ERA IL VENTISETTESIMO anno del sine die nel regno del Re Sempiterno e il suo assassino stava aspettando di morire.
L’uomo era affacciato a una finestra sottile, impaziente che arrivasse la sua fine. Le mani tatuate erano strette dietro la schiena, sporche di sangue secco e di ceneri pallide come luce siderale. La sua stanza era situata nella parte più alta di una torre solitaria, baciata da insonni venti montani. La porta era rivestita di ferro, pesante, chiusa a chiave come un segreto. Dalla sua posizione elevata, l’assassino osservava il sole calare verso un riposo immeritato e si domandava di cosa sapesse l’inferno.
L’acciottolato del cortile sottostante gli prometteva una breve caduta in un’oscurità senza sogni. Ma la finestra era troppo stretta per passarci attraverso e i suoi carcerieri non gli avevano lasciato nient’altro per dormire. Solo un po’ di paglia, un secchio in cui defecare e il panorama di un fragile tramonto, una specie di tortura finché non fosse arrivata quella vera. Indossava un cappotto pesante, vecchi stivali e brache di cuoio macchiate da lunghe strade e fuliggine. La sua cute pallida era madida di sudore, ma il respiro si condensava nell’aria e nessun fuoco ardeva nel caminetto alle sue spalle. I sanguefreddo non volevano rischiare una fiamma, nemmeno nelle loro celle.
Presto sarebbero venuti a prenderlo.
Adesso lo château sotto di lui si stava svegliando. Mostri si alzavano da letti di terra fredda e assumevano quella loro parvenza di umanità. L’aria all’esterno pullulava del battito d’ali di pipistrelli. Soldati ammaliati, ricoperti di acciaio scuro, pattugliavano i bastioni sottostanti, con lune e lupi gemelli che adornavano i mantelli neri. Le labbra dell’assassino si incurvarono nell’osservarli: uomini che montavano la guardia dove nemmeno un cane si sarebbe abbassato.
Il cielo sopra di lui era scuro come il peccato. L’orizzonte rosso come le labbra della sua signora l’ultima volta che l’aveva baciata.
Si passò un pollice sulle dita, le lettere tatuate sotto le nocche. «Patience» sussurrò.
«Posso entrare?»
L’assassino si impose di non sussultare: sapeva che il sanguefreddo l’avrebbe apprezzato. Invece continuò a guardare, fuori dalla finestra, le montagne simili a nocche spezzate, le vette ricoperte di neve grigio cenere. Riusciva a percepire la creatura in piedi dietro di sé, lo sguardo che vagava sulla sua nuca. Sapeva cosa voleva, perché si trovava lì. Sperava che avrebbe fatto in fretta e sapeva, in fondo, che avrebbe assaporato ogni urlo.
Alla fine si voltò, sentendo il fuoco infiammarsi dentro di lui a quella vista. La rabbia era una vecchia amica, calda e gradita. Gli faceva dimenticare il dolore nelle vene, il pizzicore delle cicatrici, gli anni sulle sue ossa. Osservando il mostro che aveva di fronte, tornò a sentirsi decisamente giovane. Trasportato verso l’eternità sulle ali di un odio puro e perfetto.
«Buonasera, chevalier» disse il sanguefreddo.
Era stato solo un ragazzo quand’era morto. Quindici o forse sedici anni: possedeva ancora quella magra androginia tipica dell’apice della virilità. Ma Dio solo sapeva quanto fosse vecchio in realtà. Un accenno di colore gli abbelliva le guance, grandi occhi bruni incorniciati da folte ciocche dorate, un minuscolo ricciolo disposto ad arte sulla fronte. Aveva una pelle senza pori e pallida come alabastro, ma le sue labbra erano di un rosso osceno e le sclere dei suoi occhi erano tinte dello stesso colore. Si era appena nutrito.
Se l’assassino non fosse stato certo del contrario, avrebbe detto che sembrava quasi vivo. La sua redingote era di velluto scuro, ricamata con ghirigori dorati. Portava un mantello di penne di corvo drappeggiato sulle spalle, il colletto sollevato come una fila di lucenti lame nere. Sul petto era cucito l’emblema della sua stirpe di sangue: lupi gemelli rampanti contro le lune gemelle. Brache scure, un foulard di seta e calze, poi scarpe lucidate a completare il ritratto. Un mostro che indossava la pelle di un aristocratico.
Era in piedi al centro della sua cella, anche se la porta era ancora chiusa a chiave come un segreto. Un quaderno voluminoso era premuto tra i suoi palmi bianchi come ossa e la sua voce era melliflua come una ninna nanna.
«Sono il Marchese Jean-François della stirpe Chastain, storico di Sua Grazia, Margot Chastain, Prima e Ultima del Suo Nome, imperatrice immortale di lupi e uomini.»
L’assassino non disse nulla.
«Tu sei Gabriel de León, ultimo dei Santi d’argento.»
L’assassino di nome Gabriel non fiatò. Gli occhi della creatura ardevano come lumi di candela nel silenzio, l’aria sembrava nera come pece e inebriante. Per un attimo, Gabriel ebbe la sensazione di trovarsi sull’orlo di un precipizio e che solo la fredda pressione di quelle labbra color rubino contro la sua gola potesse salvarlo. La sua pelle formicolava, tanto da fargli immaginare che il suo sangue ribollisse per volontà propria. Il desiderio per la fiamma di una falena che implorava di bruciare.
«Posso entrare?» ripeté il mostro.
«Sei già dentro, sanguefreddo» replicò Gabriel.
La creatura lanciò un’occhiata sotto la cintura dell’assassino e gli elargì un sorriso d’intesa. «È sempre educato chiedere, chevalier.» Schioccò le dita e la porta rivestita di ferro si spalancò.
Un’ammaliata graziosa con un lungo abito nero e un corsetto sgusciò dentro. Il suo vestito era di velluto riccio damascato, con un vitino di vespa e un girocollo di pizzo scuro. I lunghi capelli rossi erano intrecciati e avvolti attorno agli occhi, come catene di rame brunito. Poteva avere fra i trenta e i quarant’anni, proprio come Gabriel. Abbastanza matura da essere la madre del mostro, se quello fosse stato un ragazzo normale e lei una donna ordinaria. Ma trasportava una poltrona di cuoio pesante quanto lei, tenendo gli occhi bassi mentre la posava senza alcuno sforzo accanto al sanguefreddo.
Il mostro non distolse lo sguardo da Gabriel. Né l’assassino da lui.
La donna portò un’altra poltrona e poi un tavolino di quercia. Piazzò la prima accanto a Gabriel e il tavolo in mezzo, poi rimase con le mani giunte come una priora in preghiera.
Gabriel ora scorgeva le cicatrici sulla sua gola, punture caratteristiche sotto il girocollo che indossava. Provò un disprezzo tale da fargli accapponare la pelle. La donna aveva trasportato la poltrona come se non pesasse nulla ma, adesso che si trovava lì in presenza del sanguefreddo, era quasi senza fiato, con il seno pallido che si gonfiava sopra il corsetto come fosse una vergine durante la prima notte di nozze.
«Merci» disse Jean-François della stirpe Chastain.
«Sono la vostra serva, Padrone» mormorò la donna.
«Ora lasciaci soli, amore.»
L’ammaliata incontrò gli occhi del mostro. Fece scorrere lentamente le dita sull’arco del petto fino alla curva lattea del collo e…
«Presto» disse il sanguefreddo.
Le labbra della donna si schiusero. Gabriel riuscì a vedere le sue pulsazioni accelerare al solo pensiero. «Sia fatta la vostra volontà, Padrone» sussurrò lei.
E, senza degnare Gabriel nemmeno di uno sguardo, rivolse una riverenza alla creatura e uscì dalla stanza, lasciando l’assassino da solo con il mostro.
«Vogliamo sederci?» chiese l’essere.
«Morirò in piedi, se fa lo stesso» rispose Gabriel.
«Non sono qui per ucciderti, chevalier.»
«Allora cosa vuoi, sanguefreddo?»
Il buio sussurrò. Il movimento del mostro fu impercettibile: un attimo si trovava accanto alla poltrona, quello dopo vi era seduto sopra. Gabriel lo osservò togliere un immaginario granello di polvere dal broccato della sua redingote e poi mettersi il quaderno in grembo. Era una minima manifestazione di potere, una dimostrazione per ammonirlo a non tentare nessun atto di coraggio disperato. Ma Gabriel de León uccideva i simili di quella creatura da quando aveva sedici anni e sapeva benissimo quando era in svantaggio.
Era disarmato. Spossato da tre notti insonni. Affamato, circondato e sudato per l’astinenza. Udì la voce di Manogrigia riecheggiare attraverso gli anni, il rumore degli stivali con il tacco d’argento del suo vecchio maestro sul lastricato di Santa Michon: “Prima Legge: i morti non possono uccidere i Morti”.
«Devi essere assetato.» Il mostro estrasse una fiasca di cristallo dalla redingote. La luce fioca scintillò sulle sfaccettature. Gabriel strinse gli occhi. «È solo acqua, chevalier. Bevi.»
Gabriel conosceva quel gioco: gentilezza offerta come un preludio alla tentazione. Tuttavia la lingua gli sembrava carta vetrata contro i denti. E anche se nessuna acqua poteva spegnere davvero la sete dentro di lui, afferrò la fiasca dalla mano di un pallore spettrale e se ne versò un sorso sul palmo. Limpida. Inodore. Nemmeno una traccia di sangue.
Bevve vergognandosi del proprio sollievo, ma trangugiandone ogni goccia. Per la parte di lui che era umana, quell’acqua era più dolce di qualunque vino o donna lui avesse mai assaggiato.
«Prego.» Gli occhi del sanguefreddo erano acuti come vetro rotto. «Siedi.»
Gabriel rimase in piedi dov’era.
«Siedi» gli ordinò.
Gabriel percepì la volontà del mostro premere contro di lui, e quegli occhi scuri crebbero nella sua visuale fino a diventare tutto ciò che poteva vedere. Percepì una specie di dolcezza: il richiamo di un fiore per un’ape, il sapore di giovani petali scoperti, roridi di rugiada. Di nuovo, Gabriel sentì il sangue agitarsi nelle parti basse. Ma ancora una volta udì la voce di Manogrigia nella sua mente: “Seconda Legge: dare ascolto alle lingue dei Morti è come assaporarle”. E così rimase dove si trovava. In piedi su gambe tremolanti.
L’ombra di un sorriso adornò le labbra del mostro. Dita affusolate scostarono un ricciolo dorato dagli occhi color cioccolato iniettati di sangue, per poi tamburellare sul quaderno che aveva in grembo. «Impressionante» disse.
«Vorrei poter dire lo stesso» replicò Gabriel.
«Non essere spietato, chevalier. Potresti ferire i miei sentimenti.»
«I Morti agiscono come bestie, appaiono come uomini, muoiono come diavoli.»
«Ah.» Il sanguefreddo sorrise, un accenno di perfidia ai margini delle labbra. «La Quarta Legge.»
Gabriel cercò di nascondere la sorpresa, ma sentì comunque lo stomaco rivoltarsi.
«Oui» annuì il sanguefreddo. «Sono al corrente dei princìpi del tuo Ordine, de León. Coloro che non imparano dal passato subiscono il futuro. E come puoi immaginare, le notti future sono di notevole interesse per gli immortali.»
«Ridammi la spada, sanguisuga, e ti insegnerò quanto sei davvero immortale.»
«Pittoresco.» Il mostro esaminò le sue lunghe unghie. «Una minaccia.»
«Un giuramento.»
«E al cospetto di Dio e dei suoi Sette Martiri» citò il mostro, «io qui giuro. Che il buio conosca il mio nome e disperi. Finché brucia, io sono la fiamma. Finché sanguina, io sono la lama. Finché pecca, io sono il santo. E sono argento.»
Gabriel avvertì un’ondata di debole e velenosa nostalgia. Sembrava passata una vita dall’ultima volta che aveva ascoltato quelle parole riecheggiare alla luce delle vetrate colorate di Santa Michon. Una preghiera di vendetta e violenza. Una promessa a un dio che non aveva mai dato veramente ascolto. Ma udirle ripetute in un luogo del genere, dalle labbra di uno di essi…
«Per amore dell’Onnipotente, siediti» sospirò il sanguefreddo. «Prima di cadere.»
Gabriel percepiva la volontà del mostro premere contro di lui; tutta la luce della stanza ora si era raccolta nei suoi occhi. Riusciva quasi a udirne il sussurro, denti che gli pizzicavano l’orecchio, promettendo sonno dopo una strada lunghissima, acqua fresca per lavar via il sangue dalle sue mani e un buio caldo e silenzioso per fargli dimenticare la forma di tutto ciò che aveva dato e perduto.
Ma lui pensò al volto della sua signora. Al colore di quelle labbra l’ultima volta che l’aveva baciata. E rimase immobile. «Cosa vuoi, sanguefreddo?»
L’ultimo alito di tramonto aveva abbandonato il cielo e l’odore di foglie morte da tempo baciò la lingua di Gabriel. Il desiderio si era impadronito di lui e il bisogno stava per seguirlo. La sete gli faceva scorrere dita fredde su per la schiena e spiegava ali nere attorno alle sue spalle. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva fumato? Due giorni? Tre?
Dio del cielo, avrebbe ucciso la propria fottuta madre per una boccata…
«Come ti ho detto» rispose il sanguefreddo, «sono lo storico di Sua Grazia. Custode del suo lignaggio e curatore della sua biblioteca. Fabién Voss è morto, grazie alle tue amorevoli cure. Ora che le altre Corti del Sangue hanno cominciato a inginocchiarsi, la mia padrona ha rivolto la propria mente alla preservazione. Così, prima che l’ultimo dei Santi d’argento muoia, prima che tutta la conoscenza del vostro Ordine sia gettata in una fossa senza nome, la mia pallida imperatrice Margot, nella sua infinita generosità, ti ha offerto un’opportunità di parlare.» Jean-François sorrise con labbra macchiate di vino. «Desidera udire la tua storia, chevalier.»
«La tua specie non ha mai avuto alcun talento per gli scherzi, vero?» chiese Gabriel. «Lo lasciate nella terra la notte in cui morite. Assieme a qualunque cosa si potesse considerare la vostra fottuta anima.»
«Perché mai dovrei scherzare, de León?»
«Spesso gli animali giocano con la loro preda.»
«Se la mia imperatrice volesse giocare, udirebbero le tue urla fino ad Alethe.»
«Pittoresco.» Gabriel esaminò le proprie unghie rotte. «Una minaccia.»
Il mostro inclinò la testa. «Touché.»
«Perché mai dovrei sprecare le mie ultime ore sulla terra narrando una storia di cui a nessuno al mondo frega niente? Io non sono nessuno per voi. Non sono nulla.»
«Oh, andiamo.» La creatura sollevò un sopracciglio. «Il Leone Nero? L’uomo che è sopravvissuto alle nevi cremisi di Augustin? Che ha ridotto in cenere migliaia di sodali e ha premuto la Lama Folle contro la gola del Re Sempiterno in persona?» Jean-François emise un suono di disapprovazione, come un’istitutrice con un allievo indisciplinato. «Sei stato il più illustre del tuo Ordine. L’unico ancora in vita. A quelle spalle così larghe non si addice il mantello della modestia, chevalier.»
Gabriel osservò il sanguefreddo alternarsi tra menzogne e adulazioni come un lupo attirato da un evidente odore di sangue. Nel frattempo, si domandò cosa volesse davvero la creatura e perché lui non fosse già morto. E infine… «Si tratta del Graal» si rese conto.
Il volto del mostro era così immobile da sembrare davvero intagliato nel marmo. Ma a Gabriel parve di notare un’incrinatura in quello sguardo cupo. «Il Graal è stato distrutto» replicò l’essere. «Che interesse abbiamo ora per quella coppa?»
Gabriel inclinò il capo e declamò a memoria:
«La santa coppa spande sacra luce;
«La man fedele il suo mondo ricuce.
«Ed al cospetto dei Martiri Sette,
«Un mero uomo fin a notte mette».
Una gelida risatina risuonò sulle spoglie pareti di pietra. «Sono un cronista, de León. Mi interesso di storia, non di mitologia. Risparmia le tue rozze superstizioni per il bestiame.»
«Tu menti, sanguefreddo. Dare ascolto alle lingue dei Morti è come assaporarle. E se credi per un solo momento che tradirò…» La sua voce si abbassò, poi si spense del tutto. Anche se gli era sembrato che il mostro non si fosse affatto mosso, adesso aveva una mano tesa. E lì, sulla superficie candida del palmo voltato all’insù, c’era una fiala di vetro contenente una polvere bruno-rossiccia. Come cacao macinato e petali di rosa sminuzzati. La tentazione che sapeva sarebbe arrivata.
«Un dono» disse il mostro, togliendo il turacciolo.
Gabriel riusciva a percepire l’odore del sangue in polvere da dove si trovava. Denso, saporito e dolce come rame. Gli formicolò la pelle a quel profumo. Le sue labbra si schiusero in un sospiro. Sapeva cosa volevano i mostri. Era consapevole che un solo assaggio gliene avrebbe fatto bramare altro. Tuttavia udì la propria voce come se provenisse da lontano. E se tutti gli anni e il sangue non gli avevano già spezzato il cuore, di certo si sarebbe infranto in quel momento. «Ho perso la mia pipa… a Charbourg. Io…»
Il sanguefreddo tirò fuori un’elegante pipa d’osso dalla redingote, poi la posò assieme alla fiala sul tavolino. Guardandolo torvo, fece un cenno verso la poltrona opposta. «Siedi.»
E infine, da miserabile qual era, Gabriel de León obbedì.
«Serviti pure, chevalier.»
Strinse la pipa prima ancora di rendersene conto e versò una dose della polvere appiccicosa nel fornelletto, tremando tanto forte che per poco non lasciò cadere il suo trofeo. Gli occhi del sanguefreddo erano fissi sulle mani di Gabriel mentre lui armeggiava, sulle cicatrici, i calli e gli stupendi tatuaggi. Una ghirlanda di teschi era disegnata sopra la mano destra del Santo d’argento, un serto di rose sulla sinistra. La parola PATIENCE era incisa tra le dita, sotto le nocche. L’inchiostro era scuro contro la cute pallida, con un accenno di luccichio metallico.
Il Santo d’argento scostò una lunga ciocca di capelli neri dagli occhi mentre si tastava la giacca, poi le brache di cuoio. Ma ovviamente gli avevano portato via l’acciarino. «Ho bisogno di una fiamma. Una lanterna.»
«Tu hai bisogno.» Con lentezza straziante, il sanguefreddo congiunse i polpastrelli delle dita snelle contro le labbra. In quel momento in tutto il mondo non c’era nulla e nessun altro. Solo loro due, assassino e mostro, e quella pipa pesante come piombo fra le mani tremanti di Gabriel. «Allora parliamo di bisogno, Santo d’argento. I perché non hanno importanza. I mezzi nemmeno. La mia imperatrice esige che tu racconti la tua storia. Perciò possiamo starcene seduti come brave persone mentre ti dedichi alla tua piccola, squallida dipendenza, oppure possiamo ritirarci nelle camere tra le profondità di questo château in cui perfino i diavoli temono di transitare. A ogni modo, la mia imperatrice Margot avrà il suo racconto. Resta soltanto da capire se deciderai di sospirarlo o urlarlo.»
Era in sua balìa. Ora che aveva quella pipa in mano, Gabriel era già caduto. Aveva nostalgia dell’inferno ed era terrorizzato all’idea di tornarvi. «Dammi la fottuta fiamma, sanguefreddo.»
Jean-François della stirpe Chastain schioccò di nuovo le dita e la porta della cella si spalancò cigolando. Fuori attendeva la stessa ammaliata di prima, con una lanterna dal lungo cannello di vetro tra le mani. Era una semplice sagoma contro la luce: abito nero, corsetto nero, girocollo nero. In quel momento avrebbe potuto essere la figlia di Gabriel. Sua madre, sua moglie… non faceva alcuna differenza. Contava solamente la fiamma che portava.
Gabriel era teso come due corde d’arco, vagamente consapevole del disagio provato dal sanguefreddo in presenza del fuoco, il lievissimo sibilo del suo fiato sopra denti acuminati. Ma adesso non gli importava di nulla eccetto della fiamma e della magia tenebrosa a seguire, da sangue a polvere a fumo a estasi.
«Portala qui» disse alla donna. «Su, presto.»
Lei posò la lanterna sul tavolino e, per la prima volta, incontrò i suoi occhi. E quello sguardo azzurro pallido gli parlò senza che lei pronunciasse una parola. “E tu pensi che la schiava sia io?”
A Gabriel non importava. Neanche un po’. Mani esperte regolarono lo stoppino, sollevando la fiamma all’altezza perfetta mentre l’odore dell’olio si spandeva nell’aria. Percepì quel calore in contrasto con il gelo della torre, tenendo il fornelletto della pipa alla distanza perfetta per trasformare la polvere in vapore. Il suo stomaco fremette mente iniziava: quella sublime alchimia, quella chemistria oscura. Il sangue in polvere adesso ribolliva, il colore che si fondeva in fragranza, l’aroma di agriradice e rame. E Gabriel premette le labbra contro la pipa con più passione di quanta avesse mai messo nel bacio con un’amante… poi, grazie a Dio del cielo, inspirò a fondo.
Quel fuoco accecante gli riempì i polmoni. Quel paradiso in subbuglio gli inondò la mente. Cristallizzandosi, disintegrandosi, attirò il vapore di sangue nel petto e sentì il proprio cuore dibattersi contro le costole come un uccello in una pergola d’ossa, mentre il suo membro si tendeva contro le brache di cuoio e la faccia di Dio in persona si trovava ad appena una boccata di distanza.
Alzò lo sguardo sugli occhi dell’ammaliata e vide che era un angelo che aveva assunto forma terrena. Voleva baciarla, abbeverarsi di lei, morire dentro di lei, avvolgerla tra le braccia, sfiorarle la pelle con le labbra mentre i denti si agitavano tra le gengive, sentire la promessa che palpitava proprio sotto l’arco della mascella, il martellare costante delle pulsazioni di quella donna contro la sua lingua, viva, viva…
«Chevalier.»
Gabriel aprì gli occhi. Era in ginocchio accanto al tavolino, con la lampada che proiettava un’ombra tremante sotto di lui. Non aveva la minima idea di quanto tempo fosse passato. La donna era svanita come se non fosse mai stata lì.
Gabriel riusciva a udire il vento là fuori, una voce e decine al tempo stesso: sussurrava segreti lungo le tegole e ululava maledizioni sulle grondaie, bisbigliando il suo nome tra i rami di alberi neri e spogli. Poteva contare ogni pagliuzza sul pavimento, sentire ogni pelo ritto sul suo corpo, fiutare polvere vecchia e morte nuova, le strade che aveva percorso sulle suole dei suoi stivali. Ogni senso era aguzzo come un pugnale, rotto e insanguinato tra le sue mani tatuate.
«Chi…» Gabriel scrollò il capo, aggrappandosi alle parole come fossero manciate di melassa. Le sclere dei suoi occhi erano diventate rosse come un delitto. Guardò la fiala, ora di nuovo nel palmo del mostro. «Di chi è… quel sangue?»
«Della mia benedetta dama» rispose l’essere. «La mia madre oscura e padrona pallida, Margot Chastain, Prima e Ultima del Suo Nome, imperatrice immortale di lupi e uomini.» Il sanguefreddo stava guardando la fiamma della candela con un lieve odio pensieroso. Una falena pallida come un teschio era comparsa da qualche angolo umido della cella e svolazzava intorno alla luce. Dita bianche come porcellana si chiusero intorno alla fiala, sottraendola alla vista. «Ma non ne avrai più di una goccia finché il tuo racconto non sarà mio. Perciò narra, e come faresti con un bambino. Presumi che coloro che lo leggeranno, fra diverse epoche, non sappiano nulla di questo posto. Poiché le parole che ora affido alla pergamena dureranno quanto questo impero immortale. E questa cronaca sarà l’unica immortalità che tu conoscerai mai.»
Il sanguefreddo estrasse dalla redingote una custodia di legno su cui erano intagliati due lupi e due lune. La aprì e tirò fuori una lunga penna d’oca, nera come quelle che aveva attorno alla gola, poi mise una boccetta sul bracciolo della poltrona. Intingendo la penna nell’inchiostro, Jean-François sollevò gli occhi scuri e trepidanti.
Gabriel trasse un respiro profondo, il sapore del fumo rosso sulle labbra.
«Inizia» disse il vampiro.