«TUTTO COMINCIÒ CON la tana di un coniglio» esordì Gabriel. L’ultimo Santo d’argento fissava la fiammella tremolante di quella lanterna come se racchiudesse facce morte da parecchio tempo. Un accenno di fumo rosso vagava ancora per l’aria e lui riusciva a udire ogni filamento dello stoppino bruciare a una tonalità diversa. Gli anni passati da allora parevano minuti, ora che la sua mente era accesa dal fervore dell’inno di sangue.
«Mi sembra buffo» sospirò «rievocare tutto quanto. Dietro di me c’è una pila di cenere tanto alta da poter toccare il cielo. Cattedrali in fiamme, città in rovina, tombe che traboccano di devoti ed empi, e fu lì che cominciò davvero tutto.» Scosse il capo per la meraviglia. «Solo un piccolo buco nel terreno. La gente lo ricorderà in modo diverso, naturalmente. I cantastorie strimpelleranno della Profezia, mentre i preti beleranno del piano dell’Onnipotente. Ma non ho mai incontrato un menestrello che non fosse un bugiardo, sanguefreddo. Né un sant’uomo che non fosse uno stronzo.»
«È palese che tu sei un sant’uomo, Santo d’argento» replicò Jean-François.
Gabriel de León incontrò lo sguardo del mostro e accennò un sorriso. «Mancavano ancora più di due ore alla notte quando Dio decise di rovinare ogni cosa. La gente del luogo aveva abbattuto il ponte sopra il Keff, perciò ero stato costretto a dirigermi a sud, verso il guado vicino a Dhahaeth. Il terreno era accidentato, ma Giustizia aveva…»
«Aspetta, chevalier.» Il marchese Jean-François della stirpe Chastain sollevò una mano e posò la penna tra le pagine. «Così non va.»
Gabriel batté le palpebre. «No?»
«No» replicò il vampiro. «Te l’ho detto, devi raccontare chi sei. Com’è accaduto tutto questo. Le storie non cominciano a metà. Cominciano dal principio.»
«Vuoi sapere del Graal. La tana di un coniglio segna l’inizio di quel racconto.»
«Come ho detto, sto annotando questa storia per coloro che vivranno molto tempo dopo che sarai diventato cibo per i vermi. Vai per gradi.» Jean-François agitò una mano esile. «Sono nato. Sono cresciuto.»
«Sono nato in una pozzanghera di fango chiamata Lorson. Allevato come figlio di un fabbro. Il maggiore di tre. Non ero nessuno di speciale.»
Il vampiro lo squadrò dagli stivali fino alla fronte. «Sappiamo entrambi che non è vero.»
«Quante cose sai di me, sanguefreddo? Se le mettessi tutte assieme e le strizzassi per bene, potrebbero quasi riempire un fottuto ditale.»
La creatura chiamata Jean-François simulò un piccolo sbadiglio. «Insegnami, allora. I tuoi genitori. Erano gente devota?»
Gabriel aprì la bocca per un rimprovero. Ma le parole gli morirono sulle labbra quando guardò il quaderno che Jean-François teneva in grembo. Si rese conto che il sanguefreddo non stava solo scrivendo ogni sua parola; stava anche disegnando, usando la sua velocità soprannaturale per tracciare alcune linee tra un respiro e l’altro. Notò che le linee si fondevano in un’immagine: il profilo di un uomo di tre quarti. Occhi grigi e tormentati. Spalle ampie e capelli lunghi, neri come la notte. Una mascella scultorea punteggiata da una delicata peluria e striata di sangue secco. Due cicatrici solcavano la pelle sotto l’occhio destro, una lunga e l’altra corta, simili a lacrime. Era una faccia che Gabriel conosceva come la propria. Perché naturalmente lo era.
«Davvero somigliante» disse.
«Merci» mormorò il mostro.
«Disegni ritratti anche per le altre sanguisughe? Dopo un po’ dev’essere difficile ricordare che aspetto avete, se perfino uno specchio rifiuta di farsi profanare dal vostro riflesso.»
«Sprechi il tuo veleno su di me, chevalier. Sempre che quest’acqua possa considerarsi tale.»
Gabriel fissò il vampiro, facendo scorrere la punta di un dito sul labbro. Nella morsa dell’inno di sangue – quel dono impetuoso e pulsante dalla pipa che aveva fumato –, ogni sensazione era decuplicata. La potenza dei secoli dentro le sue vene.
Percepiva la forza che gli aveva regalato, il coraggio che camminava mano nella mano con quella potenza; un coraggio che gli aveva permesso di superare l’inferno di Augustin, le guglie di Charbourg e le file della Legione infinita. E anche se sapeva che sarebbe svanito troppo presto, per il momento Gabriel de León era assolutamente impavido.
«Ho intenzione di farti urlare, sanguisuga. Ti farò sanguinare come un maiale, ficcherò il meglio di te in una pipa che terrò per dopo, poi ti mostrerò quanto vale davvero la tua immortalità.» Fissò gli occhi vuoti del mostro. «Abbastanza velenoso?»
Un sorriso incurvò le labbra di Jean-François. «Avevo sentito dire che sei un uomo collerico.»
«Interessante. Io invece non ho sentito dire nulla su di te.»
Quel sorriso si spense lentamente.
Ci fu un lungo silenzio prima che il mostro riprendesse a parlare. «Tuo padre. Il fabbro. Era un uomo devoto?»
«Era un ubriacone senza speranza, con un sorriso che poteva sedurre una suora a compiere atti indicibili, e pugni che perfino gli angeli temevano.»
«Mi vengono in mente le mele e la distanza da cui cadono dall’albero.»
«Non ricordo di aver chiesto la tua opinione su di me, sanguefreddo.»
Il mostro riempiva le ombre attorno agli occhi di Gabriel mentre parlava. «Dimmi di lui. Di quest’uomo che allevò una leggenda. Come si chiamava?»
«Raphael.»
«Prese il nome dagli angeli che tanto lo temevano, allora. Proprio come te.»
«E non ho dubbi che questo li faccia incazzare.»
«Andavate d’accordo?»
«Padri e figli vanno mai d’accordo? Finché tu stesso non sei un uomo, non puoi vedere colui che ti ha allevato per ciò che era.»
«Non ho modo di saperlo.»
«No. Tu non sei un uomo.»
Gli occhi della creatura morta scintillarono quando alzò lo sguardo. «L’adulazione ti porterà lontano.»
«Quelle mani bianche come gigli. Quei boccoli dorati.» Gabriel esaminò il vampiro a occhi stretti. «Sei di origine elidaena?»
«Se lo dici tu» replicò Jean-François.
Gabriel annuì. «Ciò che ti occorre sapere sulla mia famille, vampiro, prima di andare al sodo, è che eravamo gente del Nord. Nell’Est voi nascete graziosi, questo è vero. Ma nel Nordlund? Noi nasciamo feroci. I venti che provengono dagli Angeledei sferzano la mia patria, taglienti come spade. È un paese selvaggio. Violento. Prima della pace di Augustin, il Nordlund era stato invaso più di qualunque altro regno nella storia dell’impero. Hai mai sentito la leggenda di Matteo ed Elaina?»
«Ma certo.» Jean-François annuì. «Il principe guerriero nordlundiano che sposò una regina elidaena, nell’epoca precedente all’impero. Si dice che Matteo amasse la sua Elaina con la forza di quattro uomini normali. E quando morirono, l’Onnipotente li collocò nei cieli come stelle, affinché potessero restare assieme in eterno.»
«Quella è una versione della storia.» Gabriel sorrise. «E Matteo amava con forza la sua Elaina, questo è vero. Ma nel Nordlund raccontiamo una versione diversa. Vedi, la bellezza di Elaina era famosa in tutti e cinque i regni, e ciascuno degli altri quattro troni inviò un principe a chiedere la sua mano. Il primo giorno, il principe di Talhost le offrì una mandria di magnifici pony della tundra, furbi come gatti e bianchi come le nevi della sua patria. Il secondo, il principe di Sūdhaem portò a Elaina una corona fatta di luccicante aurivetro, estratto dalle montagne della sua terra d’origine. Il terzo, il principe di Ossway le offrì una nave di inestimabile fidelegno per farle attraversare il Sempremare. Ma il principe Matteo era povero. Fin dall’anno in cui era nato, la sua patria era stata invasa da Talhost, Sūdhaem e anche Ossway. Non aveva cavalli, aurivetro o fidelnavi da darle. Invece giurò a Elaina che l’avrebbe amata con la forza di quattro uomini normali. E per dimostrarlo, quando si presentò davanti al trono e le promise il suo cuore, Matteo posò ai piedi di Elaina i cuori degli altri pretendenti. Quei principi che avevano invaso la terra che gli aveva dato i natali. Quattro cuori in tutto.»
Il vampiro ridacchiò. «Perciò stai dicendo che tutti i nordlundiani sono dei pazzi omicidi?»
«Sto dicendo che siamo persone passionali» replicò Gabriel. «Nel bene e nel male. Per conoscere la mia famille, per conoscere me, devi saperlo. I nostri cuori parlano più forte delle nostre teste.»
«Tuo padre, dunque?» chiese Jean-François. «Era anche lui un uomo passionale?»
«Oui. Ma non in senso buono. Non lui. Era marcio fino al midollo.» Il Santo d’argento si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia. La cella era silenziosa, eccezion fatta per i rapidi graffi del sanguefreddo sul suo ritratto e la miriade di sussurri del vento. «Non era alto quanto me, ma aveva la corporatura di un muro di mattoni. Aveva servito come esploratore nell’esercito di Philippe IV per tre anni, prima della morte del vecchio imperatore. Ma fu travolto da una valanga durante una campagna tra le alture dell’Ossway. Si ruppe la gamba e non guarì mai del tutto, perciò si dedicò alla professione di fabbro. E lavorando nella fortezza della baronia locale incontrò mia madre. Una bellezza dai capelli corvini, statuaria e orgogliosa. Non poté fare a meno di innamorarsi di lei. Nessun uomo ne era immune. Era la figlia del barone in persona. La demoiselle de León.»
«Il cognome di tua madre era de León? Avevo l’impressione che tra voi usaste i patronimici, Santo d’argento. Le donne abbandonano il proprio cognome quando si sposano.»
«I miei genitori non erano sposati quando fui generato.»
Il vampiro si coprì la bocca con dita affusolate. «Scandaloso.»
«Di certo mio nonno la pensava così. Pretese che lei si liberasse di me non appena fu evidente che era incinta, ma mia madre si rifiutò. Mio nonno la cacciò via, con tutte le maledizioni che riuscì a sbraitarle contro. Ma mia madre era una roccia. Non si inchinava di fronte a nessuno.»
«Come si chiamava?»
«Auriél.»
«Nome stupendo.»
«Proprio come lei. E quella bellezza non fu offuscata nemmeno in uno squallido buco come Lorson. Lei e mio padre si trasferirono lì solo con i vestiti che avevano addosso. Mi diede alla luce nella chiesa del villaggio perché la loro casetta non aveva ancora il tetto. Un anno dopo, nacque mia sorella Amélie. E poi la mia sorellina Celene. Per allora mamma e papà erano sposati, così le mie sorelle presero il cognome da lui. Castia. Chiesi a mio padre se potevo averlo anch’io, ma mi disse di no. Avrei dovuto cominciare a capirlo da quello. E dal modo in cui mi trattava.» Le dita di Gabriel corsero lungo una cicatrice sottile che solcava il mento, il suo sguardo distante.
«Quei pugni che gli angeli temevano?» mormorò Jean-François.
Gabriel annuì. «Come ho detto, era un uomo passionale, Raphael Castia. E quelle passioni giunsero a dominarlo. Mamma era una donna timorata di Dio. Ci allevò nel profondo rispetto dell’Unica Fede, e nell’amore benedetto dell’Onnipotente e della Vergine Madre. Ma l’amore di mio padre era diverso.
«C’era qualcosa di malato in lui. Adesso lo so. Aveva combattuto in guerra solo per tre anni, ma la portò con sé per il resto della vita. Non trovò mai una bottiglia che non si scolò fino in fondo. Né una ragazza graziosa a cui abbia detto di no. E a dire la verità, tutti noi preferivamo quelle sue indelicatezze. Quando era fuori a puttane, scompariva semplicemente per un giorno o due. Ma quando era in casa a bere… era come vivere con un barilotto di ignis nero. La polvere aspettava solo una scintilla.
«Una volta mi ruppe il manico di un’accetta sulla schiena, quando non tagliai abbastanza legna. Mi percosse le costole fino a romperle quando dimenticai l’acqua del pozzo. Non toccò mai mamma, Amélie o Celene, nemmeno una volta. Ma io conoscevo i suoi pugni come il mio stesso nome. E lo ritenevo amore.
«Il giorno dopo, la solfa era sempre la stessa. Mamma si arrabbiava e papà giurava su Dio e tutti i Sette Martiri che sarebbe cambiato, oh, come sarebbe cambiato. Prometteva che avrebbe smesso di bere e per un po’ eravamo felici. Mi portava a caccia o a pesca, mi faceva esercitare nella scherma che aveva appreso da esploratore, nella vita tra la natura. Come far attecchire una fiamma su legna umida. Il talento di camminare sulle foglie morte senza emettere alcun suono. Come costruire una trappola che non avrebbe ucciso la preda. Ma soprattutto mi insegnò il ghiaccio. La neve. Come cade. Come uccide. Picchiettandosi quella gamba rotta, mi istruì sulle verità della tormenta, di come la neve acceca, delle valanghe. Dormendo sotto le stelle fra le montagne proprio come avrebbe potuto fare un vero padre. Ma non durava mai a lungo.
«“La guerra non ti insegna a essere un assassino” mi disse una volta. “È solo una chiave che apre la nostra porta. Nel sangue di tutti gli uomini esiste una bestia, Gabriel. Puoi affamarla. Rinchiuderla. Maledirla. Ma alla fine, devi pagare il dovuto alla bestia, per evitare che essa lo prenda da te.”
«Ricordo quando, al mio ottavo complesanto, ero seduto a un tavolo, con mia madre che mi puliva il sangue dalla faccia. Quella donna mi adorava, malgrado tutto ciò che le era costato la mia nascita. Ne ero consapevole come della sensazione del sole sulla pelle. E le domandai perché papà mi odiasse, se lei poteva amarmi così tanto. Quel giorno incontrò il mio sguardo e le uscì un sospiro dal cuore. “Tu sei come lui. Che Dio mi aiuti, sei proprio simile a lui, Gabriel.”» L’ultimo Santo d’argento allungò le gambe e lanciò un’occhiata al disegno del vampiro. «La cosa buffa era che mio padre era largo e robusto, e io a quell’età ero già alto. Aveva la pelle abbronzata, mentre la mia era pallida come quella di un fantasma. Rivedevo mamma nella curva delle labbra e nel grigio dei miei occhi. Ma la verità era che io e mio padre non ci assomigliavamo affatto.
«Lei si tolse l’anello, l’unico tesoro che aveva portato con sé dalla casa di suo padre. Era d’argento, foggiato con l’emblema della casata de León: due leoni che fiancheggiavano uno scudo e due spade incrociate. Me lo infilò al dito, poi mi strinse forte la mano. “Il sangue dei leoni scorre nelle tue vene” mi disse quel giorno. “E un giorno da leone ne vale diecimila da agnello. Non dimenticare mai che tu sei mio figlio. Ma in te c’è una fame. Una fame a cui devi stare attento, mio dolce Gabriel. Affinché non ti divori tutto intero.”»
«Pare una donna formidabile» osservò Jean-François.
«Lo era. Camminava per le strade fangose di Lorson come una nobildonna tra le sale dorate della corte dell’imperatore. Anche se ero un figlio bastardo, mi disse di indossare il mio nome nobile come una corona. Di sputare puro veleno a chiunque affermasse che non ne avevo diritto. Mia madre conosceva se stessa, e le dava un potere temibile. Sapere con precisione chi sei e con esattezza di cosa sei capace. Molti la definirebbero arroganza, suppongo. Ma quelle persone sono dei fottuti idioti.»
«I vostri sacerdoti non predicano dai pulpiti che la grazia sta nell’umiltà?» chiese Jean-François. «Non promettono che i miti erediteranno la terra?»
«Sono vissuto trentacinque anni con il nome che mi diede mia madre, sanguefreddo, e mai una volta ho visto i miti ereditare qualcosa tranne gli avanzi della tavola dei forti.» Gabriel lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, in direzione delle montagne. Verso il buio, che si prostrava in ginocchio come un peccatore. Gli orrori che vagavano lì fuori senza controllo. Le minuscole scintille di umanità, tremolanti come candele in un vento affamato, che presto si sarebbero estinte per sempre. «Inoltre, chi cazzo vorrebbe ereditare una terra come questa?»