XII

DUE BICCHIERI

«NO» DISSE IL vampiro.

Gabriel alzò lo sguardo. «No?»

«No, de León, così non va.»

«Non va?» replicò Gabriel sollevando le sopracciglia.

«No.» Jean-François agitò la penna come infastidito. «L’ultima volta che hai menzionato questa giovane Rennier, lei non era che una novizia nel monastero che ti ha addestrato, e adesso apprendo che è diventata tua… moglie? La madre di tua figlia? La mia imperatrice desidera conoscere il tuo racconto nella sua interezza.»

Gabriel infilò una mano nelle brache malconce e vi frugò dentro sotto lo sguardo del mostro. Infine tirò fuori dalla tasca un reale ossidato. «Ecco.»

«Per cosa sarebbe?» domandò Jean-François.

«Voglio che tu porti questa moneta al mercato e mi compri un cazzo che me ne freghi.»

«Non è così che si narrano le storie, Santo d’argento.»

«Lo so. Ma spero che la suspense ti ucciderà.»

«Ci riporterai indietro. Alle mura di Santa Michon.»

«Ah, sì?»

Il sanguefreddo tenne sollevata la fiala di sanctus tra indice e pollice. «Sì.»

Gabriel lo osservò per diverso tempo, in silenzio. La sua mascella si contrasse e strinse i braccioli della poltrona tanto forte da far cigolare il legno. Per un istante parve che potesse alzarsi, avventarsi sul vampiro, scatenare quell’odio terribile che si agitava cupo e profondo dietro i suoi occhi. Ma il marchese Jean-François della stipe Chastain era imperturbato.

Gabriel fissò il vampiro negli occhi con durezza. Lo sguardo si spostò verso la fiala tra le sue dita affusolate. L’inno di sangue era ancora intenso dentro di lui, ma ciò non voleva dire che la sua sete fosse placata. Una pipa non era abbastanza.

“Non è mai stata abbastanza, vero?”

La verità era che non sapeva se fosse pronto a tornare indietro. Non era disposto a rivangare i fantasmi del passato. Anche quelli erano affamati. Rinchiusi nella sua testa, la porta bloccata e arrugginita dal lungo inutilizzo. Se l’avesse forzata…

«Se devo tornare a Santa Michon» dichiarò infine, «mi servirà da bere.»

Jean-François schioccò le dita. La porta si aprì all’improvviso, con l’ammaliata che attendeva sulla soglia. Teneva lo sguardo basso, le sottili trecce rosse drappeggiate davanti agli occhi.

«Cosa desiderate, padrone?»

«Vino» ordinò il vampiro. «Il Monét, penso. Porta due bicchieri.»

La donna incontrò gli occhi del ragazzo Morto e un rossore improvviso le imporporò le guance. Si profuse in una profonda riverenza, le lunghe gonne nere fruscianti mentre si precipitava via. Gabriel la ascoltò allontanarsi giù per una scala di pietra e lanciò un’occhiata alla porta adesso spalancata. Deboli suoni di vita vagavano dallo château lì sotto: rumori di piedi, una breve risata, un debole verso cinguettante. Gabriel contò dieci passi dalla sua sedia alla porta. Una goccia di sudore gli fece il solletico tra le scapole.

Vide che Jean-François ora stava illustrando la compagnia del Graal. Père Rafa, i cui ammonimenti gli riecheggiavano nella testa, nelle sue vesti, con la ruota attorno al collo. Saoirse con le ammazzatrecce e lo sguardo da cacciatrice, la leonessa Phoebe accanto a lei come un’ombra rossa. Bellamy con il cappello da libertino e il facile sorriso e, sul davanti, la piccola Chloe Sauvage, con la spada in argentacciaio e le guance lentigginose, e tutta la speranza del mondo che brillava nei suoi occhi da bugiarda.

Il vampiro alzò lo sguardo. «Ah, splendido…»

L’ammaliata era sulla porta, con un vassoio dorato in mano. Sopra c’erano due calici di cristallo assieme a una bottiglia di ottimo Monét dai vigneti elidaeni. Un vitigno del genere era raro come l’argento, quelle notti. Il tesoro di un imperatore dentro vetro verde polveroso.

L’ammaliata posò i calici sul tavolino e versò una quantità generosa in quello di Gabriel. Il vino era rosso come sangue di cuore, il suo profumo un inebriante cambiamento, dopo quello di paglia ammuffita e ferro arrugginito. Il secondo bicchiere rimase vuoto.

Senza parlare, Jean-François protese la mano. Il Santo d’argento osservò con la bocca sempre più secca la donna che si inginocchiava accanto alla poltrona del mostro. Aveva le guance arrossate, il petto che si alzava e abbassava mentre metteva la mano in quella del vampiro. Di nuovo Gabriel fu colpito dall’idea che sembrasse abbastanza grande da essere la madre del vampiro, e tutta quella menzogna avrebbe potuto dargli il voltastomaco se non fosse stato per il pensiero e l’eccitazione di ciò che stava per accadere.

Il vampiro guardò verso Gabriel mentre si portava alle labbra il polso della donna.

«Pardon» mormorò. Il mostro morse. La donna gemette piano mentre pugnali d’avorio scivolavano attraverso la sua cute pallida e nella carne morbida al di sotto. Per un attimo sembrò che potesse soltanto respirare, caduta nell’incantesimo di quegli occhi, quelle labbra, quei denti.

“Il Bacio” lo chiamavano, quei mostri che indossavano la pelle di uomini. Un piacere più oscuro di qualunque peccato carnale, più delizioso di qualunque droga. Allora Gabriel riuscì a vedere che la donna era perduta, alla deriva in un mare rosso sangue. E per quanto fosse orribile, una parte di lui ricordò quel desiderio che gli martellava caldo contro le tempie, giù tra le gambe. Poteva sentire i denti diventare aguzzi, una puntura di dolore come un ago quando premette la lingua contro un canino.

Sotto il girocollo di pizzo, notò vecchie cicatrici da morso sul collo della donna. Il suo sangue ribollì mentre si domandava in quali altri punti potesse nascondere i segni della loro fame. La testa della donna si piegò all’indietro e le lunghe trecce ricaddero sulle sue spalle nude mentre si premeva la mano libera sul petto, le ciglia che sfarfallavano. Gli occhi di Jean-François erano sempre fissi su Gabriel, si strinsero lievemente quando un breve gemito di piacere gli sfuggì dalle labbra.

Ma poi il mostro interruppe il suo empio bacio e una sottile striscia di sangue color rubino si allungò e si ruppe quando spinse via la mano della donna. Con gli occhi ancora sul Santo d’argento, il vampiro tenne il polso aperto dell’ammaliata sopra il calice vuoto e il sangue cadde denso e caldo, cremisi nel cristallo. Il suo odore riempì la stanza, facendo accelerare il respiro di Gabriel e rendendo la sua bocca secca come tombe. Di desiderio. Di bisogno.

Il vampiro tagliò la punta del proprio pollice usando le zanne e la premette contro le labbra della donna. Gli occhi dell’ammaliata si aprirono di colpo e lei ansimò, succhiando come un neonato affamato, con una mano premuta tra le gambe mentre beveva. Quando il calice fu pieno – plink, plink, plink – il vampiro sollevò il polso ferito della donna. Poi, come un ospite distratto, lo offrì a Gabriel. «Potremmo condividerla. Se ti aggrada.»

Gli occhi della donna sfarfallarono di nuovo a quelle parole, il petto si gonfiò e le dita tamburellarono mentre beveva. Allora Gabriel se lo ricordò: quel sapore, quel calore, una gioia oscura e perfetta che nessun fumo avrebbe mai potuto eguagliare. La sete si impennò dentro di lui, un’eccitazione che pulsava dall’inguine dolente fino ai polpastrelli che formicolavano. E tutto ciò che riuscì a fare in quel momento fu sibilare attraverso denti serrati e affilati come coltelli. «No. Merci.»

Jean-François sorrise, poi leccò il polso sanguinante della donna con una lingua rosso vivo. Il mostro le sfilò il pollice dalla bocca, poi parlò con voce densa e pesante come ferro. «Lasciaci, amore.»

«… Come volete, Padrone» mormorò lei, senza fiato. Si alzò su gambe tremanti, reggendosi alla sedia del mostro. Con la ferita al polso che si stava già chiudendo, si profuse in un inchino tremante e poi, con un’ultima occhiata lasciva a Gabriel, uscì dalla stanza. La porta si richiuse piano alle sue spalle.

Jean-François sollevò il calice pieno di sangue. Gabriel osservò affascinato mentre il vampiro lo teneva contro la luce della lanterna, rigirandolo da una parte e dall’altra. Era così rosso da sembrare quasi nero. Le labbra del mostro si incurvarono in un sorriso, gli occhi ancora in quelli del Santo d’argento. «Santé» disse Jean-François, augurandogli buona salute.

«Morté» replicò Gabriel, brindando alla sua morte.

I due bevvero: il vampiro prese un unico, lento sorso, mentre Gabriel tracannò il suo vino tutto d’un fiato. Jean-François sospirò, succhiando e mordendo con delicatezza il rigonfiamento pieno del suo labbro inferiore. Gabriel allungò la mano verso la bottiglia e riempì il proprio bicchiere.

«Dunque» mormorò Jean-François, lisciandosi il gilet. «Eri un ragazzo quindicenne, de León. Un moccioso nordlundiano sanguefragile, trascinato dal fango squallido di Lorson alle mura inespugnabili di Santa Michon. Ti resero un leone. Una leggenda. Un nemico che perfino il Re Sempiterno imparò a temere. Come?»

Gabriel si portò il calice alle labbra e lo svuotò con una lunga sorsata. Un po’ di vino gli sgocciolò sul mento e lui lo pulì, poi guardò la ghirlanda di teschi tatuata sulla sua mano destra. Quelle otto lettere incise sopra le dita.

P A T I E N C E

«Non mi resero un leone, sanguefreddo» rispose. «Come diceva mia madre, il leone è sempre stato nel mio sangue.» Chiuse lentamente la mano e sospirò. «Mi aiutarono soltanto a liberarlo.»