IV

I PERICOLI DEL MATRIMONIO

«L’INSEGNA SOPRA LA porta della taverne diceva IL MARITO PERFETTO. Le lettere sbiadite erano accompagnate dall’immagine di una tomba scavata di fresco. Non avevo nemmeno messo piede nel locale che già mi piaceva.

«La cittadina aveva visto notti migliori, ma ventiquattro anni dopo il sine die c’erano pochi posti nell’impero di cui si potesse dire il contrario. In verità, era fortunata a essere sopravvissuta. Le strade di Dhahaeth erano di fango congelato, gli edifici che si appoggiavano gli uni contro gli altri come ubriachi all’ultimo giro. Vecchi spicchi d’aglio e trecce di vergini erano inchiodati a ogni porta, fintargento e sale sparsi su ogni davanzale… benché fossero inutili. L’intero posto puzzava di merda e funghi, le vie brulicavano di ratti e la gente che incrociavo mi dava un’occhiata e poi si affrettava sotto la pioggia gelida, facendosi il segno della ruota.

«Nella cittadina c’era abbastanza traffico da avere ancora una stalla, però. Lo stalliere prese il mezzo reale che gli tirai e se lo mise in tasca mentre smontavo dalla giumenta. “Dalle la biada migliore e una bella strigliata” gli dissi, con una pacca sul collo di Gez. “Questa dama è brava e se l’è proprio meritato.”

«Il ragazzo fissò la septistella sul mio palmo, stupefatto. “Siete un Santo d’argento. Avete…”

«“Bada al cavallo e basta, ragazzo.”

«Mi tremavano le mani quando gli consegnai le redini, e il dolore al braccio rotto e lo stomaco vuoto mi resero semplice ignorare il suo sguardo ferito. Senza un’altra parola, attraversai il fango a passi pesanti, superai una ghirlanda di campanule argentee secche e varcai le porte del Marito Perfetto.

«Malgrado l’insegna tetra, la taverne era confortevole come una vecchia sedia a dondolo. Le pareti erano ricoperte di locandine da una delle città più grandi di Elidaen, Isabeau, forse perfino Augustin. Soprattutto spettacoli nei bordelli e burlesque. Gli acquerelli incorniciati nella sala comune ritraevano femmine dagli abiti succinti con merletti e corsetti, e sopra il bancone campeggiava un ritratto a figura intera di una stupenda ragazza dagli occhi verdi con la carnagione marrone scuro, che indossava soltanto un boa di piume. La sala comune era fiocamente illuminata, piena zeppa di avventori, e riuscii a capire perché. In ogni taverne che avevo visitato, il proprietario aveva impresso la propria personalità sulle pareti. E questa era calda e affettuosa come le braccia di una vecchia amante.

«Le conversazioni si interruppero quando entrai. Tutti gli occhi si voltarono verso di me mentre mi slacciavo la cintura portaspada e mi sfilavo il cappotto con un sussulto. Sotto ero zuppo e avevo terribilmente freddo, cuoio e tunica appiccicati alla pelle. Avrei dato un pugno nelle tette alla mia stessa nonna per un bagno caldo, ma prima mi serviva del cibo. E del fumo, Dio Onnipotente… fottuto fumo.

«Appesi cappotto e tricorno, poi avanzai nella sala comune. Il tavolo più vicino al fuoco era occupato da tre giovanotti equipaggiati come miliziani. Avevano di fronte dei piatti vuoti e, cosa più importante, una candela ardeva in una polverosa bottiglia di vino.

«“… Vuoi unirti a noi, adii?” chiese uno di loro.

«“No. E non sono vostro amico.”

«Un silenzio sgradevole calò sulla stanza. Io rimasi semplicemente lì a fissarli. Poi, quando finalmente ebbero capito l’antifona, i ragazzi si scusarono e liberarono il tavolo.»

Jean-François ridacchiò mentre la penna grattava. «Eri davvero un bastardo, de León.»

«Adesso sì che mi segui, sanguefreddo.» Gabriel si grattò l’ombra di barba e si passò le dita tra i capelli prima di proseguire. «Mi sfilai gli stivali e li misi vicino al fuoco. Stavo per prendere la pipa quando una cameriera si materializzò accanto a me.

«“Cosa preferisci, adii?” mi chiese in un delicato accento sūdhaemico.

«Alzando lo sguardo, vidi delle trecce scure. Occhi verdi. Osservai con aria interrogativa il ritratto sopra il bancone.

«“Mia madre” spiegò lei, con l’aria ferita di qualcuno che doveva farlo spesso. Indicò con il capo una donna dietro il bancone, dalle proporzioni abbondanti e più vecchia di vent’anni, ma decisamente il soggetto del dipinto. Mi domandai distrattamente se avesse tenuto il boa.

«“Cibo” dissi alla ragazza, armeggiando con la mia pipa. “E una stanza per la notte.”

«“Come vuoi. Da bere?”

«“Whisky?” domandai speranzoso.

«Lei ridacchiò, roteando gli occhi. “Ti sembra che siamo nella fortezza di un lord?”

«Ora, una minuscola parte di me non poteva che ammirare quella ragazza che mi rispondeva a tono mentre i giovani miliziani avevano lasciato come con una pessima mano a carte. Ma gran parte di me diventava più stronza a ogni respiro. “Non sembra affatto la fortezza di un lord. E tu non sembri certo una nobildonna. Perciò bando alle ciance, mademoiselle, e dimmi semplicemente cos’avete.”

«Allora la sua voce divenne più fredda. “Abbiamo quello che hanno tutti, adii.”

«“Una fottuta vodka.”

«“Sì.”

«Mi accigliai. “Una bottiglia, allora. Roba buona. Non piscio di maiale.”

«Lei mi rivolse la riverenza più svogliata possibile e girò i tacchi. Avrei dovuto sapere che chiedere era inutile. Per allora, il liquore di grano era difficile da trovare quanto un uomo sincero in un confessionale. Fin dal sine die, i contadini si erano ridotti a coltivare raccolti che potevano germogliare nella poca luce che quel sole bastardo ci dava ancora. Cavoli. Funghi. E naturalmente le disprezzate patate.» L’ultimo Santo d’argento sospirò. «Cazzo, quanto odio le patate.»

«Perché?»

«Mangia sempre la stessa cosa ogni giorno della tua vita, sanguefreddo, e vedrai quanto ti verrà a noia.»

Jean-François si esaminò le unghie lunghe. «Non ho mai udito un’argomentazione migliore contro il sacramento del matrimonio, Santo d’argento.»

«Annuii in segno di ringraziamento quando la ragazza mi portò il liquore. Gli avventori tornarono alle loro chiacchiere, fingendo di non guardarmi. La taverne era affollata e, tra la gente del luogo sūdhaemica, notai altre persone dalla carnagione pallida, kilt sudici e un’aria disperata: profughi dall’Ossway, molto probabilmente, che fuggivano dalle guerre a nord. Ma almeno sembrava che la distrazione causata dal mio arrivo fosse terminata. Così allungai la mano verso una fiala di vetro nella mia bandoliera.

«Di solito non fumavo in compagnia, ma il bisogno gravava su di me come piombo. Misurai una dose generosa, poi presi la bottiglia di vino con la sua candela rosso sangue e tenni la pipa vicino alla fiamma. Fumare il sanctus è un’arte. Se tieni la fiamma troppo vicino, il sangue brucia. Se la tieni troppo lontano, si scioglie troppo lentamente, liquefacendosi invece di evaporare. Ma se lo fai nel modo giusto…» Gabriel scosse il capo, gli occhi grigi scintillanti. «Dio Onnipotente, fallo nel modo giusto ed è magia. Un’estasi rosso brillante, che riempie ogni pollice del tuo cielo. Mi accostai al cannello della pipa, consapevole degli sguardi puntati su di me, ma non me ne importava niente. Quello che stavo fumando era il tipo di sangue più scadente. Diluito come sciacquatura di piatti. Ma non appena toccò la mia lingua, fui a casa.»

«Com’è?» domandò Jean-François. «L’adorato sacramento di santa Michon?»

«Le parole non possono descriverlo. È come se cercassi di spiegare un arcobaleno a un cieco. Immagina il momento, quel primo secondo in cui ti insinui tra le cosce di un’amante. Dopo un’ora o più di adorazione all’altare, quando tutto il resto ha fatto il proprio corso e nei suoi occhi c’è soltanto desiderio di te, e infine lei sussurra quelle parole magiche… ti prego.» Il Santo d’argento scosse il capo, lanciando uno sguardo alla pipa sul tavolino in mezzo a loro. «Prendi quel paradiso e moltiplicalo per cento. Potresti andarci vicino.»

«Parli del sanctus come noi sodali parliamo del sangue.»

«Il primo era un sacramento dell’Ordine d’argento. Il secondo è peccato mortale.»

«Non trovi ipocrita che il tuo Ordine di cacciatori di mostri si affidasse al sangue proprio come i mostri a cui davate la caccia?»

Gabriel si sporse in avanti, i gomiti sulle ginocchia. Le maniche lunghe della tunica scivolarono in alto, scoprendo i tatuaggi elaborati sui suoi avambracci. Mahné, l’angelo della morte. Eirene, l’angelo della speranza. Erano realizzati con maestria e l’inchiostro scintillava argenteo alla luce della lanterna. «Eravamo figli dei nostri padri, sanguefreddo. Avevamo ereditato la loro forza. La loro velocità. Ci scrollavamo di dosso ferite che avrebbero mandato nella fossa uomini normali. Ma tu conosci l’orrore della sete con cui siamo stati maledetti. Il sanctus era un modo per placarla senza soccombere a essa o alla follia in cui saremmo caduti se l’avessimo negata del tutto. Avevamo bisogno di qualcosa.»

«Bisogno» ripeté Jean-François. «Quello era il punto debole del vostro Ordine, Santo d’argento.»

«Tutti hanno un vuoto dentro» sospirò Gabriel. «Puoi cercare di riempirlo con quello che prediligi. Vino. Donne. Lavoro. Alla fine, un buco è comunque un buco.»

«E presto o tardi, strisciate tutti in quello che preferite» disse il vampiro.

«Affascinante» mormorò Gabriel.

Jean-François si inchinò.

«Quando il fumo raggiunse i miei polmoni» proseguì Gabriel, «la stanza andò nettamente a fuoco. Potevo sentire gli occhi degli avventori su di me. Udire ogni parola che sussurravano. Le fiamme che ardevano nel focolare e la pioggia che tamburellava sul tetto. La stanchezza scivolò via dalle mie ossa come da un cappotto zuppo. Il braccio smise di farmi male. Tutto il mio io – gusto, tatto, olfatto, vista – era vivo.

«E poi, come sempre, cominciò. La mia mente si affinò assieme ai sensi. Il peso del giorno mi colpì come un martello. Riuscii a vedere di nuovo il mio povero Giustizia, a udire i suoi nitriti nella testa. Le facce di quei soldati che avevo lasciato a morire, l’inquisitrice a cui avevo sparato. Le rovine sulla mia scia e le ombre che mi seguivano. Paura. Dolore. Tutto quanto amplificato. Cristallizzato.

«E così allungai una mano verso la vodka. La bestia era stata nutrita e non volevo provare più nulla. Bevvi un quarto di bottiglia in un solo sorso. Altrettanto qualche minuto dopo. Mi accasciai accanto al fuoco, chiudendo gli occhi mentre il liquore combatteva l’inno di sangue, nero che affogava rosso, dando il benvenuto all’avvento di dolce, silenzioso grigio.

«Bevvi per dimenticare. Per non sentire, vedere e udire nulla.

«E poi qualcuno pronunciò il mio nome. “Gabriel?”

«Era una voce che non udivo da anni. Che mi riportò alla mente giorni più giovani. Giorni gloriosi. Giorni in cui il mio nome era un inno, quando non potevo far nulla di lontanamente sbagliato, quando i Morti parlavano di me con timore e la gente comune con meraviglia.

«“Gabe?” chiamò di nuovo la voce.

«Allora mi chiamavano il Leone Nero. Gli uomini che guidavo. Le sanguisughe che uccidevamo. Le madri davano ai figli il mio nome. L’imperatrice in persona mi aveva nominato chevalier con la sua stessa lama. Allora, per alcuni anni, avevo sinceramente pensato che stessimo vincendo.

«“Sette Martiri, sei proprio tu…”

«Aprii gli occhi e seppi che stavo sognando. Davanti a me c’era una donna, minuta e fradicia, con grandi occhi verdi colmi di domande. La sua sagoma era resa indistinta dall’alcol, ma l’avrei riconosciuta ovunque. E mi domandai perché la mia mente avesse evocato proprio lei, tra tutti quanti. Di tutte le facce che avrei potuto vedere quando chiudevo gli occhi la notte, avrei scelto lei per ultima.

«Ma poi mi si accostò e mi cinse con le braccia. Captai odore di cuoio e pergamena, puzza di cavallo sulla sua pelle e di sangue tra i suoi capelli. E mentre sussurrava: “Sia lode a Dio” e mi stringeva contro il petto, la parte del mio cervello intorpidita dall’alcol finalmente si rese conto che non si trattava di un sogno.

«“Chloe?”»