XIX

DISFATTO

«ESISTE UN ODIO così puro da risultare accecante. Esiste una rabbia così completa da consumare tutto quanto. Ti prende e ti spezza, e ciò che sei stato viene distrutto per sempre. Ridotto in cenere e poi rinato. E fu proprio quello che conobbi quando mi alzai ed estrassi Bevicenere dal fodero, la spada un’estensione del mio braccio, il mio braccio un’estensione della mia volontà, la mia volontà una somma di quell’odio, di quella rabbia, di quel desiderio di disfare. Non uccidere. Non distruggere. Annientare. Bevicenere urlò con me mentre fendeva lo spazio in mezzo a noi, troppo rosso perché potessi guardarlo. Un colpo che avrebbe potuto tagliare la terra in due. Un fendente così perfetto che avrebbe potuto squarciare il cielo.

«La lama colpì il Re Sempiterno alla gola. Sideracciaio, caduto dal cielo, schierato di fronte a carne immortale, antica quando l’impero era solo il sogno di un folle.

«Udii il suono dell’acciaio che impattava contro la pietra. Il canto di sogni infranti.» Gabriel guardò le proprie mani. «E Bevicenere si spezzò.

«Astrid colpì urlando, con un guizzo del coltello d’argento che aveva in mano. Nei suoi occhi c’era tutta la furia dell’inferno. Se avesse potuto dare la vita per stillargli una goccia di sangue, sarebbe morta diecimila volte. Ma nonostante tutta la sua rabbia, il mio amore era come il pugno di un bambino contro una montagna. E la mano di Voss guizzò attorno alla mia gola, stringendola come una morsa. Ruggii nell’istante in cui afferrò Astrid con l’altra, attirandola contro il petto mentre guardava nei miei occhi, e sorrise come la morte di ogni luce.

«“Eccolo” sussurrò. “Il leone risvegliato.

«Ringhiai in preda a una furia cieca e a una rabbia strozzata. E con tutta la potenza oscura del suo sangue antico, Voss mi sollevò in alto e mi scagliò a terra, con forza tanto poderosa che sfondai il pavimento e finii nella cantina sottostante. Sbattei il cranio sulla pietra e sentii le ossa infrangersi, il mio corpo spezzarsi assieme al cuore dentro di esso. La sua voce scese attraverso la polvere, il sangue, il dolore, un sussurro nel buio sempre più fitto, troppo basso perché qualcun altro a parte noi due potesse udirlo.

«“Ti aspetterò a est, Leone.

«E anche se avrei dato la mia ultima goccia di sangue, la mia stessa anima per ricacciarlo indietro, lo sentii comunque impadronirsi di me. Le orrende braccia del buio si sollevarono da quella pietra scheggiata e mi trascinarono giù in un sonno indesiderato. E l’ultimo suono che udii prima che mi prendesse non fu il mio respiro rotto e irregolare, né il mio amore che gridava il mio nome, né il suono di tutto quello che avevamo fatto, costruito e desiderato crollare attorno alle mie orecchie.

«Fu una risata.

«La risata di Voss.

«E poi calò la tenebra.»