III

IL COLORE DEL DESIDERIO

«POI COSA ACCADDE?» chiese Jean-François.

Gabriel prese un respiro profondo. «Mamma non fu più la stessa dopo la morte di mia sorella. Da allora non vidi più i miei genitori baciarsi. Era come se il fantasma di Amélie avesse ucciso infine quel poco che rimaneva tra loro. La tristezza si trasformò in colpa, la colpa in rabbia. Io badavo a Celene meglio che potevo, ma stava crescendo come una furia, sempre in cerca di rogne, e se non le trovava era lei a crearle. Mamma era segnata dal lutto, vuota e furiosa. Papà cercava rifugio nella bottiglia e i pugni che mi tirava erano più pesanti che mai. Labbra spaccate e dita rotte.

«Non esiste tristezza più profonda di quella che affronti da solo. Notti più buie di quelle che passi per conto tuo. Ma puoi imparare a convivere con ogni peso. Le cicatrici diventano tanto spesse da trasformarsi in una corazza. Potevo percepire qualcosa crescere dentro di me, come un seme in attesa nella terra fredda. Pensavo fosse quello che si provava nel maturare. In verità, non avevo nessuna fottuta idea di cosa stessi diventando.

«Tuttavia stavo crescendo. Il mio corpo si era allungato parecchio e lavorare alla forgia mi aveva reso duro come acciaio. Cominciai a notare le ragazze del villaggio che mi guardavano con quelle loro tipiche occhiate, sussurrando tra loro mentre passavo. Allora non sapevo perché, ma c’era qualcosa in me che le attirava. Imparai come trasformare quei sussurri in sorrisi e quei sorrisi in qualcosa di ancora più dolce. Invece di rubare baci, scoprii che mi venivano donati.

«Nel mio quindicesimo inverno, cominciai a frequentare una ragazza di nome Ilsa, la figlia del borgomastro, nipote di père Louis in persona. Venne fuori che, quando volevo, ero un piccolo bastardo sfuggente, e mi intrufolavo nella casa del borgomastro di notte, arrampicandomi sulla quercia morente fuori dalla finestra di Ilsa. Sussurravo al vetro e lei mi invitava a entrare, per poi passare a baci disperati e famelici e a quei primi, goffi approcci che fanno infiammare il sangue di un giovane uomo.

«Ma mia madre non approvava. Non litigavamo spesso, eppure quando si trattava di Ilsa, Dio Onnipotente, facevamo tremare il fottuto cielo. Mi ammonì più volte di stare alla larga da quella ragazza. Una sera eravamo a tavola, con mio padre che tracannava in silenzio la sua vodka e Celene che piluccava lo stufato di patate mentre mamma e io discutevamo. Mi mise di nuovo in guardia dalla fame dentro di me. Di stare attento, affinché non mi divorasse tutto intero. Ma ero stanco della paura dei miei genitori che commettessi i loro stessi errori. E furibondo, spazientito, indicai papà e urlai: “Io non sono lui! Non sono affatto come lui!”.

«Allora papà alzò lo sguardo su di me. Una volta era stato bellissimo, mentre ora era ubriaco e molle a causa del bere. “Cazzo se non lo sei, piccolo bastardo.”

«“Raphael!” urlò mamma. “Non parlare così!”

«Lui la guardò e un amaro sorriso segreto gli incurvò le labbra. E sarebbe potuta finire lì se il leone dentro di me non fosse stato troppo arrabbiato per lasciar correre. “Ringrazio Dio di essere un bastardo. Meglio non avere un padre che averne uno inutile come te.”

«“Dunque sarei inutile?” Lui mi guardò torvo e si alzò in piedi. “Se solo sapessi il valore che ho mostrato, ragazzo. Quindici anni e non ho detto una parola mentre allevavo un peccato come te.”

«“Se io sono un peccato, allora sono il tuo. E solo perché sei stato tanto stupido da ingravidare la ragazza che hai scopato fuori dal matrimonio, non signifi…” Non andai oltre. Il suo pugno volò come aveva già fatto altre cento notti. Mamma urlò come aveva sempre fatto. Ma quella notte, il pugno di mio padre non trovò il suo bersaglio. Lo intercettai a pochi pollici dalla faccia. Ero più alto di lui, che però aveva braccia grosse come la moglie di un fornaio. Avrebbe dovuto sbattermi via come una mosca. Invece lo spintonai all’indietro, i suoi occhi colmi di stupore. Sentivo il sangue pompare e, quando il cranio di mio padre colpì il focolare, quelle pulsazioni cominciarono a ruggire nelle ombre dietro i miei occhi. Mentre lui cadeva, vidi che si era spaccato la testa contro la mensola del camino. E da quello squarcio colò un liquido rosso vivido e scintillante.

«Sangue.

«L’avevo già visto, naturalmente. Macchie sulle mie dita rotte e sulla faccia gonfia. Ma non avevo mai notato prima quanto il colore fosse intenso, l’odore inebriante, come sale, ferro e profumo di fiori, ora intrecciati alla canzone del mio cuore palpitante. Avevo la gola asciutta, la lingua come cuoio vecchio, lo stomaco un buco spalancato e bramoso mentre protendevo una mano tremante verso quella macchia sempre più grande.

«“Gabe?” sussurrò Celene.

«“Gabriel!” urlò mia madre.

«E come un incantesimo rotto al canto del gallo, scomparve. Quel dolore. Quella bramosia secca come polvere. Rimasi lì su gambe tremanti, guardando mia madre negli occhi. Lì riuscii a vedere segreti non detti. Un orrore, un peso che diventava più oneroso ogni anno. “Cosa mi sta succedendo, mamma?”

«Lei si limitò a scuotere il capo e si inginocchiò accanto a mio padre. “Ce l’hai dentro, Gabriel. Avevo sperato… pregato Dio che così non fosse.”

«“Cosa ho dentro?”

«Lei non disse nulla e rimase a fissare le ombre sul pavimento.

«“Mamma, dimmelo! Aiutami!”

«Lei mi guardò negli occhi. La leonessa che mi aveva allevato, che mi aveva insegnato a portare il mio nome come una corona. E allora capii: la disperazione di una madre che avrebbe fatto qualunque cosa per proteggere il suo cucciolo, comprendendo che le restava una sola possibilità. “Non posso, amore mio. Ma forse conosco qualcuno in grado di farlo.”

«Non avevo idea di cos’altro chiedere. Non conoscevo la risposta di cui avevo bisogno. Mia madre rimase in silenzio e Celene aveva cominciato a piangere, così mi occupai di mia sorella come avevo sempre fatto. Le cose non sarebbero state mai più le stesse dopo quella notte. Cercai di parlare con mio padre, che Dio mi aiuti. Mi scusai perfino, ma lui non voleva neppure guardarmi. Lo osservavo battere sull’incudine, il pugno intorno al martello. Erano grandi e terribili, le sue mani. Le ricordavo stringersi attorno alle mie di ragazzino, grosse e calde, che mi mostravano come piazzare una trappola o vibrare una spada. Le ricordavo chiudersi in nodi e cadere come la pioggia. Mio padre costruiva cose e le rompeva. E mi resi conto che forse una di quelle che aveva rotto ero io.

«Il mio unico rifugio era l’abbraccio di Ilsa. E così lo cercavo più spesso che potevo, allontanandomi di soppiatto a tutte le ore e arrampicandomi fino alla sua finestra. Ci incontravamo in quel luogo dove le parole non hanno significato. Eravamo stati allevati entrambi nell’Unica Fede e lo spettro del peccato aleggiava sempre sopra di noi. Ma nemmeno Dio può frapporsi tra una ragazza e un ragazzo che si desiderano davvero. Nessuna scrittura, re o legge sulla terra ha tale potere.

«Una notte eravamo vicini. Così tanto che ardevamo entrambi. La sua camicetta da notte era stata gettata da parte e io avevo le brache slacciate, le labbra che quasi mi dolevano per la pressione della sua bocca. La sensazione del suo corpo nudo contro il mio era inebriante e il bisogno di lei era come una sete che cresceva dentro di me. Potevo fiutare il suo desiderio, che mi riempiva i polmoni e mi faceva dolere, i suoi lunghi capelli castani attorcigliati tra le mie dita mentre la sua lingua schioccava contro la mia. “Mi ami?” sussurrai.

«“Ti amo” rispose lei.

«“Mi vuoi?” domandai.

«“Ti voglio” mormorò lei. Ci rotolammo sul letto e il suo respiro accelerò. I suoi occhi vedevano solo me. “Ma non possiamo, Gabriel. Non possiamo.”

«“Questo non è peccato” implorai, baciandole la gola. “Tu possiedi il mio cuore.”

«“E tu il mio” sussurrò lei. “Ma è il mio periodo lunare, Gabriel. Quello del mio sangue. Dovremmo aspettare.”

«Il mio stomaco si eccitò a quelle parole. E anche se lei parlò di nuovo, l’unica parola che udii fu “sangue”. Mi resi conto che era quello, l’odore, il bisogno che ora ruggiva dentro di me. Non saprei dirti il perché. Non c’era alcun movente nei miei pensieri, allora. Ma la mia bocca vagò verso il basso, sopra le lisce colline e valli del suo corpo, e percepii il cuore martellare sotto la punta delle mie dita mentre con le mani esploravo le sue curve. Rabbrividì quando la mia lingua le girò attorno all’ombelico, mormorò una flebile protesta mentre divaricava le gambe e trascinava le dita tra i miei capelli. E io affondai tra le sue cosce e premetti la bocca contro di lei, sentendola tremare. E una parte di me era appena un quindicenne, allora, nervoso come un agnellino, che implorava solo di servire e voleva solo compiacere. Ma il resto di me, la parte più rilevante, era pieno di una fame più oscura di qualunque altra avessi mai conosciuto.

«Ilsa si premette le dita contro la bocca, serrando le cosce attorno alla mia testa. E mentre insinuavo la lingua dentro di lei, l’assaggiai… Dio, l’assaporai, e per poco non mi fece impazzire. Sale e ferro. Autunno e ruggine. Che si riversava sulla mia lingua e rispondeva a ogni domanda che non avevo mai saputo come porre. Perché la risposta era la stessa. Sempre la stessa.

«Sangue.

«Sangue.

«Mi sentivo completo in un modo che non avevo mai ritenuto possibile. Conobbi una pace che non avevo mai creduto fosse reale. Percepii quella ragazza che si contorceva fra le lenzuola e sussurrava il mio nome, e, anche se un momento prima le avevo promesso tutto il mio cuore, adesso lei non era nulla, nulla tranne quello che poteva darmi, il tesoro rinchiuso dietro le porte di quel tempio serico che mi chiamava senza pronunciare una parola. Sentii qualcosa agitarsi nelle gengive e, quando passai la lingua sui denti, scoprii che erano diventati affilati come coltelli. Potevo udire le pulsazioni nelle cosce di Ilsa, premute forte contro le mie orecchie, sforzandomi di voltare il capo mentre lei sospirava in segno di protesta. E allora, che Dio mi aiuti, affondai i denti dentro di lei, che inarcò la schiena e tese ogni muscolo mentre gettava la testa all’indietro e mi tirava più vicino, cercando di non urlare.

«Allora conobbi il colore del desiderio. E quel colore era rosso.

«“Cosa sono? Cosa sto facendo? Nel nome di Dio, cosa mi sta succedendo?” Ecco i pensieri che avrebbero dovuto attraversarmi la testa. Le domande che qualunque persona sana di mente avrebbe potuto porsi. Ma per me non ci fu nulla. Nulla tranne le mie labbra contro la pelle di Ilsa e il flusso di quella vena forata dentro la mia bocca. Bevvi come sabbia riarsa del deserto, arida da mille anni. Bevvi come se il mondo intero stesse terminando e solo un altro sorso di lei potesse salvarlo, salvare me, salvarci tutti quanti dal gran finale in attesa nelle tenebre. Non potevo fermarmi. Non volevo.

«“Fermati…” Il sussurro di Ilsa si fece strada attraverso l’inno smisurato che avevo nella testa, quel coro dei nostri battiti di cuore intrecciati. Ora il suo stava diminuendo, debole e fragile come quello di un uccello spezzato, mentre il mio pulsava più forte che mai. Tuttavia, la parte di me che amava quella ragazza si rese conto di quello che stava facendo l’altra. E finalmente staccai la bocca con un rantolo di orrore esausto.

«“Oh, Dio…” Sangue. Sulle lenzuola. Sulle sue cosce e nella mia bocca. E, man mano che l’incantesimo del mio bacio si dissipava, man mano che il desiderio oscuro che si era impadronito di lei scemava, Ilsa vide cos’avevo fatto. La parte animalesca di lei prese il sopravvento e, nell’istante in cui sollevavo le mani per zittirla, lei aprì le labbra livide e urlò. Lo strillo di una ragazza che comprende che il mostro non si trova più sotto il letto. Il mostro è lì nel letto con lei.

«Udii passi di corsa. Una lieve imprecazione. Ilsa urlò di nuovo, gli occhi colmi di puro terrore. E quel terrore si impadronì anche di me, trasformandomi lo stomaco in acqua. Era quello di un ragazzo che ha fatto del male alla persona che ama, che si trova a letto con la figlia di un padre i cui passi stanno arrivando in fretta lungo il corridoio, che si è svegliato da un incubo per scoprire che quell’incubo è lui.

«La porta si spalancò. Il borgomastro si stagliò lì nella sua vestaglia, un pugnale in mano. E urlò: “Buon Dio onnipotente!” mentre mi trascinavo via dal letto disfatto, palmi e mento cosparsi di rosso. Ilsa stava ancora urlando e il borgomastro agitò la lama con un ruggito. Emisi un rantolo quando una linea di fuoco mi fendette la schiena, dall’alto verso il basso, ma ero già scomparso, muovendomi così rapido che il mondo era indistinto, attraverso la finestra e nel buio.

«Atterrai a piedi nudi nella mota, tirandomi su le brache mentre barcollavo, le mani rosse e appiccicose. Potevo udire il villaggio svegliarsi, le urla di Ilsa che risuonavano per la piazza fangosa, e lo scalpiccio degli stivali delle guardie intanto che piccole luci avvampavano nell’oscurità. Ero perso, solo, e correvo Dio solo sapeva dove. Ma mi resi conto con tremenda meraviglia che la notte era viva attorno a me, ardeva vivida e bella come una volta aveva fatto il giorno. Le mie gambe erano acciaio, il mio cuore era tuono, e sentivo ogni briciolo del mio essere come il leone da cui prendevo il nome. In quel momento, fui più vivo e spaventato di quanto fossi mai stato, eppure la mia mente fu abbastanza lucida da interrogarsi. Cosa mi stava succedendo? Cosa avevo fatto? Amélie mi aveva trasmesso una parte della sua maledizione? Oppure ero qualcosa di completamente diverso?

«Cominciò a nevicare. Udii i rintocchi delle campane della chiesa. E continuai a correre verso l’unico posto in cui pensavo di poter trovare rifugio. Vampiro, dove scappa il cucciolo quando ha i lupi alle calcagna? A chi chiede aiuto il soldato quando sta morendo dissanguato sul campo di battaglia?»

«Da sua madre» rispose Jean-François.

«Da sua madre.» Gabriel annuì. «La sera in cui avevo messo al tappeto mio padre, lei aveva cercato di dirmi qualcosa. Quando il sangue mi aveva chiamato per la prima volta. E così feci irruzione attraverso la porta della nostra casetta e chiamai solo lei. Mia madre si alzò dal letto mentre mia sorella mi fissava a occhi sgranati, timorosa per il sangue che avevo su mani e faccia. Papà ringhiò: “Oddio, cos’hai fatto, ragazzo?” e Celene mormorò una preghiera sommessa. Ma mia madre mi cinse tra le braccia e sussurrò: “Non temere, amore mio. Andrà tutto bene”.

«Pugni pesanti colpirono la porta. Voci infuriate. Mamma e papà si scambiarono un’occhiata, ma lui non mosse un muscolo. E con le labbra tirate in una linea sottile, la mia leonessa si avvolse uno scialle attorno alle spalle e prese la mia mano coperta di sangue, portandomi fuori al freddo. Metà villaggio ci attendeva. Alcuni impugnavano lanterne, torce infuocate o icone del Redentore. Tra loro c’era il borgomastro, così come père Louis; il sacerdote stringeva in mano una copia dei Testamenti come se fosse una spada. Sollevò il libro sacro e lo puntò verso di me, la sua voce roca della stessa furia moralista con cui aveva condannato mia sorella. “Abominio!”

«Mia madre urlò per protestare, però la sua voce si perse nel clamore. Il maniscalco mi afferrò per il braccio. Ma il sangue che avevo rubato pulsava caldo e rosso in tutte le mie cavità, e io lo scagliai via come se fosse fatto di paglia. Altri uomini avanzarono e io li attaccai, sentendo ossa spezzarsi e carne lacerarsi tra le mie mani. Ma quelli mi aggredirono come una folla, con il prete che tuonava: “Abbattetelo! In nome di Dio!”.

«“È uno di essi!” urlò qualcuno.

«“Perduto come sua sorella!” strillò qualcun altro.

«Mia madre cominciò a gridare e Celene stava lanciando imprecazioni; in mezzo al tumulto, udii anche mio padre ruggire, urlando che ero solo un ragazzo, soltanto un ragazzo. Sentii la folla trascinarmi in piedi, insanguinato e quasi privo di sensi, e allora pensai ad Amélie, che danzava e urlava mentre bruciava. Mi domandai se mi attendesse lo stesso destino. Guardai negli occhi père Louis, il bastardo che aveva negato la sepoltura a mia sorella, con l’odio sulla lingua. “Fottuto codardo senza fede” sbraitai. “Prego che tu muoia urlando.”

«Un colpo risuonò nell’aria, lo scoppio di una pistola a ruota, che mi riecheggiò nelle orecchie. E la folla rimase immobile, tutti gli occhi rivolti verso le figure a cavallo che risalivano lentamente la strada fangosa. Due di loro montavano destrieri pallidi, simili agli angeli della morte delle pagine dei Testamenti. Alla testa cavalcava un tipo esile, scheletrico come uno spaventapasseri. Indossava un cappotto di cuoio, nero e pesante. Aveva il tricorno calato sulla testa, il colletto annodato attorno a bocca e naso. Tutto ciò che riuscivo a vedere delle sue fattezze era una ciocca di secchi capelli color paglia e i suoi occhi. Le iridi erano di un verde chiarissimo, ma le sclere erano così iniettate di sangue da essere praticamente rosse. Aveva un sacco di iuta sulla groppa del suo robusto pony della tundra. La forma di ciò che conteneva ricordava un uomo. Sulla sua spalla era posato un falcone, con lucide penne grigie e scintillanti occhi dorati.

«Il secondo cavaliere era più giovane, con le spalle più ampie, ma anche nel suo caso riuscivo a vedere ben poco della faccia. Portava lo stesso equipaggiamento del primo, con una lunga lama infoderata alla cintura. Il suo tricorno era tirato in basso e muoveva lo sguardo tra la folla con occhi azzurro ghiaccio.

«La neve scendeva più fitta e il freddo si insinuava nella mia pelle esposta. Sulle selle i cavalieri portavano piccole lanterne da cacciatore e la luce scintillava sui fiocchi che cadevano dal cielo, grossi e gelidi, con le septistelle d’argento ricamate sul loro petto.

«Mio padre era andato a prendere dalla parete la vecchia spada militare mentre mia madre era senza fiato, i capelli sfuggiti alla treccia. Celene se ne stava con i pugni serrati, la mia piccola furia, sempre pronta a difendere il suo fratellone, mentre i pony scalpitavano lentamente fino a casa nostra. Tutti noi riuscivamo a percepire la serietà di quel momento. Osservai quegli strani uomini e notai le loro ottime cavalcature, l’eleganza nel taglio dei loro cappotti, il filo delle stelle che avevano sul petto che non sembrava affatto filo, bensì vero argento.

«Poi quello al comando fece scivolare la pistola dentro il cappotto e disse a gran voce, sovrastando il canto delle mie pulsazioni: “Sono frère Manogrigia, Santo d’argento di Santa Michon”. Mi indicò. “E sono qui per il ragazzo.”»