Ombra
Un pomeriggio sono uscito in cortile, ho fatto quattro passi da solo e qualcosa mi ha distratto. Quando ho girato lo sguardo la mia ombra non c’era più. L’ho cercata dappertutto. Niente. Ho chiesto agli altri se l’avevano vista. No. Stava per cadere la notte e per quanti giri abbia fatto in carcere non l’ho trovata. Se fosse calato il buio, non sarebbe tornata mai più. Sarebbe diventata parte della notte e si sarebbe persa fra altre ombre. L’ho chiamata disperato. “Ombra, torna.” Non ha risposto. Mi sono chinato sotto le panchine. Niente. Magari giocava. Non era così. Era passato troppo tempo per trattarsi di uno scherzo. Ho guardato le ombre dei miei amici. Forse qualcuno se l’era rubata. Neanche quello. La loro ombra era la loro ombra. Ho cominciato ad angosciarmi. Vivere senz’ombra significa vivere senza la propria metà. È tramontato il sole. Agli ultimi raggi del crepuscolo ho percorso i corridoi. Ho sceso e salito scale. Ho cercato sotto i tavoli, sotto le sedie. Niente. Ho cercato di tornare in cortile a cercarla. I secondini mi hanno bloccato. “Conosci le regole,” mi hanno detto. Alle otto era obbligatorio essere nelle celle, pronti a dormire. Mezz’ora dopo si spegnevano le luci. No, non potevano spegnerle. Erano la mia ultima speranza. L’ho detto al capo dei secondini. “Non trovo la mia ombra. Per favore, non spegnete le luci della mia cella.” Lui mi ha guardato dall’alto in basso. “Questo le succede per non starci attento. È colpa sua, non mia.” L’ho implorato. Non ha ceduto. Era un tipo rancoroso. Vent’anni che lavorava nei penitenziari. Prigioniero quanto noi. Un secondino ha sentito la conversazione e mi si è avvicinato cauto. “Se mi dà cento pesos le trovo un accendino.” Per cento pesos doveva trovarmi almeno una torcia. “Non posso, sono tutte numerate e controllate,” ha avvertito, “e se mi scoprono posso perdere il posto.” Vedendomi così angosciato, mi ha prestato gratis l’accendino.
È arrivata l’ora di dormire e ho raccontato ai miei compagni di cella del mio problema. Hanno fatto uno sforzo per trovarla. È stato inutile. Si è sentito il cicalino del coprifuoco e ho acceso l’accendino. Si sono spente le luci. Buio. La luce della fiamma ha ondeggiato nella stanza. Ho messo la mano nel suo alone per vedere se per caso ricompariva la mia ombra. Niente. L’accendino aveva poco gas e la fiamma ha cominciato a svanire. Mi è venuto un nodo alla gola. Al mio corpo stava morendo l’ombra. Quand’ero sul punto di darmi per vinto, ho scoperto un leggero movimento. Mi sono avvicinato alla tenue luce e ho avuto una stretta al cuore. Lì, in un angolo della cella, era acquattata la mia ombra. Tremante, spaventata. L’ho chiamata con un sussurro. È rimasta nell’angolo, senza azzardarsi a uscire. Qualcosa di terribile aveva dovuto terrorizzarla. La fiamma ha cominciato a palpitare. Tra pochi secondi il fuoco si sarebbe spento e, con lui, la mia ombra. Mi sono inginocchiato accanto a lei e l’ho implorata di tornare. La mia ombra è rimasta ferma, senza muoversi minimamente. Ho avvicinato le dita fino a toccarla. Si è tirata indietro, come un animale inseguito. La fiamma ha cominciato a titillare, ben presto si sarebbe spenta. “Per favore, vieni,” l’ho supplicata in una preghiera estrema. L’ombra non si è mossa dal suo angolo. Ho cercato di afferrarla con la mano, ma mi ha evitato con facilità. L’accendino ha dato una boccata finale. Nello scintillio sono riuscito a vederla per l’ultima volta prima che si dissipasse nell’oscurità.
Mi sono seduto sulla mia branda, abbattuto. Ancora qualche secondo e l’avrei recuperata. Ora era scomparsa per sempre. Ho sentito un’oppressione al petto. Mi sono premuto le mani sulle palpebre per non piangere. Ho sospirato forte e ho chiuso gli occhi. Domani è un altro giorno.
José Cuauhtémoc Huiztlic
Detenuto 29846-8
Condanna: cinquant’anni per omicidio plurimo
E sì, e no, e il capo ha detto, e il sottosegretario non ha risposto alla comunicazione, e devo vederlo, può darsi, la settimana entrante, non preoccupatevi, questa cosa si fa, si fa. Rinvii su rinvii. La fondazione Encuentro disposta a finanziare miglioramenti sostanziali nel Reclusorio Oriente e i funzionari carcerari preoccupati di chissà che. E se i narcos fanno, e se gli assassini disfanno, e il carcere non era un luogo di vacanza, e in cosa beneficiava i detenuti? In fondo, tutto si riduceva a un’unica domanda: ci tocca qualche fetta?
A Pedro non restò altra scelta. Chiese un appuntamento con il sottosegretario agli interni saltando il direttore generale del dipartimento affari penali. Perché parlare con gli animali se poteva parlare con il proprietario del circo? Il sottosegretario gli fece una pippa da far venire la nausea. “Guardi, Pedro, è ovvio che il progetto ci interessa, ma deve tenere conto della grave situazione che si vive nei penitenziari e sono sicuro che comprenderà le vicissitudini di una decisione come questa.” Virtù dei politici: i lambiccamenti verbali per non dire assolutamente niente. Pedro si limitò a dire: “Ho quarantacinque milioni di pesos disponibili per essere investiti in una biblioteca, aule, un auditorium e pagare i relativi professori. Se non mi dà una risposta positiva entro i prossimi trenta secondi, ritiro l’offerta, racconto ai giornali quello che è successo e arrivederci…” Il sottosegretario rimase sbigottito. A lui nessuno parlava in maniera così sfacciata. A lui, considerato il negoziatore par excellence del governo, non potevano trattarlo come se fosse un autista di taxi. “Guardi, don Pedro, non sono abituato a rispondere sotto minaccia. Mi piace meditare e analizzare le conseguenze di ogni decisione.” Pedro scosse la testa. Se quel tipo era il campione dei negoziatori, come dovevano essere quelli agli ultimi posti? Per questo il paese era una sequela di manifestazioni di protesta e di casini su un sacco di fronti: per colpa di politici per i quali l’inazione era il normale modus transandi. Terminò la frase precedente: “… e ognuno a casa sua. Molte grazie per avermi ricevuto, signor sottosegretario.” Si preparò ad andarsene. Il sottosegretario, esperto delle tattiche dure dei leader sindacali, la prese come un’ennesima minaccia. Errore. Né Pedro, né Héctor, né la fondazione Encuentro avevano bisogno di costruire biblioteche per i delinquenti che sequestravano, ricattavano, rubavano e assassinavano quelli della loro classe sociale. Pedro gli aveva detto un ciao definitivo. Il sottosegretario rimase seduto, sicuro che il milionario l’avrebbe di nuovo pregato. Nonnò, se la filò dritto nella sua camionetta e dai suoi guardaspalle.
Non appena uscì, fece uno squillo a Julián: niente biblioteca, niente auditorium, niente laboratori, niente cultura nelle prigioni. Julián rimase basito. “Cheee?” domandò. Pedro gli spiegò che ne aveva le palle piene dei giochetti dei fottutissimi funzionari del governo. “Per colpa loro non possiamo fermarci,” disse Julián. Non si trattava di costruire un auditorium o una biblioteca, ma di dare un salvagente ai detenuti. Li aveva visti rinsecchirsi come uva passa e non poteva permettere che si rinsecchissero ancora di più. Non dovevano tirarsi indietro per la negligenza e la stupidità dei lillipuziani della burocrazia. “Non possiamo tirarci indietro,” ripeté Julián. Pedro rimase fermo sulle sue posizioni. Dubitava già dello sforzo di redimere gli irredimibili. Perché sprecare energie se la metà dei detenuti avrebbero languito in carcere fino a diventare cibo per i vermi? Perché salvare la casta degli iloti, dei paria, degli immorali, di quelli che avevano già l’anima cariata e purulenta?
Julián non arretrò. Gesticolava come un idraulico napoletano mentre parlava al cellulare. Quarantacinque milioni non erano nulla per la fondazione Encuentro, erano tutto per il Reclusorio Oriente. La cultura. Nella guerra dei Balcani, gli eserciti distruggevano le biblioteche dei loro nemici, i loro musei, i loro siti archeologici, per strappare loro identità e senso. Senza cultura, un popolo non è nulla, nothing, nada. Era possibile che i detenuti sarebbero stati più contenti se con quei quarantacinque milioni si fosse costruita un’ala supplementare di celle per non vivere ammassati come galline ovaiole o che fossero destinati a cibi più saporiti e abbondanti. Non si trattava di quello, ma di generare un cambiamento per recuperare l’umanità, la solidarietà, la speranza che rimaneva ancora nei carcerati. E, ladies and gentlemen, Julián non si sarebbe dato per vinto.
Soffrii d’insonnia, preoccupata per José Cuauhtémoc. Lo immaginavo nella sua cella, disteso. Il giorno prima era arrivato un fronte freddo e le temperature in città erano crollate. José Cuauhtémoc dormiva su un materasso o su un letto di cemento? Aveva abbastanza coperte? Dormiva in pigiama, con gli indumenti intimi o con la stessa uniforme che indossavano di giorno? Gli davano i cuscini o pigiava i vestiti dentro una maglietta per metterli sotto la testa? Gli fornivano soprabiti o pullover? Com’erano le sue notti? L’inframondo carcerario era vietato alla maggior parte di noi. Un universo inaccessibile, impenetrabile.
Sei del mattino. Mancavano ancora quattro ore per chiamare José Cuauhtémoc. Un lungo tempo che dovevo riempire di attività per non impazzire. Ero ormai sull’orlo di un’ossessione insana. Claudio scese a fare colazione. L’abito abbinato in maniera impeccabile, le scarpe lucide, rasato, profumato di lozione raffinata. La sua colazione variava poco: omelette di chiari d’uovo e avocado, fette di pompelmo e due bicchieri d’acqua. Nulla che potesse macchiargli i vestiti. Mentre buttava giù un boccone mi disse che avrebbe avuto un “power lunch” con un gruppo di imprenditori. Gli piaceva da matti dirlo in inglese. “Power lunch”. Pranzo con uomini ricchi e superbi in uno di quei ristoranti “classici”, traboccanti di tartufi e agli. Finì di fare colazione, mi diede un bacio e uscì in fretta.
Alle dieci meno un quarto ero già pronta per il nostro appuntamento telefonico. Potrebbe sembrare stupido, ma mi vestii per lui. Eccomi là, seduta sul mio letto con un vestito leggero di seta nero a fiori e scalza. Mi misi perfino due gocce di profumo sul collo e due all’inizio della scanalatura dei seni. I rapporti si costruiscono con momenti invisibili all’altro e dei quali non saprà mai nulla.
Alle dieci e otto minuti (non volli chiamare alle dieci in punto, non dovevo mostrare un interesse eccessivo), feci il suo numero. Squillò diverse volte, non rispose. Riattaccai e aspettai altri diciotto minuti (il diciotto era il mio numero fortunato). Chiamai di nuovo. Il cellulare squillò cinque volte e riattaccai prima che scattasse la segreteria. Cominciai a indignarmi per la sua mancata risposta. Doveva essere una vendetta, il modo per avvertirmi che anche lui poteva giocare con me, che il filo d’oro poteva andare in pezzi anche per sua volontà. Volli essere ottimista. Un contrattempo, mancanza di campo e perfino un possibile sequestro del suo cellulare. Alle undici meno sei minuti, richiamai. Sette squilli e niente. Ore di insonnia preparandomi a quella chiamata e lui non aveva risposto.
Frustrata, mi diressi verso Danzamantes. Feci una riunione con Alberto per progettare le nuove coreografie. Mi fu impossibile concentrarmi. José Cuauhtémoc occupava adesso il novantanove-virgola-nove per cento dei miei pensieri. Chi si credeva di essere per non rispondermi? Stava bene o questo era il modo più diretto di mandarmi a quel paese? In uno dei momenti in cui ero rimasta con la testa fra le nuvole, Alberto applaudì per tirarmi fuori dalla trance. “Che ti succede?” “Niente, sto bene,” risposi. “Starai bene chissà in quale pianeta, perché in questo è da un bel po’ che non ci sei,” disse.
Andammo avanti con il lavoro e di nuovo cominciai a distrarmi. Alberto mi fermò a metà di un’evoluzione. “Marina, posso farti una domanda?” Sorrisi. “Certo.” Alberto mi fissò negli occhi. “Ti stai innamorando di un altro, vero? È l’unica cosa che può spiegare la tua faccia da scema.” Avrei dovuto dirgli: sì, proprio scema. Un assassino detenuto mi sta facendo impazzire, continuo a pensare a lui e non ho idea di cosa fare con quello che provo. Invece gli dissi: “Non ho dormito bene, questo è tutto.”
Alle cinque ci riunimmo con il gruppo per le prove. Mentre ci scaldavamo, mi squillò il cellulare. Avevo dimenticato di togliere il volume. Andai a rispondere e nel prenderlo vidi sullo schermo il numero di José Cuauhtémoc. “Un momento, per favore,” dissi agli altri, “è una chiamata urgente.” Nervosa, mi allontanai verso un angolo a rispondere. Non avrei mai immaginato che mi avrebbe chiamata. Mi aveva avvertita che il suo telefono non aveva saldo per le chiamate e che poteva soltanto riceverne. “Ciao, Marina, come stai?” mi salutò. Respirai a fondo. Non potevo fargli notare il mio nervosismo. “Bene. Molto bene,” risposi. José Cuauhtémoc rimase un istante in silenzio. “Scusami se non ti ho potuto rispondere stamattina, ma c’è stata una perquisizione nelle celle e ho dovuto nascondere il cellulare.” Per fortuna l’aveva nascosto dietro una gamba della branda. Aveva un po’ di saldo perché un parente di un secondino gli aveva fatto il favore di ricaricargli cinquanta pesos. Finalmente riuscii a respirare.
Mi chiese di richiamarlo per non esaurire il saldo e parlammo altri dieci minuti, mentre il gruppo mi aspettava per iniziare le prove. Mi domandò com’ero vestita. “Ho un vestito nero a fiori,” gli risposi, guardando i miei pants e la mia maglietta senza spalline. Da lontano, Alberto mi fece cenno di affrettarmi. Ci salutammo e mi chiese di non mancare al laboratorio del giorno dopo.
Riattaccai e tornai in sala. Alberto mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: “Meno male che non ti stai innamorando di un altro.”
Continuò a scrivere senza sosta. Riempì i margini delle pagine e quando gli finirono cominciò a scrivere tra le frasi. Un libro dentro un altro libro, e più scriveva, più vicino si sentiva a suo padre. Iniziò a considerare la grandezza dei suoi successi, la forza dei suoi discorsi, l’importanza delle sue idee. Ceferino consacrato alla parola: “Ogni parola ostenta un peso unico. Non ce n’è nessuna che la sostituisca. I sinonimi non esprimono la stessa cosa. Sono approssimazioni, non sono quella parola.”
Giunse per lui il momento di scrivere una storia sul più proibito dei suoi tabù: l’omicidio di suo padre. Raccontare il momento in cui gli aveva dato fuoco. Ricordò i balbettii di quell’iguana paralizzata e maledetta che lui aveva preso per insulti. Davvero l’aveva insultato? Quando lui era arrivato dall’università, si era avvicinato ad annusarlo. Puzzava di cacca. Bisognava cambiargli il pannolone. “Puzzi da far paura,” gli aveva detto. Suo padre l’aveva guardato dal suo mutismo da tronco e aveva biascicato alfabeti da cacatua. Forse aveva detto “portami un bicchier d’acqua,” o “ho freddo,” ma quei biascichii a JC erano suonati come uno “zitto, stronzo.” Una marea nera si era impadronita di lui. Era sceso in garage, aveva preso il bidone di benzina e in tre balzi era risalito. Aveva innaffiato il padre, acceso un cerino e gliel’aveva gettato addosso. Era partita una fiammata e stalagmiti di fuoco si erano innalzate fino al soffitto. Gli ululati da coyote di Ceferino avevano allertato il resto della famiglia. I tre erano saliti di volata e si erano fermati sulla soglia, paralizzati dall’incendio. Il vecchio andava a fuoco e nessuno dei tre aveva cercato di spegnerlo se non quando le urla erano cessate. Francisco Cuitláhuac aveva gettato un secchio d’acqua addosso a quello che era ormai un rettile abbrustolito.
JC aveva passato mesi ricordando a stento briciole di quant’era successo. Lampi che si accendevano intermittenti nella sua memoria. Immagini disperse di luce, odore di bruciato, urla, pelle carbonizzata. Brandelli confusi e disordinati, sconnessi gli uni dagli altri. Lo scrisse, di sbieco, ma lo scrisse. Sulla spiaggia del suo naufragio i ricordi brillarono come pezzi di vetro che, a forza di essere levigati dalle onde, non tagliano più. Il passato non lo feriva più. Finalmente arrivava la luce. La luce.
Annunciarono a JC che Julián e un altro tipo lo aspettavano in sala colloqui. Julián aveva portato Pedro in carcere a deglutire il midollo della prigione. A farlo impregnare del sudore, degli sguardi, delle voci dei detenuti. A vedere, toccare, inalare una pista della loro realtà. A vedere se così si sarebbe motivato a proseguire nel progetto malgrado la stronzaggine dei burocrati anodini e complessati.
Il cielo color lavagna presagiva un temporale. Julián e José Cuauhtémoc raccontarono a Pedro del casino di infiltrazioni d’acqua che cadevano sulle brande quando pioveva e come dovevano toreare i fili d’acqua per dormire più o meno in pace. Per la schizzinosità di Pedro, soltanto immaginare di condividere una stanza con degli sconosciuti e per di più umida, muffita e puzzolente, no, no e no. Meglio spararsi.
Dopo aver passato in rassegna gli ultimi pettegolezzi carcerari, José Cuauhtémoc raccontò che per aver letto ad alta voce i suoi testi ai compagni gli avevano confiscato i suoi scritti, le penne, i fogli e il diritto di usare le macchine da scrivere. “Perché?” chiese Pedro con curiosità. “Perché questi froci si cacano sotto più delle parole che dei coltelli,” rispose JC.
JC disse che, in mancanza di fogli, scriveva compulsivamente sui libri, sui bordi di ogni pagina, tra le frasi, nelle pagine bianche all’inizio e alla fine di un’edizione. “Se mi tolgono anche questo, mi s’imputridisce il cervello,” disse. Pedro chiese di mostrargli uno di quei libri. Sfogliandolo, scoprì centinaia di righe scarabocchiate. Racconti, riflessioni, epigrafi, poesie, memorie. La letteratura nella sua versione più radicale. Letteratura squalo.
Finì l’ora di visita e toccò salutarsi. “Non fare lo stronzo e portami altri libri,” chiese JC a Julián. “Ti porteremo più dei libri,” intervenne Pedro. “Ti porteremo una biblioteca intera e tutto ciò di cui hai bisogno per scrivere.” Scambiò un’occhiata con Julián. Più nulla e nessuno avrebbe fermato il progetto culturale.
Quando mio bisnonno Florencio venne per la prima volta in Messico, m’impressionarono la grandezza delle sue mani e i profondi solchi sul suo viso bruciato. Un pescatore dagli avambracci larghi, le gambe come piloni di un molo, la barba bianca, il collo da tigre. Un Hemingway taglia extra large, più feroce e primitivo (e tu che pensavi che fosse stato il nuoto – non i geni di mia madre – ad “allungarci”). Il suo viso, così diverso dal tuo, denotava mare e sale, onde e freddo. Mamma ci aveva raccontato che al suo paese era famoso per ammazzare i maiali con un pugno in testa. Pum! E la bestia cadeva stramazzata. Quando sono andato a San Vicente de la Barquera, ho potuto verificare la sua reputazione di uomo dalla forza fuori dal comune. “Si caricava tonni di centocinquanta chili come se fossero piume di gallina,” mi ha raccontato un vecchietto della sua età che si era vantato di essere un suo “collega di lavoro”.
Non so perché lo ripudiavi tanto se proveniva da un ambiente povero quanto il tuo. Come doveva essere disperato per la sua situazione economica se aveva fatto salire mio nonno su una nave mercantile diretta a Veracruz. A soli dodici anni, mio nonno dovette farsi strada in un paese sconosciuto. Tu toglievi merito alla sua impresa come se fosse una cosa normale. “Era bianco e spagnolo, questo gli ha facilitato le cose.” Davvero, Ceferino? Era un bambino arrivato senza un centesimo a farsi strada senza nessun conoscente in Messico. Almeno, avresti dovuto apprezzare il suo fegato.
Non hai mai avuto la pazienza di ascoltare il mio bisnonno. Disprezzavi quel gigante per le sue ossessioni conservatrici e il suo cattolicesimo a oltranza. Nonostante la differenza di statura, riuscivi a dominarlo. La sua condizione di analfabeta e i suoi precari ragionamenti lo facevano diventare un gioco da ragazzi. Ogni volta che parlava di Dio o delle virtù cristiane, lo ribaltavi con argomentazioni a cui lui si sapeva incapace di ribattere. Ci godevi a polverizzare la sua logica rupestre.
Il gigante ti è sopravvissuto, papi. È morto quasi sul punto di compiere centoquattro anni. A cento usciva ancora a pescare, stavolta sulla barca che gli aveva regalato mio nonno. Anche se non poteva più trasportare gli immensi tonni, aveva ancora abbastanza forze da pescarli alla canna. Un paio di anni dopo la tua morte, sono andato a trovarlo a San Vicente de la Barquera. Non puoi immaginare la bellezza di quel paese. Le case sono di pietra, millenaria. Lì si erano insediati i romani e da quel porto erano salpati verso i territori della Britannia. Dietro il paese s’innalzano giganteschi picchi innevati da dov’erano discesi gli antenati del mio bisnonno. Vivevano in alto, su terreni così aspri che non si erano mescolati con i romani. Tribù ribelli che non si erano lasciate conquistare dall’impero e che erano rimaste autonome nell’impenetrabile orografia cantabrica. Hai sentito, Ceferino? Non-si-erano-lasciati-conquistare.
Gli antenati materni di mia madre erano pastori di pecore, gente povera, di montagna, analfabeta, con una volontà di ferro, adatta a resistere a inverni crudissimi, carestie, isolamento, malattie. Senza i tuoi rozzi pregiudizi sugli “spagnoli” saresti riuscito a cogliere le sottigliezze di una cultura ricca e complessa. Non tutti erano conquistadores, né avevano avuto l’intenzione di saccheggiare il tuo popolo e massacrarlo.
Ho visto la modestissima casa del mio bisnonno, i suoi attrezzi da pesca, i remi lavorati a mano, le reti intessute con tecniche antichissime. Nel suo lavoro si concentrava una saggezza di secoli. Conosceva i nomi di ogni pesce, di ogni mollusco, di ogni crostaceo. Nominava le onde in differenti modi secondo la loro grandezza e intensità. Dominava la mappa delle stelle. Poteva orientarsi alla cieca in alto mare in mezzo a una nebbia impenetrabile. E, ti sorprenderà, a ottant’anni imparò a dipingere. Con le sue manacce da gorilla disegnava acquerelli marini che avrebbero potuto benissimo rivaleggiare con quelli di artisti più dotti. Passato lo stupore perché la figlia aveva sposato un indio messicano, ci accettò, amorevole. Con orgoglio mi ha presentato ai suoi amici. “Guardate, questo è il mio pronipote. È del colore delle pietre.” Ammira la bellezza della sua descrizione: del colore delle pietre.
Se per un attimo avessi accantonato i tuoi pregiudizi, magari ti saresti goduto un pomeriggio di chiacchiere con lui. Oppure lui sarebbe venuto con te sulle tue montagne e tu saresti andato al suo mare. Sono sicuro che avreste condiviso più di quanto immaginavi.
Venni a sapere da un documentario che sulle falde dell’Everest giacevano circa duecento cadaveri. Alcuni erano morti cadendo da centinaia di metri d’altezza. Altri non avevano sopportato i rigori fisici della scalata o avevano ceduto al freddo e alla mancanza di ossigeno. Era stato impossibile recuperare quei corpi, o perché si trovavano in luoghi inaccessibili o perché recuperarli avrebbe comportato un rischio mortale. La maggior parte aveva ancora gli abiti e gli scarponi con cui aveva cominciato la scalata. Gli alpinisti erano giunti al colmo di dare loro dei soprannomi o di prenderli come punti di riferimento.
Pensai di utilizzare il tema dei cadaveri dell’Everest per una coreografia. Un pretesto per riflettere sulla libertà, l’abbandono, l’isolamento e l’atto di morire. In fondo, era un trucco per eludere la questione che in realtà mi preoccupava: l’esistenza solitaria dei detenuti condannati a vita.
La mattina fu Julián a passarmi a prendere con la sua modesta utilitaria. Pedro aveva mangiato in un ristorante di pesce e aveva avuto un’intossicazione. Mandò le sue scuse, come se io fossi l’ospite, e una scatola di cioccolatini biologici creati da Juan Carlos Ramírez, un famoso chocolatier. Julián e io ci dirigemmo da soli al penitenziario nella sua auto.
Malgrado la sua fama di rude e, ovviamente, la sua leggendaria permanenza in carcere, Julián era un tipo piacevole. La sua conversazione era divertente e godeva di un sano – e contorto – senso dell’ironia. Per questo aveva successo con le donne. Erano attratte dal suo acume e dalla sua simpatia, anche se dopo un po’ la sua personalità iraconda finiva per allontanarle.
Cominciai a innervosirmi quando ci avvicinammo alla cinta perimetrale del penitenziario. Senza la sicurezza e la protezione delle camionette blindate e dei guardaspalle, il quartiere mi sembrò più minaccioso. Gli sguardi più torvi, le espressioni più cupe. Le strade, piene di dossi artificiali non necessari, ci facevano fermare spesso. Siccome la carrozzeria dell’auto toccava i bordi, era indispensabile che Julián li superasse lentamente. Questo ci metteva in una situazione di fragilità. Qualcuno avrebbe potuto raggiungerci e minacciarci con una pistola. Cercare di fuggire sarebbe stato impossibile. C’era una dozzina di dossi nei successivi tre isolati, la condizione ideale per degli assalitori.
Per la prima volta provai davvero paura nell’attraversare quella striscia di miseria. Comunicai a Julián i miei timori. Fece una delle sue battute sinistre: “Non preoccuparti, mi farei violentare prima io.” Se non fosse stato perché José Cuauhtémoc mi aspettava, avrei preteso che facesse marcia indietro e mi riportasse a casa. “Tranquilla, non succederà niente. Sono passato da qui cinquanta volte,” mi disse Julián per calmarmi. “La prossima volta,” lo avvertii, “se non prendiamo una delle camionette di Pedro, semplicemente non vengo.” Julián mi guardò con aria di riprovazione. “Non avrei mai immaginato che fossi una reginetta,” disse. Mi ferì. “Reginetta” e “principino” erano gli epiteti che si affibbiavano alla classe sociale più detestabile del paese, ai figli di milionari o politici di alto rango, ragazzini fichetti il cui unico merito era la condizione privilegiata dei genitori, che si comportavano in maniera arrogante e prepotente, credevano di avere diritti di sangue reale e umiliavano quelli che ritenevano esseri inferiori: domestiche, autisti, uscieri, assistenti, spazzini. M’infuriai. “Tu non hai idea di chi sono io,” gli risposi. “Perdonami. È stata una battuta infelice,” si scusò. “E allora risparmiatele,” gli replicai seccata. “Qui ci sono brave persone, lavoratrici, perbene. Non farti condizionare dalle apparenze,” disse con l’intento di alleggerire la situazione. Poteva essere vero, anche se saperlo non fece diminuire di un briciolo le mie paure.
Entrammo nel penitenziario. L’atmosfera mi sembrò più pesante. I detenuti, senza essere insolenti o urlare improperi, bisbigliavano tra loro vedendoci passare e notai sguardi lussuriosi. Una sensazione scomoda che non avevo provato nelle visite precedenti. L’apparato di sicurezza di Pedro intimoriva i carcerati. Adesso eravamo prede facili. “Tu cammina senza fermarti,” ordinò Julián, “e non guardarli negli occhi.”
Cominciai ad andare nel panico quando di sottecchi percepii un’ombra alle mie spalle che si avvicinava in fretta. Chiesi a Julián di accelerare il passo, ma chi ci seguiva ci raggiunse. “Salve,” sentii. Mi voltai spaventata, era José Cuauhtémoc. “Salve,” restituii il saluto, nervosa. Mi prese per il braccio e mi piazzò tra lui e Julián. “Ti proteggiamo noi,” disse. Avanzammo fra i gruppi di detenuti che ci osservavano con curiosità. In nessun momento José Cuauhtémoc mi mollò il braccio. Le sue dita circondavano completamente il mio bicipite. Le vene si gonfiavano sul dorso della sua manona e proseguivano spesse verso gli avambracci. I suoi capelli andavano più sul castano chiaro che sul biondo. Gli occhi azzurri, la barba di una settimana.
Arrivammo in un corridoio stretto e dovemmo pigiarci per passare. Finalmente potei sentire il suo odore. E lì persi, per sempre. Il suo odore, cazzo, il suo odore. La sua pelle emanava un aroma forte, attraente. Per niente repulsivo. Proprio per niente. Senza lozioni o profumi che lo coprissero. Erano anni che non sentivo un odore così puro, senza mascheramenti. Perché gli uomini della mia classe sociale si sforzano di dissimulare il loro? Perché la loro ansia di impregnarsi di un tocco di “tabacco” o “legno” o “cuoio”? José Cuauhtémoc sapeva di lui e soltanto di lui. Un aroma unico, intenso. Si sentivano resti di sapone da quattro soldi, ma non sufficienti a travestire le sue emanazioni corporee. Mi venne voglia di appiccicare il naso al suo collo per annusarlo.
Entrammo in aula. Gli altri detenuti stavano arrivando. Julián si distrasse con un prigioniero che non avevo mai visto prima e si salutarono con affetto. Rimasi da sola con José Cuauhtémoc. “Che bello che sei venuta,” mi disse. “Eravamo rimasti d’accordo così,” gli risposi. Il suo odore e la sua mano che mi stringeva il braccio avevano provocato una rivoluzione. Il mio nervosismo doveva essere visibile. “Vuoi un po’ d’acqua?” chiese. Scossi la testa. Quello che in realtà desideravo era che mi prendesse di nuovo per il braccio, che si avvicinasse sempre di più per poterlo annusare per ore.
Prima di sederci nei banchi, José Cuauhtémoc mi diede un libro. Era una copia di Cuore di tenebra, di Joseph Conrad. “Mi piacerebbe che lo leggessi, se puoi, e che poi lo commentassimo.” Dissi che avrei cominciato a leggerlo quella sera stessa. Non sarei tornata in carcere fino al prossimo incontro del laboratorio, il martedì successivo. Avrei trascorso centoventi ore senza vederlo.
Rimasi d’accordo per chiamarlo alle dieci del mattino del giorno dopo. Giurai di mantenere la promessa. “L’aria qui dentro diventa irrespirabile se non chiami,” mi disse. Se avesse saputo che anche fuori l’aria diventava irrespirabile senza di lui. Mi chinai per vedere dove stavo per sedermi e un ciuffo di capelli mi coprì il viso. Con delicatezza lo scostò. Il suo sguardo azzurro dava l’impressione di attraversare tutto. Lo sguardo di un cacciatore o, perché non dirlo una buona volta, quello di un assassino.
Julián ci chiese di sederci per cominciare e con un cenno m’indicò una sedia accanto a lui. Prima di separarmi da José Cuauhtémoc gli sussurrai all’orecchio “domani,” e mi diressi al mio posto.
Pedro dovette andare a bussare alle porte dell’Olimpo affinché il progetto culturale della fondazione Encuentro nel Reclusorio Oriente venisse approvato in fretta. Un amico di un amico che conosceva un amico di un altro amico gli procurò l’appuntamento. La virtù di vivere nel raggio del cerchio intimo del potere, ossia dell’Olimpo. Quindici minuti con il capo (le président, the president, il presidente, lui in persona) bastarono per presentargli una bozza del progetto e le risorse che pensavano di investire. Alla fine dell’esposizione, il presidente si rivolse ai suoi collaboratori: “Chi è l’imbecille che ha bloccato l’autorizzazione per questo programma?” Pedro non osò menzionare i successivi funzionari che l’avevano boicottato, rifiutato, ostacolato, rimandato, intralciato. Quarantacinque milioni di pesos, in contanti, trattenuti da personaggi timorosi e di secondo piano. Uno di quegli inutili pagliacci si azzardò ad alzare la mano. “Signor presidente, stavamo valutando i possibili rischi che implicherebbe dare il via libera a un progetto di questa importanza viste le problematiche relative alla sicurezza all’interno dei penitenziari,” e blablablà. Il capo lo guardò con una faccia da che-cazzo-stai-dicendo-davvero-parli-sul-serio?-Si-tratta-di-costruire-una-biblioteca-e-un-auditorium-non-capisci-che-potremmo-far-felici-i-rompicazzo-dei-diritti-umani-e-dare-una-scampanata-alle-pubbliche-relazioni-internazionali-e-dire-che-abbiamo-carceri-modello-quasi-svedesi-coglione? Il tipo apro-la-bocca-per-dire-stupidaggini-e-non-mi-accorgo-neanche-di-quando-la-chiudo venne immediatamente squalificato per la partecipazione al concorso di “impiegato del mese”. Non sarebbe stato licenziato, neanche per sogno. Gli amici del capo potevano fare stronzate a volontà e rimanere incolumi al loro posto grazie al fatto che avevano frequentato le elementari insieme al boss. Non appena il presidente disse “procediamo con il progetto,” i funzionari stavano quasi già chiamando con urgenza il direttore del penitenziario per dirgli: “Domani stesso vogliamo che i muratori comincino a lavorare. Trova tu il modo di autorizzare il loro ingresso e di non farli mescolare con la gentaglia di narcos e delinquenti.” Di striscio, Julián disse al presidente che le autorità carcerarie avevano impedito ai detenuti di scrivere e di leggere i loro testi ad alta voce. Il presidente lo ascoltò con un piede fuori dall’ufficio, però si voltò. “E che cosa scrivono?” Intervenne Pedro: “Racconti e poesie, signor presidente.” Al capo, le parole racconti e poesie sembravano complesse come fisica quantistica e biochimica molecolare, perché la faccenda di leggere non era, come dire, la sua specialità. “E cosa dicono i loro racconti?” chiese intrigato. “Storie della loro vita,” rispose Julián, “niente dell’altro mondo.” Il presidente si volto versò uno dei suoi tanti sciacquini. “Chiamate subito il direttore del carcere e ditegli che io ho detto di lasciar scrivere e leggere ad alta voce i detenuti.” L’assistente si mise sull’attenti. “Sì, signore, lo avvisiamo.” Il presidente e il suo seguito proseguirono verso un’altra sala dove li aspettavano altri questuanti.
Alle dieci e quarantadue minuti di quello stesso lunedì, due secondini si presentarono nella cella di José Cuauhtémoc Huiztlic con un fascicolo in mano. “Il signor direttore ti manda questo,” gli disse uno dei secondini. JC aprì la cartellina: erano i suoi testi. “E ti manda a dire che puoi scrivere quello che ti gira per un coglione e leggerlo a chi ti gira per l’altro.” JC controllò i suoi scritti. Erano completi e intatti. Non c’erano cancellature, né righe emendate, né commenti o note a margine a opera di un censore. Inoltre, per ordini presidenziali, gli regalarono venti quaderni a doppio rigo di duecento fogli ciascuno e venti penne Bic. José Cuauhtémoc in Befana mood. Quei quaderni equivalevano a un viaggio dovunque avesse voglia di andare. Avrebbe scritto, scritto, scritto. Senza fermarsi mai. Mai. Avrebbe riempito quei venti quaderni in meno di un mese e poi avrebbe fatto sapere al presidente che gli erano finiti perché gliene mandasse altri e poi altri ancora. Non sarebbe stato necessario: il giorno dopo andarono a trovarlo Pedro e Julián con una macchina da scrivere portatile e uno scatolone con dieci pacchi da cinquecento fogli extra strong. Emoji della faccina felice.
Gli raccontarono del progetto, di come pensavano che attraverso la creazione artistica i detenuti avrebbero potuto migliorare la loro qualità di vita e avere un impatto positivo sulla comunità. A JC sembrarono degli stupidotti. Come cazzo potevano quei pidocchi “avere un impatto positivo sulla comunità”, manco fossero canzoni dei Beatles? Nossignore, si scriveva per tirare fuori la corrosione, l’asfissia, la disperazione, l’urlo e la furia. Per sputare, vomitare, escretare. Per divorare, bere, inghiottire la vita. Questo pensò, solo che non glielo disse. Loro giocavano a fare i san Francesco d’Assisi e non avrebbe rotto la pignatta delle loro illuse illusioni. Per di più, cinquemila fogli bianchi erano il miglior regalo che potessero fargli. Cinquemila fogli per ricreare mondi o inventarli o farli scontrare o sollevare. Le centinaia di storie accumulate avrebbero finalmente trovato il loro posto. La casa delle parole.
Appena se ne andarono, JC si affrettò a inaugurare la sua macchina da scrivere. Si sedette sulla branda, prese un foglio, lo infilò nel rullo e cominciò a battere sulla tastiera. Gli passarono davanti diversi secondini, invidiosetti perché non potevano fare nulla per confiscargliela. Le macchine da scrivere erano proibite nelle celle, ma non si sarebbero messi a fare a botte con Sansone, in altre parole: non era appropriato contravvenire al pronunciamento presidenziale.
JC non smise di scrivere per tutta la notte, anche con gli “adesso basta” dei suoi compagni di cella. Pestava sui tasti come se ne andasse della sua vita. Finiva un testo e, senza correggerlo, ne cominciava un altro. Non si fermò neanche per andare a fare colazione. Le cartelle battute a macchina sgorgavano una dopo l’altra. Apprezzò la fottuta ostinazione di suo padre per insegnargli a scrivere con tutte e dieci le dita. La velocità di battitura acquisita con anni di frustrazione, soprattutto l’uso dei mignoli per battere sulla “a” e sulla “ñ”, pagava adesso i suoi dividendi. La figura di Ceferino cresceva a ogni parola scritta. L’orso aveva avuto un punto a suo favore: obbligarli alla perfezione.
Scortati dai guardaspalle di Pedro, Francisco Javier Ugarza e Rolando Serrano, gli architetti, si presentarono al penitenziario a mezzogiorno. Molto gay entrambi e senza problemi a mostrarsi effeminati, avevano fondato lo studio di architettura più avanguardista dell’America Latina e soltanto loro avrebbero osato progettare una biblioteca in un carcere con un’aria rétro. “Le avanguardie si nutrono dei classici,” aveva affermato Serrano.
Su indicazione di Pedro, gli architetti chiesero di parlare con José Cuauhtémoc. Non soltanto era l’ispiratore dell’idea, ma un individuo colto il cui “amazing input” (paroloni di Ugarza) poteva arricchire il progetto. JC fu infastidito dall’interruzione. Cosa cazzo doveva dire a quei due su come costruire una biblioteca? Le guardie lo portarono da loro. Entrambi gli architetti, che non erano una coppia, si agitarono vedendolo arrivare: era un esemplare abbastanza commestibile. José Cuauhtémoc non fu molto paziente con loro. Lo pungeva la voglia di tornare alla macchina e i due pappagallini, in totale esplosione ferormonica, non la smettevano di gracchiare.
JC suggerì di non costruire i nuovi edifici sui terreni del campo da calcio. “Se gli togliete il calcio, ci saranno dei morti,” li avvertì. Più fico e più safe, nel cortile. Ai detenuti non importava se era più piccolo o più grande. Serviva a fare un po’ le lucertole al sole, a spettegolare con i compagni, a fare un tot di ginnastica o a mettersi a guardare le nuvole.
Gli architetti esagerarono con i ringraziamenti. “Ci hai riempito di luce, maestro,” gli disse Ugarza, “senza di te saremmo perduti.” I loro abbracci di commiato lo misero a disagio. Non perché erano gay, di questo non gli importava. Ma perché entrambi puzzavano di profumi alle essenze floreali. Non c’era niente di peggio nel penitenziario che un odore fuori luogo e niente più fuori luogo che gli aromi alla rosa e alla cannella.
Se ne andò annusandosi la camiciola per assicurarsi di non portarsi addosso la puzza rosacannellata. Per fortuna la stoffa continuava a sapere di sapone e di sudore. Arrivò in cella, sollevato per non dover più combattere con le stronzate degli architetti, e si rimise di nuovo a scrivere.