«ERA PASSATO MEZZO anno da quando avevo giurato come iniziato dell’Ordine d’argento, e ogni giorno frère Manogrigia mi riduceva allo stremo.
«Come Aaron de Coste aveva promesso, la Disfida era il fuoco in cui sarei stato forgiato oppure fatto a pezzi. La danza era diversa ogni giorno e, per mesi interminabili, fui messo alla prova dal mio maestro o da macchinari ingegnosi costruiti dai fratelli del Focolare. C’erano gli “Uomini puntuti”, un capannello di fantocci da esercitazione in continuo movimento che potevano controbattere quando li colpivi. “La Trebbiatrice” era una serie di pali di quercia rotanti che fuoriuscivano dalla roccia per trenta piedi: un passo falso durante un’esercitazione significava trascorrere il resto della giornata con le ossa rotte. Il percorso a ostacoli semoventi chiamato “la Cicatrice”, la prova di velocità detta “la Falce”, tutti ideati per renderci più duri. Più rapidi. Più forti.
«Il sanctus che mi davano da fumare a ogni vespermessa stava risvegliando la bestia dentro di me: la potenza, i riflessi, l’affinamento dei miei sensi da sanguepallido. Mi sentivo come una lama che fosse stata tenuta in uno scantinato freddo e poi finalmente sguainata al sole. Eppure non ero affilato come gli altri ragazzi attorno a me e non lo sarei mai stato.
«Frère Manogrigia non menzionò mai il mio retaggio da sanguefragile dopo la Prova del Sangue, ma il sarcasmo da parte di Aaron e dei suoi compari era un promemoria sufficiente. Gli iniziati andavano e venivano da Santa Michon, fermandosi per giorni o settimane, quindi tornavano alla Caccia con i loro maestri. Molti erano aristocratici, il che aveva un certo senso: ai sanguenobile di solito piaceva nutrirsi tra l’alta società. Ma per me voleva dire un flusso costante di coglioni altolocati che mi dileggiavano per i miei natali e pure per il mio sangue. Che pezzi di merda. Giuro che c’erano più cazzoni pungenti in quella Caserma che all’addio al celibato di un riccio.
«Quando poteva, Aaron si accompagnava a un ragazzo di nome de Séverin, figlio di una baronessa elidaena. De Séverin aveva occhi scuri e labbra imbronciate: il suo volto mi ricordava quello di un pesce morto, a dire la verità. L’altro compare di Aaron era un attraente rampollo nobile, bruno di capelli e con gli occhi azzurri. C’era crudeltà nel suo sguardo, tale da farmi immaginare che i servitori nella casa di suo padre dovessero stare attenti a come si comportavano al cospetto del presunto erede. Si chiamava Medio Philippe.»
Jean-François batté le palpebre. «Medio Philippe?»
«Il padre dell’imperatore Alexandre, Philippe IV, aveva occupato il Trono Quinario per vent’anni. Alcuni genitori danno ai propri marmocchi nomi di persone illustri, sperando che ne ereditino la fama. C’erano tre Philippe tra gli iniziati. Noi soprannominammo “Piccolo” il più minuto, “Grande” il più alto e “Medio” quello di mezzo.»
«Ingegnoso, de León.»
«Degli adolescenti possono inventare soprannomi ben peggiori, credimi. E io li udii tutti. Delle due dozzine di iniziati che incontrai nel corso di quei sei mesi, solo un paio non mi trattarono come merda secca. Theo Petit, il ragazzone dai capelli biondo-rossicci che mi aveva difeso da Aaron poco dopo il mio arrivo a Santa Michon, e un ragazzo osswayano segaligno di nome Fincher. Finch aveva la faccia come una torta schiacciata e occhi scompagnati, uno verde e uno azzurro. A me la cosa non infastidiva, ma rendeva gli altri nervosi.»
«Perché?» chiese Jean-François.
«Superstizione. Certa gente crede che un difetto del genere ti marchi come un fatato. Che qualche antenato nella tua famille se la facesse con il popolo dei boschi. Ma a me piaceva Fincher. Era di stirpe Voss, duro come acciaio. E dormiva con un forchettone sotto il cuscino. Se lo portava perfino al bagno. Era matto come un secchio di gatti bagnati, quello.»
«Perché un forchettone?»
«Glielo chiesi anch’io. “Un regalo di mia nonna prima di morire” mi rispose, rigirandolo tra le dita. “Vero argento, compare.”
«Ma perfino Finch e Theo non erano davvero miei amici. Solo che non mi disprezzavano apertamente. Tutti gli altri iniziati nel monastero presero la stessa strada di de Coste. “Zotico.” “Checchina.” “Micetto.” Erano gli epiteti con cui mi chiamavano, e Aaron era il peggiore di tutti. Mi trovavo il porridge negli stivali. La merda nel letto. Per tutta la vita non ero stato nulla di speciale e perfino lì, tra quei prescelti di Dio, sembrava che fossi stato relegato in fondo al gruppo per quello che ero. Il nome stesso tradiva debolezza. Sanguefragile.»
Jean-François annuì. «Non certo un inizio promettente, de León.»
«Di sicuro non era qualcosa che avrei raccontato in una lettera ai miei. Perciò, anche se mi domandavo chi fosse il mio vero padre e come avesse conosciuto mia madre, non scrissi mai a casa. La mia sorellina Celene mi mandava una lettera ogni due mesi, tenendomi informato su tutto quello che accadeva a Lorson. Pareva che la mia piccola furia non avesse buone intenzioni, ma io non ero nella posizione per farle cambiare idea. Avevo i miei problemi da risolvere. Così la ignorai.» Gabriel scosse il capo. «Provo vergogna nel ripensarci ora. Ma ero giovane. Giovane e stupido.»
«Ma può essere realmente così? Il Leone Nero, l’eroe di Augustin, detentore della Lama folle e uccisore del Re Sempiterno in persona… un miserabile dal sangue denso come acqua?»
«Alcune persone nascono fortunate, sanguefreddo. Mentre altre creano la propria fortuna.»
«Di sicuro da qualche parte lì a Santa Michon superasti le aspettative.»
«Non sulle prime. Ero bravo con la spada. Ma solo perché mio padre mi aveva fatto esercitare parecchio da ragazzo. Mi piaceva stare nella Disfida. Adoravo imparare l’inno delle lame che Manogrigia ci mostrava. L’acciaio non mi giudicava mai, capisci? L’acciaio era una madre. Era un padre. Era un amico. Ma non mi imbattei mai in qualcosa per cui fossi semplicemente portato. L’unica cosa in cui eccellevo era essere un bastardo troppo cocciuto per cedere.»
«Tu sei un vero bastardo, de León, te lo concedo.»
«Non mi piace perdere, sanguefreddo.»
«Allora il peccato di orgoglio ti si addice.»
«Vedi, questo non l’ho mai capito. Perché l’orgoglio sia considerato un male. Lavori duro su qualcosa per cui non sei portato dalla nascita? Dovresti esserne dannatamente orgoglioso. Dalla rinuncia non si ottiene nulla, tranne la consapevolezza di non aver condotto a termine un bel niente.» Gabriel scosse ancora il capo. «È solo nelle favole che tutto va per il meglio grazie a un incantesimo magico o al bacio di un principe. È solo nei libri di racconti che un bastardello raccoglie una spada e la brandisce come se fosse nato avendola in pugno. Noialtri? Dobbiamo farci il culo per ottenere risultati. E potremmo perfino non gustare il trionfo, ma almeno abbiamo avuto il coraggio di fallire. Non siamo come quei codardi che se ne stanno da una parte bisbigliando di quello forte che è inciampato, ma non osano mettere piede nel cerchio. I vincitori sono soltanto persone che non accettano mai di essere sconfitti. L’unica cosa peggiore di finire per ultimi è non cominciare affatto. E ’fanculo al finire per ultimi.»
Il vampiro lanciò un’occhiata nella notte appena fuori dalla finestra e all’impero che si innalzava al di là. «Credevo che ormai la tua specie vi fosse abituata, de León.»
«Touché.»
«Merci.»
«Spocchioso.»
«Così, dopo sei mesi, non eri ancora un Santo dell’Ordine completo?»
«Nemmeno lontanamente. Dovevo completare altre due prove solo per terminare l’ossatura della mia Egida.» Gabriel fece scorrere i polpastrelli su per il braccio sinistro, sopra i tatuaggi argentati. «Questo braccio veniva inchiostrato dopo la Prova della Caccia… supponendo che sopravvivessi. L’altro veniva riempito dopo che avevi ucciso il tuo primo orrore con la tua stessa spada. La Prova della Lama.»
«Allora cosa ottenesti nella Prova del Sangue?»
Gabriel tirò giù il collo della tunica, mostrando un pezzo del leone ruggente sul suo petto.
«Pare un lavoro doloroso» ponderò il vampiro.
«Di sicuro non mi fece il solletico. Ma, come al solito, non avevo idea di cosa mi aspettasse nel giorno in cui lo ottenni.» Gabriel accennò un sorriso. «La notte prima ero così eccitato che non riuscii a dormire. I tatuaggi su Manogrigia, l’abate Khalid e gli altri Santi d’argento mi avevano sempre affascinato. Ma quella doveva essere la prima parte della mia Egida. Il primo vero segno della mia appartenenza all’Ordine.
«Mentre entravo nella grande Cattedrale di Santa Michon un findi mattina, vidi quattro figure che mi attendevano all’altare, ammantate da una luce soffusa e un canto corale. Perfino sotto il suo velo, riconobbi il volto aspro e sfregiato di Charlotte, priora della Sorellanza d’argento. Lei e la sorella che le stava accanto indossavano abiti neri, le facce imbrattate di bianco e septistelle rosse dipinte sopra le palpebre. Ma altre due figure portavano le vesti bianche come colombe delle novizie. La prima era bassa, con gli occhi verdi e lentigginosa, con un ricciolo ribelle di capelli castani che le sfuggiva dal bordo della cuffia.»
«La tua Chloe Sauvage, presumo?» domandò Jean-François.
Gabriel annuì. «E guardando la ragazza al suo fianco, vidi ciglia scure e fumose, un sopracciglio alzato e un neo accanto a labbra incurvate. Mi resi conto che era la novizia che avevo incontrato nelle stalle il giorno in cui avevo scelto il mio cavallo. La stessa che mi aveva tatuato il palmo alla mia prima messa.»
«Astrid Rennier» disse il vampiro.
«“Togliti la tunica e stenditi sull’altare, iniziato” mi ordinò la priora Charlotte.
«Feci come mi diceva. La sorella novizia Chloe mi legò con cinghie di cuoio e brillanti fibbie d’acciaio, e io sussultai per il gelo dell’alcol che mi versò sulla pelle. Quelle quattro erano sante donne del Priorato d’argento, spose o promesse di Dio stesso, e non osavo nemmeno guardarle. Invece osservai la statua del Redentore sopra di me. Tuttavia potevo percepire la presenza della sorella novizia Astrid al mio fianco, sentire l’odore d’acqua di rose nei suoi capelli, udire il lieve sussurro del suo respiro mentre faceva scorrere un rasoio a mano libera sopra i muscoli del mio petto.
«C’era qualcosa di incredibilmente intimo in tutto ciò. Perfino con altri occhi a guardarci. Il suo tocco era delicato come una piuma, la pressione dei suoi polpastrelli faceva accapponare ogni pollice della mia pelle. Il mio cuore galoppava. E, malgrado tutti i miei sforzi, scoprii che il sangue mi affluiva in un punto in cui non avevo alcun desiderio che fosse.» Gabriel ridacchiò tra sé. «Hai mai avuto un’erezione di fronte a un gruppo di suore, sanguefreddo?»
«Non che io ricordi, no.» Jean-François si accigliò lievemente. «Anche se devo ammettere di non essermi mai trovato ad averne bisogno, quando si trattava di suore.»
«Be’, non è una situazione ideale. Ma alle sorelle va riconosciuto che, se lo notarono, furono troppo educate per richiamare l’attenzione. Speravo che l’eccitazione per il tocco della novizia sarebbe svanita quando la priora Charlotte avesse cominciato a conficcarmi quegli aghi nella pelle. Ma nell’istante in cui vidi Astrid prendere un lungo spillone d’argento, mi resi conto che sarebbe stata lei stessa a fare il mio tatuaggio.
«“Benedetta Michon” pregò, “prima dei Martiri, ascolta questa preghiera in sangue e argento. Noi consacriamo questa carne nel tuo nome e offriamo questo ragazzo al tuo servizio. Che tutte le schiere celesti siano testimoni e tutte le legioni dell’inferno tremino. Dolce Vergine Madre, donami pazienza. Sommo Redentore, donami forza. Onnipotente Padre, donami vista.”
«“Véris” replicarono le altre sorelle.» Gabriel scosse il capo, sospirando piano. «La stanza riecheggiava di un canto corale, eppure tutto era silenzioso. Eravamo circondati da sorelle del Priorato e in qualche modo completamente soli. C’era solo dolore tra me e quella ragazza, allora. Dolore e promessa. Il suo alito era fresco sulla mia pelle nuda e sanguinante. Le sue mani calde come luce del fuoco mentre mi feriva, più e più volte.
«Avevo pensato che la septistella fosse stata dolorosa, ma era stata un bacio dolcissimo paragonata a questo. Giacqui tredici ore su quell’altare, immerso nella luce delle candele e nel dolore proveniente dalle mani di quella ragazza strana e stupenda. Era agonia. Era euforia. E da qualche parte lì nel mezzo, le due sensazioni si intrecciarono. Non riuscivo a sopportare un momento di più. Non volevo che finisse mai. Volevo che lei si fermasse e che continuasse a farmi del male, come una diga di pressione che cedeva dentro di me. Quando ero stato ragazzo, il dolore era stato sofferenza. Ma adesso era diventato un premio. Beatitudine nel tormento. Salvezza nella sofferenza.
«Non mi resi conto che stavo piangendo finché tutto quanto non terminò. La sorella novizia Chloe mi versò una quantità di ciò che mi sembrò fuoco gelido sulla pelle sanguinante, e Astrid Rennier parlò come un angelo nel mio orecchio:
«“Questa è la mano
«“Che impugna la fiamma,
«“Che illumina la via e trasforma il buio
«“In argento”.»
L’ultimo Santo d’argento scrollò le spalle. «E allora terminò.»
Jean-François continuò a scrivere sul quaderno, anche se i suoi occhi guizzarono al sorrisetto segreto di Gabriel. «Il disegno specifico riveste qualche importanza?»
Gabriel batté forte le palpebre, come se stesse tornando in sé. Poi, lentamente, annuì. «Il tatuaggio dell’Egida sul torace di un Santo d’argento ne rispecchia la stirpe. De Coste aveva quella ghirlanda di rose e serpenti, che assieme alla sua capacità di essere spinoso e carico di veleno lo contrassegnava come appartenente alla stirpe Ilon. Sia Theo sia l’abate Khalid avevano lo scudo spezzato e l’orso ruggente dei Dyvok. I lupi sul petto di Manogrigia stavano a significare la stirpe Chastain, il che spiegava la sua affinità con Arciere. Spesso avevo pensato che il falcone potesse capire quando lui gli parlava. A quanto pare non avevo torto.»
«E questo è il motivo per cui tu porti il leone.» Lo storico sorrise. «La tua cara mamma.»
«Io non potevo dire di appartenere ad alcuna stirpe vampirica. Non sapevo nulla di mio padre, né di cosa mia madre avesse rappresentato per lui. La sua amante? La sua vittima? La sua schiava? Ma qualunque incertezza avessi circa il vampiro che mi aveva generato, almeno sapevo di essere stato partorito da lei. Così mi aggrappai alla verità che mi aveva dato da ragazzo: “Un giorno da leone ne vale diecimila da agnello”. Portavo quel tatuaggio come un’armatura. Lavorai più sodo di quanto avessi fatto in tutta la mia fottuta vita, ignorando qualsiasi stronzata gli altri ragazzi mi gettassero addosso. E non solo nella Disfida. Si aspettavano che padroneggiassimo ogni tipo di conoscenza: la geografia dell’impero, i catechismi dell’Unica Fede e tattiche di battaglie su larga scala. I punti deboli degli orrori a cui davamo la caccia, la preparazione di armi chemistriche: ignis nero, argento caustico, scintilla infernale e, più importante di tutti, il sanctus.
«Non sono mai stato portato per lo studio. Il serafino Talon teneva lezione con noi nella Grande Biblioteca o nell’Armeria, sempre aiutato dalla sua solerte assistente Aoife. La devota sorella era una tutrice paziente e non ammetteva alcuna negligenza quando si trattava dell’arte della chemistria. Ma Talon era semplicemente un bastardo. Quella sua dannata verga in legno di frassino assaggiò i miei palmi più volte di quante riesco a ricordare. Ogni errore mi fruttava una bastonata e un insulto creativo sulla merda che mi scorreva nelle vene o sulla virtù di mia madre. Ma le sue punizioni non facevano che spronarmi ad andare avanti.
«Mi feci dei taglietti alla base del pollice per ricordare le once di zolfo in una bombargento da una libbra. Ogni mattina mi incidevo con la spada sulle punte delle dita la dose di baccadombra per un misurino di angeligrazia o la quantità di acquagialla in una carica di ignis nero. Ogni giorno per quattro settimane, mi staccai il numero di peli corrispondenti alle gocce di agriradice in una dose di sanctus per incidermelo nella mente. Qualunque cosa, tutto ciò che potevo fare per ricordare.»
«Ti staccavi i peli dalle braccia per ricordare un preparato?»
«Non dalle braccia.»
Lo storico abbassò lo sguardo verso l’inguine del Santo d’argento e sollevò un sopracciglio.
Gabriel annuì. «Ogni giorno per quattro settimane.»
«Quante gocce di agriradice ci sono in una dose di sanctus?»
«Sedici» rispose immediatamente Gabriel.
«Buon Dio Onnipotente, de León.»
«Te l’ho detto, sanguefreddo. Alcune persone nascono fortunate. Altre creano la propria fortuna. A me non è mai stato regalato nulla, tranne la maledizione che mi scorre nelle vene. Ma adesso era quella la mia vita. E se dovevo trascorrerla tra quei cacciatori nell’oscurità, dannazione, allora sarei stato il migliore tra loro oppure sarei perito nel tentativo. E la mia opportunità di morire finalmente arrivò, dopo mezzo anno di sangue, sudore e tatuaggi argentati.
«Una fragile estate era venuta e passata a Santa Michon, e il gelo dell’inverno era nell’aria. Mi stavo addestrando agli Uomini puntuti e avevo un labbro rotto e uno zigomo spaccato. Il maestro Manogrigia era in cima alla Trebbiatrice, a urlare ad Aaron. Era circa la campana di mezzogiorno quando le porte della Disfida si spalancarono e l’abate Khalid entrò nel terreno di addestramento.
«Khalid mi metteva soggezione. Manogrigia era uno spadaccino abile e rapido, ma l’abate era una forza della natura. Il sangue dei Dyvok scorreva nelle sue vene come in quelle di Theo, e durante l’addestramento l’avevo visto impugnare spadoni gemelli, uno in ciascuna mano. Tutti i sanguepallido erano forti, tuttavia Khalid era decisamente terrificante.
«Avanzò nel cerchio con la septistella e Manogrigia e Aaron saltarono giù dalla Trebbiatrice. Tutti e tre ci inchinammo in segno di rispetto. Gli occhi verdi truccati con il kajal di Khalid incontrarono quelli del nostro maestro. “La cittadina di Skyefall è stata colpita dalla malattia. Un’infermità debilitante che nessuno riesce a spiegare. Forse si tratta di stregoneria. Una maledizione dei fatati, o seguaci dei caduti. Da parte mia, sento puzza di sanguefreddo. Ma a ogni modo, il nostro imperatore Alexandre esige risposte. Andate con Dio e i Martiri per cercare la verità.”
«Manogrigia si fece il segno della ruota. “Per il Sangue.”
«Khalid annuì, poi lanciò un’occhiata verso di me. “Rendici orgogliosi, Leoncino.”
«Arciere volava sopra di noi in cerchio, i suoi versi acuti attraversavano l’aria. Mi si gonfiò il cuore nel petto. Dopo sei mesi di lavoro indefesso, finalmente ero stato reputato degno di lasciare Santa Michon. De Coste serrava la mascella con orgoglio. Mentre Khalid girava sui tacchi, il maestro Manogrigia si voltò verso di noi. E anche se le sue fattezze erano impassibili come sempre, mi parve di cogliere una traccia di sorriso nella sua voce. “Finalmente, ragazzi” disse. “Cacciamo.”»