceri, mi veniva meglio. Una volta scandalizzai i miei colleghi dell’«Europeo» raccontando che a una festa in maschera di gay avevo ballato ‘cheek to cheek’ con un postino di Cremona. «Esigenze di servizio» mi giustificai. A quella festa ero andato a volto scoperto, per quella spavalderia che era un altro aspetto del mio carattere: il piacere di provocare. Vidi un tipo che, dalla corporatura e dalle movenze, mi sembrava di conoscere. Gli andai vicino e gli sollevai la mascherina azzurra. Era uno dei più noti giornalisti italiani, di qualche anno più anziano di me. Impallidì. «Non vorrai mica sputtanarmi?». «Non ci penso neanche. Stai tranquillo» (oggi, dopo Renzi, si direbbe «stai sereno»). La cosa curiosa della sua reazione è che eravamo sullo stesso piano. Anche lui avrebbe potuto sputtanare me. Ma evidentemente aveva capito, dal viso scoperto, che ero in servizio e che comunque non ero esattamente del giro. Un ottimo, sfortunato, collega, Francesco Frigieri, curioso come una scimmia, mi ha chiesto per anni di rivelargli il nome dell’‘uomo mascherato’, giurando e spergiurando che non l’avrebbe detto a nessuno. Ma io conosco troppo bene i miei polli, se gli dici una cosa prima o poi la scrivono. È più forte di loro.

E io non sono diverso. Una sera, a cena, con Umberto Bossi, in una di quelle pizzerie che tanto gli piacevano, gli chiesi: «Senti, Umberto, pistola alla tempia, tu sei più di destra o di sinistra?». «Di sinistra – rispose – ma se lo scrivi ti faccio un culo così». Resistetti per qualche tempo, ma poi un giorno raccontai quel siparietto.

Caro, vecchio, Umberto. Io lo considero l’unico uomo politico italiano comparso su piazza nell’ultimo quarto di secolo. Era un uomo semplice e geniale. Aveva la capacità di assemblare gli elementi più diversi, di utilizzare le sue poche letture, e di usare gli uni e le altre ai propri fini. Che è il segno della vera intelligenza. L’importante non è sapere. Importante è capire. Friedrich Nietzsche è sempre stato accusato dagli accademici di non essere un vero filosofo perché da filologo classico qual era in partenza non conosceva tutta la storia del pensiero. Ma lui prendeva di qua e di là ciò che gli interessava, lo ruminava e da brava mucca trasformava in latte quella che era della semplice erba. Fuor di metafora, tirava fuori un pensiero del tutto nuovo. Bossi, a sua misura naturalmente, è un po’ così.

Un giorno l’Umberto mi telefonò perché intendeva affidarmi la direzione dell’«Indipendente». Gli dissi: «Vabbè, vieni qui, a casa mia». Qualunque altro uomo politico, anche di terza schiera, non dico un D’Alema, avrebbe preteso che fossi io a raggiungerlo nel suo ufficio, magari dopo avermi fatto passare per un paio di sottopanza e aspettare in anticamera. Dopo un’ora Umberto Bossi era seduto sul mio sdrucito divano rosso (Sul quale peraltro si sono posati culi famosi, da Susanna Agnelli in giù, ma questo in un altro periodo della mia vita, fra i trenta e i quarant’anni, quando sull’onda di un certo successo facevo un po’ di vita mondana. Per la verità il mio trucco era di non andare alle feste e ai ricevimenti a cui venivo invitato se non con il contagocce, così quando comparivo le tipe erano curiose. Facevo il prezioso). Intimidito dalla mia libreria volle fare il ganzo e indicandomi un volume di uno degli scaffali più alti disse che era La Ragione aveva Torto?. Sbagliava, naturalmente. Ma io dissi: «Ci hai proprio azzeccato». Qualche volta la sera a Daniele Vimercati, mentre mangiavamo una pizza, veniva l’idea di telefonare a Bossi: «Siamo qui, io e Fini, perché non ci raggiungi?». E lui, se non aveva niente di meglio da fare, arrivava. Era rozzo, ma spontaneo e, proprio per questo, affascinante, oltre che affettivo e molto simpatico.

Dopo la malattia l’ho rivisto una sola volta. In una pizzeria naturalmente, vicino a Varese. Ero con Gianluigi Paragone che cominciò a squittire: «Di sotto c’è l’Umberto!» (era un locale con un ‘grotto’ seminterrato). Lui salì. Ci abbracciammo. Aveva un’autonomia di non più di dieci minuti. Poi cominciò a sproloquiare di donne. Poiché quella volta che era venuto da me gli aveva aperto la mia bella e affascinante fidanzata, credeva che fossi un tombeur de femmes. Si sbagliava anche questa volta.

La direzione dell’«Indipendente» saltò proprio a causa di Vimercati. Con Bossi avevo concluso. Mi aveva garantito la massima libertà, quella che aveva avuto Daniele. Mi potevo fidare, perché nell’«Indipendente» di Vimercati c’ero stato, gli facevo da spalla e sapevo che era vero. Sperimentai, per la prima, e unica, volta il Potere. La mattina dopo cominciarono a telefonarmi decine di colleghi, molti dei quali non sentivo da anni, speranzosi di essere assunti al giornale. Non mi conoscevano. Chi telefonava, a meno che non fosse un amico vero, lo smarcavo. Non mi sono mai piaciuti i paraculi e i leccaculi. Io non telefono, per evitare equivoci, a un direttore entrante, caso mai a uno uscente, se penso che sia stato cacciato per motivi obliqui, come ho fatto, di recente, con Ferruccio de Bortoli e, in tempi più lontani, con Mentana quando lasciò Canale 5. Mentana l’ho conosciuto giovanissimo a Rimini a un meeting di Comunione e Liberazione. Dalla disinvoltura con cui si muoveva fra telecamere e microfoni si capiva che era tagliato per quel mestiere e che ne sarebbe diventato un protagonista. Non c’è niente da fare, questi ‘ragazzi’ sono nati con la TV. Noi no. Quelli delle generazioni precedenti ancor meno. Bocca, Montanelli e lo stesso Biagi non hanno mai ‘bucato’ il video. Erano giornalisti da Lettera 32. Biagi poi ha sempre scritto a mano e in ogni redazione c’era un ‘proto’ che sapeva decifrare la sua calligrafia.

Mentana mi ha invitato una sola volta a una sua trasmissione. Gad Lerner e Fazio mai, nonostante ‘Fabietto’ l’abbia conosciuto ragazzino ai Bagni Sirena di Albisola quando imitava Grillo nell’imitazione di altri personaggi e l’abbia incoraggiato a venire a Milano. Li capisco. Non voglio darmi troppa importanza ma invitarmi è pericoloso. Sono stato una sola volta a Ballarò da Floris. Si parlava, fra le altre cose, della guerra alla Serbia per il Kosovo, a cui l’Italia, premier D’Alema, che era presente alla trasmissione, aveva partecipato nel poco onorevole ruolo del ‘palo’. Dissi: «Mi perdoni, presidente, ma quella guerra oltre a non avere alcuna giustificazione è stata una guerra cogliona». E ne spiegai le ragioni. D’Alema non replicò. Inoltre avevo esordito dicendo, storpiando un po’ l’italiano a fini di efficacia: «Nego nel modo più assoluto che il Mullah Omar sia meno rappresentativo della sua gente del fatto che qui si infila una scheda in un’urna e salta fuori Renato Schifani». Ci fu un boato di risate. Ma a Ballarò non ho più messo piede.

A parte Funari, il solo a darmi un po’ di spazio in TV è stato Antonello Piroso. La prima volta che mi chiamò a una sua trasmissione, per presentarmi al pubblico tirò fuori tutti i miei libri spiegandone brevemente il contenuto e il senso. Ed è stato l’unico a trasmettere la sola azione un po’ incisiva che ho fatto col mio fallimentare ‘Movimento Zero’, un movimento politico-culturale cui mi aveva istigato Eduardo Fiorillo, il regista di Cyrano, se vi pare..., che però quasi subito se n’era andato privandomi delle sue capacità di organizzatore. In viale Mazzini, davanti alla sede della Rai, avevo fatto a pezzi con un’ascia, a mo’ di Ursus, qualche televisore. Non era una contestazione della Rai, ma del mezzo in sé, un po’ sulle orme del Mullah Omar che quando era al potere in Afghanistan aveva fatto abbattere tutti gli apparecchi televisivi, capendo benissimo che se un mezzo di questo genere entra in una realtà tradizionale la disgrega e la distrugge. Come poi è avvenuto.

Antonello Piroso è un uomo indipendente. E naturalmente, pur essendo un asso nel suo campo, ancora giovane, è finito ai margini del mestiere. Forse farà qualcosa ad aprile, sul web.

Cosa aveva combinato Vimercati? Per una notte intera aveva fatto un pressing asfissiante su Bossi perché rinunciasse a darmi la direzione dell’«Indipendente». Forse temeva che potessi farlo meglio di lui. O chissà cos’altro gli era passato per la testa. Gliela perdonai facilmente. In fondo, nonostante allora tifassi Lega perché speravo che potesse spazzar via il vecchio regime, andare a dirigere un giornale che comunque era di partito mi dava parecchio imbarazzo. Era contrario a tutta la mia storia. Avevo detto di sì solo per la simpatia che provavo per Bossi.

Non gli perdonai invece una mascalzonata che mi fece qualche anno dopo. Conduceva Iceberg a TeleLombardia e mi chiamava spesso come ospite. Aveva un’assistente bionda, di trentacinque anni, molto carina. Fra di loro c’erano solo rapporti professionali. A me la ragazza piaceva, ma sapendola sposata e con un figlio piccolo non ci avevo provato e forse nemmeno pensato. Ma ogni volta che arrivavo negli studi di TeleLombardia, in genere con largo anticipo, lei si materializzava misteriosamente al mio fianco. Una sera, terminata la trasmissione, mi chiese se potevo farle la dedica a un mio libro, Elogio della guerra. «Va bene. Vieni domani a casa mia». Venne. Si sedette sul bracciuolo del mio divano rosso e cominciò a dire che le ero simpatico, molto simpatico, tanto simpatico finché dovetti chiuderle quella bocca dalle labbra vermiglie con un bacio. Cominciò una storia. Daniele ne era all’oscuro. Un giorno lei uscì dagli studi di TeleLombardia, che erano molto vicini a casa mia, tenendo in mano un grande barattolo di marmellata. «Che ne fai?» chiese Daniele, incuriosito. «Lo sto portando al mio fidanzato». Un paio di giorni dopo Daniele venne a colazione da me. Alla fine, come dessert, portai in tavola quel grande barattolo di marmellata. «Ah, ma allora anche alla tua età si può... complimenti» disse, sorpreso. Ma non gli andò giù. Non propriamente per gelosia, perché fra i due non c’era un rapporto, ma per puro senso del possesso. Cominciò ad angariare la ragazza in tutti i modi, imponendole orari impossibili, congegnati in modo che le fosse molto difficile vedermi. Lei era sull’orlo di una crisi di nervi. Gli telefonai: «Sei uno stronzo». «Perché?» chiese, affettando innocenza. «Lo sai benissimo». E rompemmo i rapporti.

Vimercati era un ottimo professionista. L’«Indipendente» diretto da lui fu l’ultimo decente. Iceberg era un talk politico molto più ironico e divertente di quello di Vespa (non ci voleva molto) e molto meno partigiano (e anche qui ci voleva poco). Ma inevitabilmente non poteva avere politici di prima fila. Quando la trasmissione, per la pochezza degli ospiti languiva, Daniele mi guardava disperato, con quei suoi occhi tondi, da bambino, perché intervenissi e provassi a risollevare il tono del dialogo.

Mi ritelefonò un anno e mezzo dopo la nostra rottura. «Dammi pure dello stronzo, ma il pezzo che hai scritto oggi mi ha provocato quasi un orgasmo». Era un articolo, durissimo, contro l’intervento americano in Afghanistan. Facemmo pace.

Era un tipo divertente, Daniele, oltre che un uomo intelligente che conosceva bene i limiti della corsa esasperata al successo in cui pur era coinvolto, come ogni giornalista («Tutto questo sbattersi per avere poi, se va bene, tre righe sulla Garzantina»). La prima volta che l’avevo visto era stato in televisione. Lo stavano intervistando perché era diventato direttore dell’«Indipendente». Era vestito da ‘signorino’, come si autodefiniva, con un tocco un po’ démodé. Ma a parte questo particolare dissonante era la divisa classica del giornalista borghesuccio, ansioso di entrare nella cerchia ristretta dei direttori di giornale: giacca grigia, cravatta appropriata, pantaloni risvoltati in tinta con la giacca. «Ahi, siamo alle solite» pensai io che, pur essendone uscito, ero rimasto legato sentimentalmente all’«Indipendente». Ma a un certo punto, d’improvviso, di fronte alla solita domanda di routine, si lasciò andare a una risata spontanea e irriverente che non aveva niente a che fare col tono serioso che aveva tenuto fin lì, col rigore e il grigiore istituzionali di quello studio Rai, che sorprese l’intervistatore. E anche me. Due giorni dopo era a casa mia. Si inginocchiò, lungo com’era, implorandomi di ritornare all’«Indipendente». Era un ‘joke’. Gli piaceva scherzare. E sotto quei paludamenti esteriori, sotto quell’aspetto da borghese innocuo e ligio alle regole era un animo anarchico. «Il fuoco amico! Il fuoco amico!» mi telefonava sghignazzando ogni volta che gli americani, tirando a ‘chi cojo cojo’, erano riusciti a colpire i loro commilitoni. In segreto tifava, come me, per il Mullah Omar.

I nostri legami divennero molto stretti. Siccome circolavano voci sulla sua ambivalenza, ogni tanto gli chiedevo: «Daniele, dimmi la verità, sei omosessuale?». Lui rideva e non rispondeva.

Una sera dei primi di febbraio del 2002, alla fine di una puntata di Iceberg, mi confidò che era preoccupato, aveva dei dolori al petto e temeva l’infarto. «Ma che infarto. Hai quarant’anni, l’infarto viene ad altre età». In quello stesso periodo aveva ricevuto la proposta di condurre su Rai Due un programma in quota Lega. Io lo sconsigliavo: «In fondo, finora, sei riuscito a conservare l’immagine di un giornalista indipendente, se vai in Rai, ‘in quota Lega’ ti metterai addosso un marchio che non ti toglierai più». La sua fidanzata invece spingeva perché accettasse e mi guardava di sbieco. Lui tentennava. Mi telefonò: era in ospedale, una pleurite, nulla di grave. Lo chiamai un paio di giorni dopo. C’era la segreteria e lasciai un messaggio. In genere mi richiamava a breve, nel giro di un’ora, due al massimo. Quella volta non lo fece. Chiamai di nuovo. Non rispose. Lasciai un messaggio: «Ho capito, Daniele, ti stai nascondendo. Hai concluso con la Rai e ti vergogni a dirmelo». Invece, povero ragazzo, stava morendo.

Io sono un caotico, un casinista, un disorganizzato cronico. Sul servizio bisogna essere precisi, saper coordinare gli spostamenti, le tappe, gli appuntamenti. In Iran, in Marocco, in Tunisia, in Algeria, in Egitto gli arabi mi facevano impazzire. Chiedevi a uno: «Allora, dove ci vediamo?». «All’università». «L’università è grande, dove di preciso?». «Non ti preoccupare, vedrai che ci troviamo». «A che ora?». «Nel pomeriggio». «È un po’ vago». «Non ti preoccupare». Finiva che ci si trovava sempre. Ma per un occidentale, abituato ai ritmi delle lancette dell’orologio, era uno stress.

Così, sia per la mia innata timidezza sia per lo sforzo di organizzarmi, dovevo sdoppiarmi. Assumere un’altra personalità. Una schizofrenia che, insieme a molti altri fattori, contribuì a gettarmi definitivamente nelle braccia dell’alcol.

L’alcol è come una droga. All’inizio te ne basta poco a renderti euforico e disinibito per parecchie ore cui segue un breve periodo di depressione. Poi per raggiungere l’euforia devi aumentare la dose e il periodo di depressione si fa più lungo. Alla fine bevi moltissimo, l’effetto euforico è minimo, la depressione costante.

Nel dicembre del 1979, come ho accennato, smisi di bere, di colpo. In agosto mi venne una brutta ed equivoca influenza virale. Finché avevo bevuto non ero mai stato malato. Se prendevo una sbronza, cosa che accadeva spesso, mi bastava cacciarmi a bagno, in mare, per uscirne fresco come una rosa. Se prendevo un raffreddore un po’ forte facevo lo stesso e mi passava tutto. In viaggio i miei amici e le mie amiche erano spesso vittime di gastroenteriti pesanti. Io mai. Non bevevo acqua, solo whisky o gin o qualsiasi altro superalcolico che bruciava tutti i germi («Mi fa tanto male l’acqua minerale, scusate ma non la posso proprio bere, sono Fred dal whisky facile, ma son pur sempre amabile anche se bevo così» – Fred Buscaglione). Alle Tremiti dovetti smontare da solo le tende dell’intero campeggio perché tutti gli altri erano kappaò. Sul traghetto che ci riportava a Termoli camminavo sul vomito altrui.

Quell’influenza durò venti giorni. Vidi passare l’estate, nel suo colmo, col grido lacerante e quasi feroce delle cicale, dalle finestre della casa che avevo preso in affitto nell’entroterra ligure, a Stella Santa Giustina, il paese di Pertini (dove, conoscendolo, era detestato). Mia moglie usciva la mattina col bambino per andare al mare e tornava solo a sera. Io restavo lì con 39° di febbre. Scrivevo dei commenti per «Il Corriere medico», diretto da Paolo Pietroni. Lasciato da poco «L’Europeo» ero in uno dei miei periodi di disoccupazione. Nella casa non c’era il telefono. Dovevo scendere in un negozietto, tenuto da una vecchina, che aveva una cabina telefonica a gettoni. Dentro grondavo sudore, un sudore malsano che si univa a quello dovuto al caldo. Quando uscivo dalla cabina, fradicio, la vecchina ridacchiava: «Eh, eh, non stiamo troppo bene». Non faceva neanche lo sforzo di mascherare il sadico piacere dei vecchi quando vedono che un giovane potrebbe crepare prima di loro.

In quei giorni di febbre scrissi anche, per Rizzoli, la prefazione a Modesta proposta per prevenire di Giuseppe Berto. Me l’aveva chiesta la giovane moglie.

Berto lo avevo intervistato in un giugno di qualche anno prima nella sua bella casa romana. Com’è noto, Berto, ipocondriaco, per tutta la vita è stato un malato immaginario, convinto, in ogni occasione, di avere il cancro. Quel pomeriggio vidi questo bellissimo uomo scendere, malfermo sulle gambe, dalla scaletta di legno che portava al piano superiore, alle camere da letto. «Stavo per telefonarle e dirle di non venire. Oggi mi sento proprio male. E pensi che è l’unica volta in cui sono sicuro di non avere il cancro». E invece quella volta ce l’aveva ‘lo stramaledetto’ come lo chiamava Malaparte che, nonostante tutti gli scongiuri e le scaramanzie, finì per morirne. La stessa rimozione l’ho vista in Dino Buzzati che conoscevo bene perché era stato uno dei grandi amici di mio padre (fu uno degli otto che portarono a spalla la bara, come usava una volta). Buzzati in moltissimi dei suoi racconti ha parlato, in modo diretto o metaforico, di cancro e degli atroci inganni che si consumano su questi malati per nascondere loro la realtà (basta pensare a Sette piani, diventato poi anche un film, Il fischio al naso, con una magistrale interpretazione di Ugo Tognazzi). Quando fu la sua volta, Buzzati si lasciò abbindolare da quegli stessi inganni che aveva così lucidamente narrato. È un meccanismo di difesa.

Con Berto ci mettemmo a chiacchierare seduti su delle chaises longues sulla terrazza, in quello splendido pomeriggio romano. Parlando si rianimò, il male che lo attanagliava sembrò scomparire. La moglie fu così grata che gli avessi dato, involontariamente, con la mia presenza, ancora una giornata serena, che dopo la sua morte, avvenuta pochi mesi più tardi, mi inserì nella giuria del ‘Premio Berto-Opera Prima’. Una faticaccia perché bisognava leggersi una sessantina di volumi. Nei sette anni in cui sono stato giurato ci saranno stati, sì e no, tre libri di un qualche valore. Mi ricordo La variante di Lüneburg di Maurensig, i racconti di Francesco Piccolo e Dei bambini non si sa niente della giovane Simona Vinci che sponsorizzai molto ma non riuscii a far vincere perché era molto crudo e la giuria, presieduta da quel galantuomo di Gaetano Tumiati, era anzianotta e un po’ ‘prude’. E volle anche che facessi la prefazione a Modesta proposta.

Guarii, alla fine. Ma l’orizzonte si era improvvisamente abbassato. Un cerchio cominciò a stringersi intorno a me. Non potevo più fare quasi nulla, tantomeno le cose che avevo amato. Se andavo a vedere le corse all’ippodromo mi venivano le palpitazioni, sudori freddi, tremori alle gambe. Il cerchio dette un’altra stretta. Non potevo vedere nessuno, tranne mia moglie e il mio figlio piccolo. Con gli estranei il mio terrore non era di morire ma di ‘morire davanti a loro’. Mi chiusi in casa. Mi ricordo che la vigilia di Natale mi azzardai ad uscire per andare a comprare dei giocattoli per mio figlio. Al negozio non c’erano più di trecento metri. Ci andai in macchina. Comprai qualcosa, senza nemmeno guardare per fare più presto. Quando tornai a casa e mi chiusi la porta dietro le spalle mi ci appoggiai, ansimante, come se fossi scampato a chissà quale pericolo. Il cerchio si strinse ancora. Spostare un portacenere era un’impresa. Stavo raggiungendo uno stato di catalessi. Ero imprigionato nel mio corpo. Miracolosamente il meccanismo si fermava davanti alla macchina da scrivere. Quello potevo ancora farlo. Anzi il battere materialmente sui tasti della ‘Lettera 32’ scaricava, almeno in parte, una tensione altrimenti insostenibile (la macchina da scrivere è sempre stata, per me, un’ancora di salvezza, anche in occasioni meno drammatiche). Avevo acquisito una certa notorietà come editorialista e in quei due lunghissimi anni di depressione mi mantenni con i commenti oltre che con lo stipendio di insegnante di mia moglie. Ma di inchieste, servizi, interviste neanche a parlarne. Ero disoccupato e così potei nascondere le reali condizioni della mia salute. Ogni mattina, quando aprivo gli occhi, mi rendevo subito conto che nulla era cambiato e che la tortura sarebbe durata fino a sera quando sarei andato a letto. Per fortuna dormivo. Non chiesi aiuto né ai medici, che ho sempre temuto più delle malattie, né agli psicofarmaci. Ne sono uscito sperando, disperatamente sperando, che un giorno quella ‘cosa’ se ne sarebbe andata da sé, così come era venuta.

Il cerchio cominciò ad allargarsi, lentamente, molto lentamente. Nel novembre 1981, a due anni circa dall’inizio della depressione, il direttore di «Penthouse» italiano, Gian Franco Venè, che voleva dare un po’ di spessore a quel giornale, mi chiese di fare un’intervista jusqu’au bout a Catherine Spaak. Per me prendere un aereo per Roma era ancora un grande sforzo. Incontrare la Spaak, che era stata un mito della mia generazione, aggravava le cose. Arrivai in via dell’Anima dove aveva una bellissima casa che, da un lato, dava su piazza Navona. Nei suoi trentotto anni, con i biondi capelli raccolti da un nastrino rosso, era bellissima e affascinante, molto più dell’implume ragazzina che fa impazzire Ugo Tognazzi ne La voglia matta. Io mi sentivo svenire. Temevo di morire davanti a lei. L’ignominia assoluta. Catherine si accorse quasi subito che c’era qualcosa che non andava. «Non si sente bene?». «Sì, non mi sento bene» ebbi il coraggio di confessarle. Lei fu molto comprensiva, accuditiva, quasi materna, caratteristiche che, avendola conosciuta meglio in seguito, non direi che facessero proprio parte del suo carattere. Era rigida. Incasellava ogni cosa in certe cellette del suo cervello, ben ordinate e separate come quelle dell’alveare di un apicultore. Questo bisogno d’ordine, quasi maniacale, si notava anche nella sua casa, non c’era incartamento, plico, mazzo di matite che non fosse accuratamente avvolto in un vezzoso nastrino, ognuno di diverso colore. Io la chiamavo ‘la tedesca’. A quell’età, non più ninfetta, aveva il fascino e l’eleganza di una donna della grande borghesia europea. Suo zio, Henry Spaak, era stato, con Adenauer e De Gasperi, uno dei padri dell’idea di un’Europa unita. In quel periodo si era messa a fare la giornalista e lavorava con impegno e diligenza per pochi soldi, lei ricchissima.

«Venga, andiamo di là, in cucina, a farci un caffè». Chiacchierammo per un po’ e poi, tornati in sala, facemmo l’intervista. Rientrato a Milano scrissi, di notte, l’articolo di 15 cartelle che mi era stato richiesto, cui Venè diede il titolo ‘Catherine Spaak - Una donna dell’Europa borghese’ («Penthouse», novembre 1981).

Quella confessione fu liberatoria. La depressione si affievolì fino a sparire del tutto. In seguito capii cosa era successo. Per vent’anni l’alcol mi aveva protetto come una seconda pelle. Dopo mi ritrovai come se al posto della pelle ci fosse la carne viva, allo scoperto. Nei due anni di depressione avevo dovuto ricostruire la mia personalità, senza la difesa dell’alcol. Giurai a me stesso che non avrei più toccato una goccia di liquore. Ero stato troppo male. Volevo anche sfatare il detto che l’alcolista, prima o poi, ritorna sui propri passi. Invece ci ricascai, come tutti. Una quindicina di anni dopo. Se prima avevo bevuto in quantità industriale, adesso bastavano un bicchiere di grappa e un paio di vino per rendermi una larva. Mi ricordai di Cassano, che avevo intervistato una ventina di anni prima per un’inchiesta sui quarantenni. Mi era parso un tipo in gamba. La sua cura, a base di prozac, era allora molto in voga. Telefonai. La segreteria mi disse che il primo appuntamento disponibile sarebbe stato a febbraio. Eravamo ai primi di ottobre. Il giorno dopo, mentre ero disteso, inerte, sul letto, squillò il telefono. Era la segreteria che mi informava che si era liberato un posto. Per l’indomani. Telefonai alla mia fidanzata, che viveva a Lugano. Mi raggiunse e partimmo per Pisa la mattina seguente. L’appuntamento era per le tre. Arrivammo con largo anticipo. L’ambulatorio di Cassano stava nel sottotetto di un edificio sulla strada che va dalla vecchia stazione verso San Rossore, dove avevano abitato i miei parenti. «Vuoi che facciamo un salto a Pisa? – mi chiese Mariella – Magari per andare sulla tomba di tuo padre». «Non me la sento». Alle tre in punto ci presentammo. Un’assistente di Cassano mi fece una serie di domande, scandagliando ogni dettaglio della mia vita. Alla fine mi chiese se bevevo. Stupii. Ero lì per quello, come li avevo informati. Ci disse di attendere nella sala d’aspetto gremita di gente. Mi accorsi subito che lì non c’era la depressione, ma lo snobismo della depressione. Borse di Gucci e abiti firmati. Mentre Mariella sfogliava delle riviste, chiacchierai un po’ con una ragazza grassa che sembrava l’unica ad avere dei problemi seri. L’attesa si prolungava. Un’ora, due ore, tre ore. Mi dissi: se riesco a resistere in questo sottotetto soffocante, opprimente, che farebbe saltare i nervi a uno sano, per tre ore, senza toccare un bicchiere, beh forse non sono così compromesso. Dopo un’altra mezz’ora, alle sei e mezza di sera, fummo chiamati. Mariella restò fuori. Cassano mi riconobbe e rivolto alla sua assistente disse: «Ma come, mi fa aspettare tre ore il Massimo Fini?». Quella frase mi irritò. Non si fa aspettare nessuno, che è in quelle condizioni, per tre ore, non solo ‘il Massimo Fini’ perché è un personaggio più o meno noto. Si era tinto i capelli di un nero improbabile e sul tavolo c’erano, in bella vista, delle plaquette che pubblicizzavano il suo ultimo libro. Me ne diede una. L’assistente, in piedi, come una scolaretta, lesse, con voce neutra, la scheda con le note che aveva raccolto. Sentire passare la mia vita in pillole mi avvilì. Cassano mi fece una visita neurologica ridicola. Avevo qualche esperienza in proposito. Dopo fu permesso a Mariella di entrare. Cassano diede una plaquette anche a lei, quando seppe che lavorava per la Radio della Svizzera italiana. Mi prescrisse una cura a base di psicofarmaci che non aveva nulla di speciale, nulla di diverso da quella che mi aveva consigliato il medico della mutua, il mio vecchio compagno di liceo Giuliano Sevieri. Poi mi disse di fissare il ricovero nella sua clinica entro una quindicina di giorni, per disintossicarmi.

Mariella guidava, in silenzio. Io rimuginavo. Cassano non mi era piaciuto per nulla, ma temevo che la mia ostilità non fosse innocente, che fosse una resistenza psicologica, perché non volevo ricoverarmi. Chiesi a Mariella: «Che impressione ti ha fatto?». «Pessima» rispose senza esitare. Era bizzarra, bizzosa, spesso insopportabile, ma molto intuitiva, insomma ‘l’eterno femminino’. Le dissi di puntare su Viareggio, che mi è sempre piaciuta. Cenammo sulla passeggiata e bevvi un bicchiere di pessimo Chianti. Che per molto tempo sarebbe stato l’ultimo. Andammo a letto presto. Io non dormivo da dieci notti a fila. Quando ero sdraiato un tremore interno (non esterno, non un inizio di ‘delirium tremens’ alla Poe) mi impediva qualsiasi quiete. Non dormii nemmeno quella notte. La mattina andammo a far colazione sulla passeggiata. Era il 14 ottobre del 1994, una splendida giornata di sole. Dissi a Mariella di andare a comprare dei costumi e degli asciugamani. Quando mi affacciai sulla spiaggia e vidi il mare così lontano pensai che non l’avrei mai raggiunto. Ero troppo fiacco. Attraversai la spiaggia con la lentezza esasperante con cui, in Morte a Venezia di Luchino Visconti, Dirk Bogarde si trascina per raggiungere la sdraio su cui si accascerà liquefacendosi di rimmel (Nel film la scena, sia pur con qualche flash back, dura venti minuti esatti. Lo vidi, non so perché, in un cinema di Monza. Al decimo minuto il pubblico cominciò a ululare. Dovetti rivederlo a Milano perché, nonostante certi eccessi estetizzanti tipici di Visconti, è un gran film). Mi stesi sull’asciugamano. Lo stramaledetto tremore c’era sempre. Intorno a noi c’era gente che prendeva il sole, altri passeggiavano sull’arenile. Nessuno però, in quella stagione avanzata, faceva il bagno. Decisi di cacciarmi in mare, da sempre mia estrema risorsa. Nuotai a lungo. Quando mi ridistesi sull’asciugamano sentii che il tremore era quasi scomparso. Allora mi alzai in piedi e facendo il gesto dell’ombrello, fra la gente che guardava stupita, gridai a squarciagola: «Cassano, vaffanculoooo!». Mi presi un colossale raffreddore ma non bevvi più. E questa fu la mia cura.

Qualche mese dopo Mariella entrò in crisi. Non capivo perché. Tutto andava bene, almeno secondo i nostri standard: furibondi litigi di giorno, ricomposizione la notte, a letto. La mattina, vestita per uscire, in uno dei suoi eleganti tailleur, mi guardava con occhi da impunita, come se qualche ora prima, sotto quelle vesti, non fosse successo di tutto. E mi rendevo conto che dovevo ricominciare da capo. Sedurla ogni giorno. Un gioco, a suo modo, affascinante. Inoltre Mariella mi aveva chiesto sempre, insistendo molto, di smettere di bere, per il mio bene. L’avevo fatto. E allora? Solo dopo averla torchiata a lungo venne fuori la verità: «È che adesso non ti posso più salvare».