Il vicino

Quand’ero bambino ho vinto quattro pulcini a una sagra popolare. Due erano dipinti di arancione e due di verde. Li ho messi in una scatola di cartone. Gli davo molliche di pane per farli mangiare e acqua da bere da un contagocce. La sera chiudevo la scatola e me la mettevo vicino al letto. Spegnevo le luci e i pulcini pigolavano un po’ e poi rimanevano zitti. Quando non facevano più rumore, aprivo il coperchio e, con una torcia, mi affacciavo. I pulcini dormivano in piedi senza aprire gli occhi. Io gli accarezzavo la testa perché gli volevo molto bene.

Appena usciva il sole tornavano al pio pio. Non c’era verso di farli stare zitti. Non so come facevano a sapere che c’era luce perché la scatola era chiusa. Ma eccoli là che pigolavano. Mio fratello si arrabbiava perché non lo facevano dormire. Ha chiesto a mia madre di portarli via dalla stanza e mia madre li ha messi in corridoio. Siccome a me piaceva stare con i miei pulcini, mi sono preso delle coperte e mi addormentavo vicino a loro.

Uno mi è morto. Ci sono rimasto molto male. Ho chiesto a mia mamma se lo seppellivamo e lei mi ha detto di smetterla con le stupidaggini. Ha gettato il pulcino nel water e ha tirato lo scarico. Non ha voluto buttarlo nella spazzatura perché ha detto che sarei stato capace di recuperarlo per andarlo a seppellire. Mia mamma mi ha detto che era un sacrilegio dare sepoltura agli animali, perché li mettevamo allo stesso livello dell’anima degli umani e a messa il prete aveva detto che non eravamo animali. A me, a scuola, le maestre mi avevano detto che discendevamo dalle scimmie e quando l’ho detto a mia mamma mi ha dato uno schiaffone e mi ha minacciato che se dicevo di nuovo stupidaggini come quella mi toglieva da scuola.

I pulcini sono cresciuti. Erano due galletti e una gallinella. Andavano per casa e, per la verità, sporcavano molto scacazzando. Perciò mia mamma ha deciso di mandarli a vivere sulla terrazza del tetto. Uno zio mi ha aiutato a fare un pollaio con delle tavole e della rete metallica. Mio papà no, perché l’avevano assassinato. Io, appena tornavo da scuola, salivo da loro. Gli aprivo la porta e giocavo a inseguirli. Poi ho smesso quando uno dei galli ha cercato di volare ed è quasi caduto dal tetto.

Quando sono cresciuti, i galli hanno cominciato a cantare all’alba. Era bellissimo ascoltarli. Chicchirichì. Fate conto che stavamo in campagna. A me piaceva da matti, ma a uno dei vicini no. Un pomeriggio ha bussato alla porta e ha parlato con mia mamma. Le ha detto che quei maledetti galli non lo facevano dormire. Mi ha fatto rabbia. I miei galli non erano per niente maledetti. Mia mamma gliel’ha rigirata, ha detto che a lei quelli che non la facevano dormire erano i suoi maledetti cani che abbaiavano tutta la notte. Il vicino ha detto di non piantare grane, perché grazie ai suoi cani il vicinato era protetto e come esempio c’era il fatto che perché i suoi cani avevano abbaiato avevano preso dei ladri che erano entrati in casa di donna Melro. Una bugia bella e buona, perché li avevano presi perché la signora si era messa a gridare e una vicina aveva chiamato la polizia.

Fatto sta che né i cani del signore hanno smesso di abbaiare, né i miei galli hanno smesso di cantare. Ha cominciato a guardarci storto. Quando la mattina usciva ci diceva: guardate che occhiaie che ho per colpa dei vostri maledetti galli. E mia mamma gli diceva: allora guardi come sto di malumore per colpa dei suoi maledetti cani. E via così. Un pomeriggio sono salito a trovare i miei animaletti e li ho trovati sgozzati. Erano stesi in pozza di sangue. Sono riuscito a vedere il vicino che saltava giù dalla terrazza. Mi è partita la rabbia. Frocio che li ha ammazzati di nascosto. Per fortuna ero arrivato proprio quando gli aveva appena tagliato il collo. Mia mamma ha detto che non eravamo in condizione di sprecare niente e ci ha fatto un brodo. Io non ho smesso di piangere per una settimana.

Ho giurato che gli avrei avvelenato i cani. Quando ho detto a mia mamma quello che volevo fare si è arrabbiata con me, non perché volevo ucciderli, ma perché avrei sprecato dei soldi. E poi, mi ha detto, quei poveri cani non avevano nessuna colpa. “In ogni caso, ammazza lui.” Non l’avesse mai detto, perché da quel giorno ho aspettato soltanto il momento giusto per farlo fuori. Avevo dodici anni e quindi ucciderlo con un coltello sarebbe stato difficile. Un amico del quartiere mi aveva detto che per ammazzarlo dovevo ficcare la lama molto dentro e agitarla nelle viscere. Quel tipo si era già lavorato un paio di bastardi e sapeva come andavano le cose. Mi ha raccomandato di non infilzarlo perché ero troppo smilzo e non avrei avuto abbastanza forza per farlo fuori.

Mi è venuta in mente una cosa migliore. Siccome la mia terrazza dava sul cortile di casa sua, avrei aspettato che uscisse a lavare la macchina e da sopra gli avrei tirato un vaso. Dato che i suoi cani mi conoscevano, non avrebbero abbaiato. Io sapevo che a lui piaceva lavarla tutti i pomeriggi quando tornava dal lavoro e non so perché voleva tenerla così pulitina se era una macchina schifida, una Dodge Dart del medioevo. Così un martedì mi sono nascosto sul tetto con un vaso di gerani. Verso le sei il tipo è uscito a lavare la macchina. Siccome era bello taccagno non la lavava con la pompa, ma con un secchio. Fate conto che la macchina era una donna. La palpava, la sfregava. Quand’era più concentrato, mi sono alzato in piedi sul bordo della terrazza e gli ho tirato il vaso sulla testa. E l’ho beccato in pieno. Il tipo si è prima schiantato contro la macchina e poi è caduto a terra. Gli è cominciato a uscire un sacco di sangue. Si lamentava e si rotolava portandosi le mani alla zucca ferita. Siccome non era morto, sono andato a cercare un altro vaso. Mia mamma aveva tipo dieci vasi di gerani. Così come io volevo bene ai miei animali, lei voleva bene alle sue piante. Già m’immaginavo la strigliata che mi avrebbe dato per avere usato i suoi vasi come bombe. Il tizio stava cercando di rialzarsi. Gli ho tirato l’altro vaso e non l’ho beccato. Ho colpito la macchina e ha fatto un sacco di rumore. Il tettuccio era tutto ammaccato. Se non lo ammazzavo, si sarebbe davvero incazzato perché gli avevo rovinato la macchina. Il tipo ha alzato lo sguardo e mi ha visto e ha cercato di entrare in macchina, ma per la verità era bello rimbambito. Sono corso a prendere un altro vaso perché non mi sfuggisse. Gliel’ho tirato proprio mentre stava aprendo la portiera. L’ho colpito strabene, di nuovo proprio sulla zucca. Non potete sapere quanto sangue. Se non moriva, sicuro che restava mongoloide. Stavo guardando come quel disgraziato si contorceva quando ho sentito una signora gridare. Era una vicina molto ficcanaso. Mi ha urlato “ti ho visto, ti ho visto.” Siccome non volevo che mi accusasse, sono corso verso di lei sulle terrazze per colpirla dall’alto. La vigliacca si è infilata in casa e ha chiuso a chiave. Siccome ho pensato che si era spaventata, ho creduto che non avrebbe cantato, solo che quella stupida ha chiamato la polizia. Vecchia impicciona, che le costava starsene zitta.

Fatto sta che sono finito in riformatorio. Mi ci hanno tenuto per un bel po’ e a quanto pare dovevo anche studiarci. Fesserie, perché i professori avevano un sacco di paura di noi e non venivano. Lì nel riformatorio il sangue mi è diventato più caldo. Siccome c’erano un mucchio di bulli e io ero tra i più piccoli, me ne facevano di tutti i colori. Poi sono cresciuto e ho imparato a difendermi. Ce n’era uno magro e alto, megadelinquente, che passava ogni limite con me. Mi prendeva in continuazione a scappellotti. Siccome avevo già imparato a spaccare la testa alla gente dalle terrazze, un pomeriggio sono salito sul tetto della mensa e mi sono portato cinque mattoni. Nessuno mi ha visto arrampicarmi perché sapevo da dove salire senza che mi vedessero. Ho aspettato che fosse l’ora della merenda. Quando stavano per entrare, mi sono messo vicinissimo al bordo e appena è passato l’infame gli ho tirato il mattone proprio sulla cocuzza. Credo che dovevo fare il pitcher di baseball perché l’ho beccato giusto sulla fronte. Il suo amico è rimasto di sasso quando l’ha visto crollare. Ha guardato in alto e mi ha indicato. Siccome mi è venuta rabbia, gli ho tirato un mattone. Non l’ho beccato, però se l’è squagliata. Al delinquente steso a terra ho tirato i tre mattoni che mi rimanevano. Tutti e tre l’hanno colpito alla testa. Ve l’avevo detto che dovevo fare il pitcher. Questo qui non l’ho ucciso, ma è rimasto bello rimbambito. Dicono che sta su una sedia a rotelle a sbavare come una bestiolina. Se lo meritava, quello stronzo.

E da lì ho continuato. Ero permaloso, e chi mi sfidava cercavo di ammazzarlo. Quando ho compiuto ventidue anni ne avevo già fatti fuori tipo sei, dico sei perché uno non so se sì o se no e quello che ho ridotto come un ebete, be’, non so se contarlo.

A volte penso a come sarebbe stata la mia vita se quel tipo non avesse ammazzato i miei galli e la mia gallina. O meglio, cosa sarebbe successo se quel giorno non fossi andato alla sagra e non avessi vinto nessun pulcino? Be’, credo che sarei stato un ragazzo normale, tranquillo. Volevo diventare uno di quei sarti che fanno rammendi invisibili. Però mi hanno ucciso i miei animaletti e una cosa tira l’altra, e perciò sono qui.

 

Bulmaro Reza Léon

Detenuto 45288-9

Condanna: cinquant’anni per omicidio plurimo

 

 

 

 

 

 

Era vero: la prigione peggiore è la donna che se ne va in giro là fuori. Saperla con una vita propria, in libertà, fuori portata, diventa una seccatura. Quale stupidaggine l’aveva fatto invaghire di Marina? Magari non fosse tornata mai più. Magari non l’avesse più chiamato. Magari suo marito le avesse proibito di tornare al penitenziario. Magari se la fosse inghiottita la terra. Magari mi chiamasse. Magari tornasse. Magari volesse baciarmi. Magari non se ne andasse mai. No, sì che doveva andarsene. Lontano. Doveva andarsene fottutamente lontano. Sul pianeta del mai più. La prigione indiscutibile: lei.

JC aveva chiaro in mente che sarebbe uscito dal carcere con i piedi davanti dritto alla sala di dissezione dell’Università nazionale e da lì alla fossa comune. Un mucchio di carne tagliuzzata pronto a trasformarsi in fertilizzante organico. Cosa cazzo fare di fronte a quel precipizio esistenziale? O s’impiccava o impazziva o si metteva a studiare oppure… a creare. JC aveva scelto di creare e stava andando alla grande finché non si era messa di mezzo una gnocca di un metro e settantasei e dagli occhi color miele.

Aveva deciso di procurarsi un cellulare il giorno dopo che Pedro gli aveva scaldato la testa a forza di ripetergli che “quella donna ti piacerà da morire…” Ottenerlo fu un casino. Al gabbio, perfino il cellulare più schifoso era un articolo di lusso. Cellulari senza altri ammennicoli che la capacità di fare e ricevere chiamate e mandare SMS. Li contrabbandavano i secondini e li vendevano come se fossero incastonati di diamanti. Costavano una fortuna, o quella che per un detenuto era una fortuna. Ventimila svanziche per un prodotto di plastica made in China destinato a paesi del sesto mondo. Cellulari per contadini, operai, muratori e per quelli situati sul gradino più basso dell’invisibile sistema di caste ideato dal neoliberismo. Gli operai cinesi sapevano quanto diventavano preziosi i loro apparecchietti nei penitenziari? Cellulari che non costavano più dell’equivalente di quindici dollari venivano venduti a cinquanta volte di più. JC lo voleva come walkie-talkie esclusivo per comunicare con lei, perché semplicemente non aveva nessuno altro a cui telefonare. Se lei non s’interessava a lui, l’avrebbe rivenduto perché compratori non ne sarebbero mancati e vissero tutti felici e contenti.

Comprare quel robo fu la prima parte dell’equazione. La seconda era usarlo nelle ore precise in cui le autorità del penitenziario disconnettevano il blocco delle telefonate. Per conoscerle, era necessario pagare qualche altro soldino. Con abilità e per farsi un po’ di grana extra, i dirigenti del carcere manipolavano gli orari in modo che fossero irregolari: a volte sbloccavano dalle undici a mezzogiorno, altre dalle tre alle quattro del pomeriggio, altre ancora dalle otto alle nove del mattino. Giocavano al gatto e al topo per tenere sulle spine i telefonatori.

JC aveva i quattrini per il cellulare perché aveva guadagnato un po’ di soldi intagliando nel laboratorio di falegnameria oggetti d’artigianato che poi venivano venduti nei negozi statali. Lo comprò da un secondino sapendo che doveva nasconderlo, perché quello stesso secondino ben presto avrebbe fatto un “controllo” e se l’avesse trovato glielo avrebbe sequestrato e davanti ai suoi superiori avrebbe fatto una faccia da “dove l’hai preso?” Le assurdità del carcere. Io te lo vendo, io te lo tolgo e se te lo tolgo, te lo vendo di nuovo.

Essendo eccitato, gracile, quasi innamorato, José Cuauhtémoc sarebbe stato schiavizzato dal maledetto apparecchio per vedere se per caso lei si degnava di chiamarlo. Cazzo, gli mancava solo quello: un altro ceppo.

 

Il giorno dopo tornai in carcere, stavolta accompagnata dal sontuoso apparato di sicurezza di Pedro. Rimasi in silenzio per la maggior parte del viaggio. Dopo i lunghi e deliziosi baci del giorno precedente, temevo di innamorarmi di José Cuauhtémoc, il che sembrava ridicolo quanto credere nel diavolo. Avrei bloccato qualunque accenno di storia d’amore con lui. La relazione sarebbe stata intensa, passionale, ma senza legami di alcun tipo. La libertà avrebbe retto i nostri incontri ed ero pronta ad abbandonarlo nel momento in cui le cose fossero andate fuori controllo. Non avrei perso di vista il fatto che andavo in cerca di emozioni, non di sentimenti.

Presi una decisione. L’avrei visto alle lezioni di Julián e nei giorni di visita. Morivo dalla voglia di fare l’amore con lui, di sentire la sua enorme umanità sopra di me. Per anni avevo visto corpi di ballerini. Non credo che fra gli uomini ci sia una morfologia perfetta quanto la loro: muscolatura definita, potenza, agilità, flessibilità. Alcuni erano perfino più alti di José Cuauhtémoc. Ma lui trasudava virilità, un’aura da capobranco. La sua massa incuteva soggezione. E possedeva una cosa di cui i miei colleghi ballerini erano privi: sguardo. Quello sguardo capace di trapassare crani, neuroni, segreti, resistenze. Quando parlava non toglieva gli occhi dall’interlocutore. Glieli inchiodava addosso e li teneva fissi. Nessuno che avessi conosciuto superava il suo erotismo. Neanche da lontano.

All’ingresso del penitenziario non subii gli impedimenti e i controlli di quando ci ero andata da sola. E neanche i prigionieri mi guardarono con la stessa morbosità. Senza dubbio, il potere cambia la percezione. I gorilla di Pedro ci fecero strada fino all’aula. Lì ci aspettavano i detenuti. José Cuauhtémoc mi salutò con calore. Gliene fui grata, perché calmò il mio nervosismo.

Il laboratorio si svolse nella normalità. Non so se la parola è quella adatta, però José Cuauhtémoc si comportò in maniera equanime. Dopo la serie di baci che ci eravamo dati, avevo immaginato che avrebbe cercato di rubarmene un altro o, almeno, di accarezzarmi la mano. Niente di tutto questo. Fu cordiale, e distante.

Alla fine della lezione mi si avvicinò con discrezione. “Domani?” chiese. Annuii. Ci salutammo stringendoci la mano per qualche altro secondo e uscimmo dall’aula. Per quanto credessi di avere agito con cautela, Pedro mi domandò: “Ti stai innamorando, non è vero?” Cosa avevo fatto perché pensasse una cosa simile? Quale parte del mio corpo, del mio sguardo, del mio respiro mi aveva tradita? “No, per nulla. Quello che credo s’innamorerà di lui sei tu,” gli risposi scherzosa, fingendo di non dargli importanza. Tuttavia, dopo pochi passi mi tradì l’inconscio e mi voltai verso l’aula, cercandolo. Pedro sorrise scoprendo che lo facevo. “Ma che dico innamorata? Innamoratissima,” disse. E sì, perché negarlo, ero lì lì per innamorarmi appassionatamente come non lo ero stata mai nella vita.

 

Sono tonnellate quelle che perde un uomo quando perde una donna. Un fottio. Big time. In una tipa un uomo trova la calma, lo slancio, la passione, la tranquillità, l’avventura, la stabilità, la follia, la saggezza, la vita e a volte trova l’amore e con l’amore il senso e con il senso lo scopo e con lo scopo il tipo s’imbatte di nuovo nella donna e ricomincia il girotondo e loro, le donne, non hanno nemmeno una facching idea di quanto pesino nella vita degli uomini, né di quanto sia bastardo il desiderio di immergersi nel mondo caldo e dolce che è il corpo e il cuore di una tipa. Per questo le canzonette d’amore parlano di nuotare, di fare il sommozzatore, di tuffarsi, di infradiciarsi. Le donne come acquari, come piscine, come mari, come fiumi, come oceani e perfino come pozzanghere.

Per JC la cosa migliore sarebbe stata dire a Marina: “Senti, ragazza, mi piaci da morire, mi fai impazzire, mi affascini, mi fai sentire come un uovo che frigge in una padella senza teflon. Che non ti venga in mente di farti vedere di nuovo da queste parti e se per cocciutaggine ti rifai vedere, devi capire che se dici che mi chiami, mi chiami e non giochi a ti chiamo e poi non chiami o chiami e riattacchi o peggio ancora oggi-ti-chiamo-domani-chissà, perché a questo punto della faccenda devi ormai sapere che noi detenuti sopravviviamo aggrappati a fili sottili, sottilissimi, che se si spezzano ci disintegrano in molecole così microscopiche che non possiamo più rimetterci insieme. Sai una cosa, Marina? Dovrebbero fucilare retroattivamente il bastardo che ha inventato le prigioni. Espellerti dalla vita è la cosa più crudele del mondo. Una cosa è una cosa e un’altra cosa è un’altra cosa e la faccenda dell’esilio dietro le sbarre è tra le cose più cosificanti che ci siano tra le cose e che finiscono per farti diventare un po’ meno di una cosa. Perché una cosa è una cosa e tutt’altra essere una cosa e soltanto una cosa. E tu puoi uscire dal carcere, ma il carcere non esce mai da dentro di te e il peggio è che non esce nemmeno dagli altri, da quelli di fuori. Vai in prigione, nell’ombra, al gabbio e anche se ci stai soltanto un paio di settimane, il carcere ti segue dappertutto. Se nella Nuova Inghilterra alle donne adultere tatuavano una ‘A’ sulla fronte, ai detenuti tatuano l’anima affinché non dimentichino mai la loro condizione di rei perpetui. Il carcere non te lo togli da dentro neanche sfregandolo con acqua e sapone. Non te lo togli neanche se ti dichiarano innocente. Non te lo togli neanche se fai terapia con quaranta psicanalisti. Non te lo togli neanche se la tua famiglia ti accoglie con una torta e con i palloncini e ti canta ‘perché è un bravo ragazzo, perché è un bravo ragazzo…’ Il carcere non ti esce mai da dentro. La condanna è per sempre. O credi che ti escano fuori gli odori, i rumori, le paure, i dubbi, l’incertezza, le botte, i giri in cortile, le minacce, gli avvertimenti, gli sguardi di sottecchi, le bottiglie di plastica affilate come coltelli, i passi alle tue spalle, le urla, gli ordini, gli sfottò, le umiliazioni, la ruggine delle sbarre, le pareti scrostate, il verde pistacchio dei muri, la puzza di merda, il cibo che puzza di merda? Signore e signori, bambine e bambini: TU ESCI DAL CARCERE, MA IL CARCERE NON ESCE MAI DA TE. Punto e a capo. Non credete agli avvocati, ai sacerdoti, ai giudici, agli psicologi, agli operatori sociali, alle mamme devote, ai figli felici, ai padri comprensivi, agli imprenditori in buona fede. Il carcere non esce mai, mai, mai, mai. Rimane lì incrostato, una cisti impossibile da estirpare. Questo puoi o potrai capirlo prima o poi, Marina? Saresti così gentile da fare uno sforzo e in un esercizio sinaptico di empatia sinergica metterti nei miei panni e riflettere su quello che stai facendo con me? E guarda, signora di Las Lomas o di San Ángel o del Pedregal o di Santa Fe o di dove cazzo sei, abbi un po’ di commiserazione e non ripresentarti qui. Se te ne vai adesso mi farà male e andandotene si carierà questa voglia pazza di tenerti accanto, sfumerà la possibilità di stare insieme e si perderà quella tua nudità che tanto desidero, però preferisco che quella voglia scoli via in una breve emorragia di illusioni piuttosto che rinsecchirmi tempo dopo quando la mia esistenza intera sarà legata a te e all’improvviso non ti farai più viva. Lasciami in pace. Di più, lascia in pace tutti i detenuti di questa prigione. Non tornare con la tua troupe di belle ballerine e di uomini androgini a confonderci più di quanto già non lo siamo. Sì, le tue coreografie e i tuoi tutti e le tue tutte portano vento liberazione respiro sfogo, ma l’aria che rimane qui imputridisce giorno dopo giorno. Non hai idea, Marina, di quanto diventi fetida. Ci entra nel sangue e lo fa fermentare fino a trasformarlo in un’orzata densa e acre. Tu e la tua gente ci asfissiate. Non tornate mai più da queste parti.

“Non mettere a rischio la tua vita comoda e piacevole. Non scommettere su una coppia di due mentre in mano hai un poker d’assi. Quella che hai lì è la mano vincente. Non venirla a perdere qui, non giocare all’eroina da teleromanzo che per amore o per desiderio d’avventura o per desiderio e basta abbandona il suo universo chiuso costruito con uno di quegli amori tranquilli e solidi che ogni uomo e ogni donna desiderano. Prendi fiato e conta fino a dieci o a cento o a un milione prima di venire qui. Rifletti, medita. E anche quando avrai deciso di montare in macchina per venire qui, gira la tua testolina e guarda quello che stai per lasciare. Te lo dico io che so cosa significa lasciarsi qualcosa alle spalle. Non c’è nulla, credimi, che batta la libertà. Nulla, quel che si dice nulla.

“Marina, se sei disposta a perdere la libertà o la vita, se vuoi entrare nel fuoco, vieni. Ti aspetto qui, qui aprirò uno spazio per te, uno spazio per noi, uno spazio per il possibile, uno spazio per l’impossibile, uno spazio per gli spazi. Ti mostrerò la lama che ti taglierà a fette perché tu emerga nella tua forma più cruda e vera. Io mi taglierò a fette per consegnarti la mia forma più cruda e vera e ti darò tutto ciò che ho e bacerò le tue mani e ringrazierò il tuo amore e di notte penserò a te e sorriderò perché saprò che tornerai e mi vedrai sorridere vedendoti e ti abbraccerò e ti darò il meglio di me. E se me lo chiedi, abbatterò a pugni i muri e uscirò da questo puzzolente carcere per stare con te. Vieni qui. Oggi. Qui.”

 

La massa José Cuauhtémoc Huiztlic occupò la totalità del mio cervello come se si trattasse di un tumore invasivo. Mi distrasse dalle mie attività quotidiane. La mia capacità di risposta divenne nulla. Lasciai a tate e autisti l’accudimento dei miei figli. Fu tale il mio disinteresse per Danzamantes che le finanze cominciarono a vacillare. Non invano recita il detto: “L’occhio del padrone ingrassa il cavallo.” Senza la mia supervisione, il pagamento dei professori venne ritardato. I ballerini si lamentarono per l’inattività. Per risolvere la faccenda, chiesi ad Alberto di occuparsene.

A Claudio diede fastidio la mia disattenzione nei confronti della famiglia. Dissi di essere impegnata con il progetto di Pedro e Julián. “È una cosa temporanea,” assicurai. Lo convinsi dell’importanza di aiutare i detenuti a esprimersi artisticamente. “Se venissi con me vedresti che è un lavoro encomiabile.” Propose di accompagnarmi un giorno. Rimasi di sasso. Fino a quel momento non sembrava sospettare dei motivi delle mie continue visite in carcere. Abituato al fatto che mi appassionassi a diverse cause, doveva pensare che questa fosse una delle tante. Se fosse venuto con me, si sarebbe reso conto dei miei amoreggiamenti con José Cuauhtémoc, non perché Claudio possedesse un’intuizione fuori dal comune, ma perché erano più che ovvi.

Pedro e Julián erano al corrente dei miei incontri clandestini. Pedro mi aveva offerto la camionetta blindata, un autista e un paio di guardaspalle, ma avevo rifiutato. Anche se m’invadeva la paura, preferivo guidare da sola fino al penitenziario e mantenere un basso profilo. Pronosticavo che prima o poi avrei avuto un incidente così terribile che avrebbe interrotto di punto in bianco le visite a José Cuauhtémoc. Wishful thinking. Visto che ero incapace di fermare le mie stupidaggini adolescenziali, le circostanze si sarebbero incaricate di farlo. Uno stupro, una rapina a mano armata, un tentativo di sequestro mi avrebbero restituito il senso comune.

Quant’era successo a Biyou doveva incoraggiarmi. Era una delle artiste africane più venerate ed era stata sul punto di mandare all’aria la sua carriera per una relazione con un uomo bianco. Era sposata con Pierre Cissoko, il ballerino più famoso del Senegal, con cui aveva avuto quattro figlie. Agli occhi degli altri, il loro matrimonio era esemplare e spesso erano gli ospiti d’onore in diversi paesi africani come esempio della creatività e dell’attitudine artistica del continente. Nessuno immaginava che avesse una storia furtiva con Luigi Zingaro, gallerista romano che l’accompagnava di frequente nei suoi tour.

Biyou decise di separarsi e Pierre ne fu molto dispiaciuto. In Africa era riverito quanto lei e godette immediatamente della simpatia dell’opinione pubblica. Biyou venne accusata non soltanto di aver tradito la sua famiglia, ma anche la sua razza. In Senegal, dove prima la applaudivano quando passava per strada, cominciarono a insultarla e perse l’affidamento delle bambine.

La coppia decise di trasferirsi in Tanzania, dove immaginavano che gli attacchi sarebbero diminuiti. Al contrario, aumentarono. L’infedeltà di Biyou aveva attentato contro tutta la negritudine africana, non soltanto quella senegalese. Di nuovo improperi e ingiurie. Depressa, si chiuse in casa e usciva soltanto per andare a trovare le figlie. Luigi pretese che prendesse una decisione radicale e si trasferirono a Rio de Janeiro. Da lì, Biyou rimise insieme la sua carriera. Si mise a cercare i membri per una nuova compagnia. Le ballerine brasiliane nere di prestigio furono reticenti. L’ambiente della danza è molto chiuso e lavorare con lei poteva significare che in futuro si sarebbero viste chiudere delle porte in faccia.

Biyou prese allora una decisione rischiosa: si mise a girare per il Brasile alla ricerca di nuovi talenti. Fra i praticanti della capoeira trovò i danzatori ideali. In quelle donne e in quegli uomini sudati dalla pelle corvina s’intuivano le radici nere più pure. Sembravano appena scesi dalle navi degli schiavisti. L’africanità intatta.

Biyou insegnò loro le tecniche di danza e progettò una complessa coreografia, senza dubbio la sua opera più audace. Dopo due anni di prove si presentarono al Teatro municipale di Rio de Janeiro. Fu un successo di pubblico e di critica. Ben presto arrivarono inviti da Londra, Parigi, New York, Roma. Recuperò la sua posizione e dopo cinque anni tornò in Senegal, dove fu accolta di nuovo come la dea africana della danza. E lo fece mano nella mano con l’uomo che amava: Luigi. Tre delle sue figlie, ormai adolescenti, decisero di andare a vivere con lei. Pierre e lei divennero buoni amici. Poco dopo, anche lui decise di trasferirsi a Rio con la più piccola delle figlie e lavorò come insegnante per i nuovi membri della compagnia.

L’esperienza di Biyou mi diede speranza. Avrei visto José Cuauhtémoc fin dove l’avrebbero permesso le circostanze e come un vampiro avrei succhiato dal suo sangue e dalle esperienze accanto a lui. Tanti ormoni, tanta adrenalina, tanti tremori, tante paure dovevano stimolare la mia creatività. Speravo che l’incontro con lui mi rivitalizzasse tanto che la mia opera subisse una svolta radicale e raggiungesse finalmente il punto al quale avevo sempre desiderato di arrivare. Ma desideravo anche innamorarmi. Rinnovare sentimenti che credevo spenti. Baciare qualcuno con la voglia di perdermi in lui. Chiudere gli occhi e zittire il rumore del mondo. Ascoltare soltanto i nostri respiri. Sentire le sue carezze, il calore del suo corpo. Poi uscire in strada, pronta ad affrontare la vita.

Baciai José Cuauhtémoc come se intorno a me non ci fosse nulla e nessuno. Non m’importarono gli sguardi dei secondini, né i bisbigli degli altri detenuti. A ogni mia visita, ci sedevamo al tavolo in fondo e lì mi abbracciava e mi accarezzava. Mi perdevo nel suo immenso torso. E per l’intera ora della visita ci baciavamo senza pause.

Approfittavamo dei giorni del laboratorio per parlare. Pedro e Julián, degni complici, alla fine della lezione aspettavano quindici o venti minuti per permetterci di stare insieme. Ci sedevamo nei banchi per chiacchierare di arte, politica, economia. Ma soprattutto di letteratura. Lo ossessionavano l’uso del linguaggio, le strutture narrative, la creazione dei personaggi.

In qualche rara occasione mi raccontò della sua famiglia. La menzionava con vaghezza. Mi raccontò aneddoti vissuti con i suoi fratelli, che, mi chiarì, non aveva più rivisto. Del padre parlò poco, con un misto di ammirazione e odio. Una volta sola fece allusione agli omicidi. “Sai che ho ucciso mio padre?” Annuii. “Sai che l’ho bruciato vivo?” Annuii. “Sai che ne ho ammazzati anche altri due?” Annuii. Calò un silenzio. “Hai paura che ti faccia del male?” Scossi la testa. “Abbi fiducia in me,” affermò.

Raccontai a Pedro delle mie visite. “Sii prudente,” mi avvertì, “con un assassino non si sa mai. Cerca di non vederlo da sola.” Fu un avvertimento che non riuscii a seguire. Dopo pochi giorni, José Cuauhtémoc mi disse che riteneva necessario vederci in uno spazio più privato. Le parole di Pedro mi risuonarono dentro. “Cerca di non vederlo da sola.” “Perché?” gli chiesi. Mi prese per il mento e mi guardò negli occhi. “Vuoi fare l’amore con me?” Certo che lo volevo. Lo volevo più di ogni cosa al mondo. “E dove andremmo?” indagai. Mi rivelò l’esistenza di stanze destinate alle visite coniugali. Chiesi tempo per pensarci. Mi disse di prendermi quello necessario e ripeté: “Abbi fiducia in me.”

 

Amavo quando ci portavi a trovare i nonni. Anche se era una traversata interminabile per le sinuose strade sterrate della sierra di Puebla, mi godevo il viaggio. Immensi boschi ritagliati su un cielo limpido di un azzurro impossibile. Difficile credere che in quella terra feconda germinasse tanta povertà. I miei fratelli e io giocavamo a vedere chi scorgeva per primo la piccola baracca di adobe in cui eri cresciuto. Compariva come un minuscolo punto dopo una curva. “Eccola,” gridavamo emozionati quando la vedevamo.

Era terribile il freddo in inverno. Insopportabile. Non so come facevate a resistere. Quando la nebbia calava sulla valle, ci stringevamo per darci calore. Facevamo entrare perfino le capre per dormire abbracciati a loro. Potevi sentire tremare anche loro. Era comune che i bambini di meno di quattro anni morissero a causa di quel freddo virulento, che fosse di polmonite o di ipotermia. Sopravvivevano soltanto i più forti. Il potere della selezione naturale. Tu rimani, tu te ne vai. Tu sei rimasto, papà, il che, viste le condizioni in cui sei cresciuto, è stato un grande merito. E maggior merito quello dei miei nonni, che a novant’anni passati ancora resistevano alle gelate e alla miseria assoluta.

In estate le piogge erano continue. Come diceva mio nonno, “buone per il raccolto, cattive per la vita.” Il tetto inadeguato della baracca a stento resisteva alla furia dei temporali. Le infiltrazioni d’acqua proliferavano. Le giunture delle lamine di zinco cedevano e un piccolo torrente si riversava su di noi mentre dormivamo. Così come avevi dovuto fare tu da bambino decine di volte, ci costringevi ad alzarci in piena notte per tamponare la perdita con fango e radici.

Ci raccontasti che una volta una valanga di fango era venuta giù dalla cima della montagna ed era passata accanto alla vostra casa abbattendo i recinti e portandosi via le vacche, le capre e il vostro unico asino. I vostri animali vennero sepolti da metri di fango. Doveste scavare per ore. Trovaste le vostre vacche morte e, per miracolo, due capre vive. Si erano salvate imprigionate in una cavità formata dai pali dell’ovile.

In una delle nostre visite ai nonni, nel pomeriggio calò una nebbia densa. José Cuauhtémoc, i miei cugini e io ci trovavamo lontano dalla casa. Avevamo attraversato diversi burroni e gole, e ritornare senza vedere nulla nella nebbia mi terrorizzò. I miei cugini risero. Si erano abituati a vagare per le montagne praticamente alla cieca. Ci mettemmo in cammino. José Cuauhtémoc stava dietro ai miei cugini, che avanzavano a passo veloce. Cauto, io tastavo con un bastone, temendo di imbattermi in un dirupo. Dopo un po’ non sentii più le loro voci. Urlai di aspettarmi. Niente. Silenzio. Sentivo soltanto il mio respiro. Bambino di città, sarei stato incapace di sopravvivere in montagna con quell’umidità e quel freddo. Pensai che la mia fine fosse vicina. Se rimanevo fermo, sarebbe scesa la notte e nessuno mi avrebbe più trovato. Sarei morto per ipotermia. Se andavo avanti, era probabile che non avrei visto l’orlo di un precipizio e sarei caduto nel vuoto. Nell’oscurità bianca, di tanto in tanto sentivo il battito d’ali delle tortore che passavano sopra di me. M’impigliai nei rami di un arbusto.

Mi costò fatica liberarmi e, quando ci riuscii, persi l’orientamento. Girai senza sapere dove mi trovavo. Ero completamente perso e scoppiai a piangere. Di colpo, sentii delle risatine. Mio fratello e i miei cugini si erano nascosti qualche metro più avanti, divertiti dal mio girare in tondo. Spettrali, spuntarono dalla cortina di nebbia. Urlai loro contro, arrabbiato. “Vuoi litigare con noi? Allora rimani un’altra volta da solo,” disse José Cuauhtémoc, e di nuovo i tre scomparvero nel muro bianco. Gemetti implorando che tornassero. Niente. Ancora silenzio e l’occasionale sibilo delle tortore. Cominciai a camminare verso destra, dove immaginavo potesse trovarsi la casa, quando un grido mi fece fermare di colpo. “Non ti muovere.” Mio cugino Ranulfo spuntò dalla nebbia e mi prese per un braccio. “Vieni da questa parte.” La mia peggiore paura era sul punto di realizzarsi. Ero a pochi centimetri dal precipitare sul fondo del burrone. Non si sentirono più risate, né sfottò. I miei cugini e mio fratello erano spaventati quanto me. Riprendemmo il cammino. Ci legammo gli uni agli altri con le cinture per non separarci di nuovo. Due ore dopo, arrivammo a casa.

 

A José Cuauhtémoc non importò che Marina fosse tornata in carcere con la scusa di partecipare al laboratorio di Julián, fatto sta che era lì, in cinemascope e a colori. Era più bella così, normale, con i jeans e una maglietta. Senza essere impastrocchiata di trucco e senza rossetto come quando l’aveva vista sul palcoscenico. Lei l’aveva chiamato e lui non aveva potuto risponderle. Si erano rivisti e lui le aveva chiesto di richiamarlo. E l’aveva fatto. Avevano parlato e parlato e parlato. José Cuauhtémoc le raccontò quello che significava essere ospite dell’Hotel Reclusorio Oriente e la sua vita quotidiana. Le descrisse la sua tana e com’era organizzato il minuscolo spazio che condivideva con altri tre carcerati. Le parlò del tempo pesante in galera, dei pomeriggi seduto a osservare le nubi e gli uccelli che attraversavano il cielo, delle volte in cui restava in cortile a bagnarsi quando pioveva soltanto per sentire che esisteva ancora la natura. Mentre conversavano la sentì indaffarata. A volte distratta. Marina copriva il microfono per parlare con qualcuno e poi tornava con degli mhm e degli ahà senza neanche sapere cosa le aveva detto. Lei nella sua esistenza casalinga, che dava ordini a domestiche, autisti e tate, che organizzava bambini e cene e lezioni e sali e scendi ed entra ed esci e JC seduto sulla sua branda, ad ascoltarla, lui nelle gelide steppe dell’Alaska, Marina nelle boscose lande della Moravia.

La ragazza gli era entrata dentro fino all’ipofisi. Era così preso da Marina che cominciò a scrivere per lei e a causa di lei. Prima scriveva per scrivere. Adesso scriveva a lei. A lei e soltanto a lei. Al laboratorio lesse il suo “Manifesto”. Voleva che sapesse di più su di lui. Che sapesse che esisteva un cosmo sotterraneo e violento, che sotto una grande crosta ribollivano la fame, il crimine, la disperazione. Voleva mostrarle i tortuosi viali che conducono al gabbio, squarciarle le viscere della realtà e allo stesso tempo farla affacciare sull’umanità e sulla solidarietà dei detenuti. Desiderava raccontarle che tra secondini e carcerati c’era la possibilità di diventare amici e che dei detenuti avevano trasformato in compari i loro torturatori. Passati gli urti, restava il sedimento dell’umanità, come restano pepite d’oro nella sabbia dei fiumi agitati. Lì nella melma, abitavano anche la lealtà e il perdono.

Chi non è stato al gabbio non capisce il terrore per la reclusione. Non si entra in carcere, se ne viene inghiottiti. La nera bocca del grande serpente si spalanca per ricevere il suo cibo. Lì finiscono i malviventi e anche una buona carrettata di innocenti che hanno avuto la maledetta sorte di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato e con l’avvocato sbagliato. La paura del carcere formicola nel boss più cazzuto come in chi frega gli specchietti delle macchine. Il carcere è il carcere è il carcere. Non c’è nessuno che non si cachi sotto per la possibilità di venire rinchiuso. Sono fesserie quelli che si vantano di resistere. Lo dicono all’inizio, ma dopo due fottute settimane anche il più sbruffone crolla. Non c’è nessuno che non voglia scappare. Parecchi fanno mappe dei penitenziari. Fin dall’ingresso memorizzano i dettagli di ogni posto: ringhiera, mensa, infermeria, campi, officine, lavanderia, cucina. I secondini sanno che almeno uno ogni tre detenuti sta facendo schizzi con presunti itinerari per squagliarsela. Tenerezze. Se vedessero quant’è inutile scarabocchiare tovagliolini o intagliare le loro mappe sui mattoni. Chi vuole svignarsela ha tre minestre da scegliere: o paghi un bel po’ di grana e i secondini fanno gli gnorri e ti lasciano scappare dalla zona del tribunale o hai delle conoscenze moooolto pesanti oppure sei uno sfaccimmone con talento da ingegnere in grado di scoprire le crepe del sistema di sorveglianza e te ne scappi pulito pulito, senza ammazzare nessuno, senza corrompere nessuno, senza bisogno di nessuno. Nell’argot carcerario li chiamano i “chirurghi”. Non fanno casino, non rivelano i loro piani ad altri detenuti, non ungono i secondini. Così, semplicemente, spariscono da un giorno all’altro. “Fughe chirurgiche,” le denominano gli esperti.

La maggior parte dei fuggitivi li riagguantavano in meno di sei mesi. Bastava seguire la pista di amici e parenti per trovarli. I più intelligenti non avvisavano nemmeno i conoscenti che se l’erano squagliata. Se la svignavano senza lasciare neanche una briciola di traccia. Non telefonavano, non andavano a trovare nessuno, non chiedevano ospitalità, non lo dicevano in giro. Muti, come tombe. Camminavano discreti fino a un luogo solitario e appena potevano si liberavano dalla pelle carceraria e si trasformavano in persone normali. Quelli là, raramente li prendevano. Ah, come cambiavano le cose quando c’era di mezzo una donna! Allora sì che facevano cazzate. “Follow the money,” dicevano i poliziotti gringos. Col cazzo, dicevano i poliziotti messicani. “Follow le femmine.” Come bestioline, i fuggitivi si affrettavano a cercare la tipa che li faceva impazzire. Certo che JC aveva pensato di filarsela. Aveva fatto perfino dei disegnini con la propria versione delle vie di fuga. Con il tempo aveva scartato il piano. Perché tanto affannarsi se fuori non c’era proprio niente che lo motivasse a scappare? Finché non era comparsa la seccatura chiamata Marina.

Era senz’ombra di dubbio una tipa fica, fichissima. Ed era una fortuna che si fosse accorta di lui. Si domandò se fosse promiscua. Non gli sembrava, ma la faccia era una cosa, e tra le cosce mai a scommetterci. Era quello il casino. Sapere che se ne andava in giro libera per il mondo e che poteva andare a letto con questo e quello e quell’altro e quell’altro ancora. Soltanto immaginarla nuda tra le mani di altri gli liquefaceva il cervello e il cuore e il pancreas e lo stomaco e i testicoli e la vescica. Non doveva farsi neanche la minima illusione, però era lì, a sbavare per lei.

Marina aveva detto che l’avrebbe chiamato e non chiamò. Stupida, pensò JC, anche se poi rettificò. Stupido io. Chi cazzo gli aveva detto che se lo sarebbe davvero filato? Sul serio aveva creduto alla storiella di lei e io, una semplice formula, il fiore e la favola, il nido di un’aquila? Marina NON-LAVEVA-CHIAMATO. Gli venne voglia di vomitare quel che aveva bevuto. Per questo, mai e poi mai un detenuto doveva aspettarsi niente da quelli di fuori. Giammai. Giamaica. Norvegia.

Non l’aveva chiamato e JC voleva sbattere la testa contro le sbarre. Prese a pugni il muro. Gli sanguinarono le nocche. Poi tentò di calmarsi. Magari lei non aveva potuto o non aveva avuto tempo oppure aveva chiamato e non c’era campo o suo marito la sorvegliava oppure la stronza semplicemente non aveva avuto voglia di chiamarlo. Per provocarlo o per pungolarlo o soltanto per rompere i coglioni. “Guarda, tu ti potrai sentire un supereroe, solo che io controllo i miei ditini e decido quando compongono il numero sulla tastiera del mio cellulare. Perciò, stimato e apprezzato amico José Cuauhtémoc Huiztlic, detenuto numero 29846-8, condannato a mezzo secolo di prigione per omicidio plurimo, qui comando io e se la mia testolina pazza ordina di non chiamarti, i miei ditini non fanno il numero e chi s’è visto s’è visto.”

JC aveva lasciato nelle mani della tipa i pulsanti del play, fast forward, rewind, pause e stop. Ed ecco Marinita che ci giocava: play, rewind, play, stop, fast forward, pause. E il video chiamato José Cuauhtémoc saltellava qui e là. Per colpa sua, per averle offerto il petto. Non c’era verso di lamentarsene. Quasi quasi si era sbottonato la camicia. “Marina, spara qui, dritto al cuore.” Adesso calmati, José Cuauhtémoc. Aspetta che lei ti spieghi perché non ha chiamato. E se non torna? Cazzo, cazzo, cazzo. Senza pensarci su, si sedette a scrivere:

 

Il tempo qui è gelatinoso. Cerchi di afferrarlo e ti si disfa fra le mani. Nei tuoi palmi resta un vuoto, aria. Nulla cambia. Aleggiano il tedio e la morte. Siamo morti? Un giorno scopri un sottile filo che proviene dall’esterno. Lo osservi con attenzione. Può essere una trappola. Ti avvicini. È un filo d’oro, di platino, di una lega strana. Lo tasti con i polpastrelli. Lo fai in fretta, presto sarà spinto fuori. Tornerà al suo destino, alla limpida terra della libertà. Ti ci aggrappi come alla corda che ti salverà da questo alito oleoso. Anche se lo stringi, il filo ti scivola dalle mani. Ti taglia, ti fa sanguinare. Si perde per il portone d’ingresso. Guardi le tue ferite. Vi rifulge l’oro, il platino, la preziosa lega strana. Ti siedi ad aspettare il suo ritorno. Il filo non torna e, anche a distanza, continua a tagliare.

 

“L’inferno è una verità conosciuta troppo tardi,” sentenziò Héctor. Dopo tanto silenzio, mi aveva chiamata al telefono il giorno prima. “Devo parlarti,” mi aveva detto. Mi aveva invitata a pranzo. Pensavo che volesse mettermi a parte di qualche progetto cinematografico. Già in un’altra occasione mi aveva raccontato di un film per il quale aveva bisogno di una ballerina, e andai all’appuntamento credendo che sarebbe stato quello l’argomento da discutere.

Arrivai al San Ángel Inn quindici minuti dopo l’ora concordata. Héctor era abbastanza ritardatario e non volevo stare da sola ad aspettarlo. Con mia sorpresa, era già arrivato. Mi sedetti e ordinai una tequila per rilassarmi. Héctor mi scrutò. “E come mai questo miracolo?” gli domandai sorridente. Con Héctor non si sapeva mai. Poteva benissimo fare sfoggio del suo carattere scontroso o essere dolce e generoso. Continuò a fissarmi. “Non capisco cos’è che stai cercando,” mi disse. “Di cosa parli?” indagai confusa. “Lo sai, di cosa parlo,” disse secco. “Dove vuoi arrivare?” gli chiesi. “A volte credo di conoscerti, altre no,” disse. Cominciai a innervosirmi. Pensai che fosse venuto a sapere del mio breve affaire con Pedro e stesse per rinfacciarmelo. Oppure lo sospettava e stava tendendomi una trappola per vedere se ci cascavo. “Tu mi conosci alla perfezione,” gli risposi. “Così credevo,” disse, “ma a quanto pare, no.” La sua espressione era seria. A che gioco stava giocando? Per fortuna arrivò il cameriere con le nostre ordinazioni. Non appena mise la tequila sul tavolo, me la scolai d’un sorso. “Me ne porti un’altra,” gli chiesi. “O sa cosa? Meglio che me ne porti direttamente altre due.” Se Héctor doveva squartarmi, meglio essere mezza ubriaca.

“Senti, Marina, credo che tu stia facendo una stupidaggine.” Di nuovo il turbamento. “Quale delle tante?” gli domandai. Si sporse verso di me. “Pedro mi ha raccontato del tuo corteggiamento con il detenuto.” Contestatario com’era, a volte usava un linguaggio da signorino dell’Ottocento. Corteggiare invece di pomiciare. Respirai sollevata. La conversazione non sarebbe girata intorno alla mia avventura con Pedro. “Capisci il danno che puoi fare al tuo matrimonio? Alla tua famiglia?” mi chiese. “Credi che non abbia pensato alle conseguenze?” gli risposi. Héctor scosse la testa. “Sai qual è la cosa peggiore? Che con le tue idiozie coinvolgerai Pedro, e quindi me.” Come poteva danneggiarli la mia relazione con José Cuauhtémoc, che per di più aveva una data di scadenza? Un paio di visite coniugali mi avrebbero liberata dall’urgenza del desiderio ed ero sicura che il posto in cui saremmo andati a letto sarebbe stato così lugubre e deprimente che non l’avrei più rifatto. “È una cosa passeggera,” chiarii. Sorrise con sarcasmo. “Per quello che credo di conoscerti, sono sicuro che non riuscirai a farla finita con lui,” replicò. “Non durerà e lui lo sa,” assicurai. “Un uomo che brucia vivo suo padre non dev’essere molto affidabile,” affermò. “José Cuauhtémoc mi dà quello che nessuno mi ha mai dato,” dissi. Mi sorpresi di aver pronunciato il suo nome. “Ah! José Cuauhtémoc? Pedro non mi ha detto nemmeno come si chiamava e fatti dire che ha un nome da scrittore di libri di autoaiuto. Soltanto questo dovrebbe bastarti per allontanarti da lui.” “Non sei tu quello che propone di rompere l’ordine stabilito, di giocarsi la vita per la passione?” contestai. “Il mondo è più complesso di così, cara mia. Claudio morirebbe di tristezza se lo venisse a sapere.” “Non c’è motivo perché lo venga a sapere,” gli dissi. “L’inferno è una verità conosciuta troppo tardi,” affermò. Doveva essere un detto della sua scuola di preti che l’aveva impressionato a tal punto da farglielo pronunciare con tanta forza.

Prima che ce ne andassimo mi avvertì. “Sei a un punto di svolta della tua vita. Stai attenta a quali porte apri. Non sai mai cosa puoi trovare dall’altra parte.” Lo ringraziai per i suoi consigli. In verità, era stato dolce e la sua preoccupazione per me, genuina.

Quel che aveva detto rimase ad agitarmisi in testa. “Stai attenta a quali porte apri. Non sai mai cosa puoi trovare dall’altra parte.” Aveva ragione: dovevo stare all’erta. Però non pensavo di tornare sui miei passi. Forse era necessario aspettare un po’ prima di decidermi per la visita coniugale. Doveva essere quella la porta per la quale Héctor voleva mettermi sull’avviso. Il mio punto di svolta si avvicinava e con esso un miscuglio di decisioni le cui conseguenze era necessario determinare. Dovevo rimandare il più possibile l’intimità totale con José Cuauhtémoc per essere sicura che le porte aperte non mi conducessero in luoghi da cui non mi fosse più possibile tornare indietro.

 

“Devi presentarti in ufficio,” gli ordinò un sorvegliante. JC si sorprese. “Perché?” Il tipo fece spallucce. “Non so, ti diranno loro.” Arrivarono sei scimmioni per scortarlo nell’ufficio del vicedirettore del penitenziario. “Salve,” lo salutò il matango appena entrò. “Salve,” rispose José Cuauhtémoc. “Caro Cuau,” disse il vicedirettore con familiarità, “tra cinque minuti riceverai una telefonata da qualcuno molto importante.” A JC, il “Cuau” gli fece girare i coglioni. Chi si credeva di essere quel bavoso per cuauteggiarlo? “Chi mi chiamerà?” indagò. Il vicedirettore sorrise. Fra i denti gli spuntava un apparecchio. Sembrava un foruncoloso appena uscito dall’ortodontista. “Il colonnello Jaramillo, il capo della zona militare di Acuña.”

A quanto pareva, avevano promosso Jaramillo. Buon per lui, se lo meritava. A JC era sembrato ganzo. “Di cosa vuole parlarmi?” Il merdoso sorrise di nuovo con il suo sorriso da cavallo. “Ah, caro Cuau! E come accidenti faccio a saperlo?” La faccenda del Cuau gli cominciava a dare sui nervi. Non gli mollò un cazzotto fra le briglie soltanto per non infilarsi nei casini.

La faccia da cavallo indicò un telefono su una scrivania. “Il colonnello ti chiamerà su quella linea, caro Cuau.” Ancora un Cuau e gli avrebbe sicuramente piazzato un bel destro sul muso. Lo scherzetto gli sarebbe costato sei mesi in isolamento. Per di più, gli avrebbero aggiunto un paio di anni alla condanna e una bella dose di mazzate. Però, insomma, nessuno gli avrebbe tolto lo sfizio di fargli scendere i denti fino in gola a quel bavoso di vicedirettore.

Dopo un minuto squillò il telefono. Il pagliaccio rispose. “Buon pomeriggio, colonnello, un piacere poterla salutare, sono il dottor Martínez, ai suoi ordini… Sì, colonnello… Sì, è qui, glielo passo… Le auguro una buona giornata.” No, quel tipo era davvero un coglione. Non si dice “le auguro una buona giornata” a un colonnello che ha rischiato la vita a forza di pallottole e che ha perso dei compagni sotto il fuoco dei kalashnikov. José Cuauhtémoc immaginò la faccia da uotdefac di Jaramillo. “Buona giornata al tuo culo, pezzo di stupido.” Prese la cornetta. “Salve, colonnello,” lo salutò. “Salve,” gli rispose Jaramillo. Da buon militare, non perse tempo in convenevoli. “Conoscevi María Esmeralda Interial?” A JC quel “conoscevi” suonò come se lei non facesse più parte di questo mondo. “Sì, perché?” “L’abbiamo trovata morta, nuda, infilzata su un palo, decapitata.” Per quanto uno sia duro e rude, una descrizione così, senza prologo, senza avvertimenti tipo preparati-a-quello-che-sto-per-dirti-perché-sarà-molto-tosto, fa male, lacera, ferisce, fa venire la nausea.

“Chi l’ha uccisa, colonnello?” chiese José Cuauhtémoc tentando di mantenere il contegno mentre il vanitoso vicedirettore lo guardava sorridendo con una faccia da “come va, caro Cuau?” “No, non sappiamo chi l’ha uccisa, e tanto meno con tutto quell’accanimento. Ti chiamavo per sapere se avevi idea di chi abbia potuto farlo.” No, JC non ne aveva la più remota idea. Erano cambiate tanto le cose da quando se n’era andato che il Coahuila, dall’essere uno degli stati più pericolosi, si era trasformato in uno dei più sicuri del paese. “No, colonnello, non lo so,” rispose. “La faccenda di Esmeralda,” aggiunse Jaramillo, “è un fatto insolito in questo momento. Erano mesi che non si presentava un caso del genere.” Rimasero in silenzio per qualche secondo. “Sapevi che appena te ne sei andato le hanno tagliato la lingua?” Non sapeva neanche quello. Deglutì. Avevano trasformato la bella e dolce Esmeralda in uno spaventapasseri impalato in mezzo a una pianura. “Colonnello, posso chiederle un favore?” “Dipende dal favore,” rispose Jaramillo. “Se trovate quello che l’ha fatto, gli tagli le palle e gliele faccia ingoiare.” Jaramillo si prese il suo tempo per rispondere. “Verrà fatta giustizia, José Cuauhtémoc. Di questo puoi stare sicuro,” rispose con ambiguità. Quel “fare giustizia” suonava può darsi di sì, può darsi di no. Le parole di Jaramillo lanciavano un messaggio inequivocabile: cerchiamo con tutti i mezzi quel fottuto assassino.

Dall’espressione grave di José Cuauhtémoc quando riattaccò, il vanitoso vicedirettore dovette intuire che qualcosa andava storto perché soppresse i “Cuau”. Ordinò ai secondini: “Riaccompagnatelo.” Lo riportarono all’ingresso del braccio. Appena se ne andarono, JC si sedette sui gradini. Esmeralda era stata l’ultima donna con cui aveva fatto l’amore e, a meno che non facesse un home run con Marina, non ce ne sarebbe stata un’altra nella sua vita. Ricordò la grana della sua pelle, il suo odore, il sapore dei suoi capezzoli, il suo sorriso, il modo in cui lo aveva abbracciato, come aggrinfiava le mani quando arrivava all’orgasmo. Adesso era un fagotto che si gonfiava di gas in un obitorio mentre un medico le faceva l’autopsia di rigore. Esmeralda spezzata. Esmeralda umiliata. Esmeralda donna senza lingua. Esmeralda passato. Esmeralda cadavere. Gli bruciò il ricordo di Esmeralda. Chi l’aveva assassinata e perché? JC non aveva avuto più notizie del Macchina. La cosa più probabile era che l’avessero ammazzato sulle colline. Il massacro doveva essersi esteso dal paese fino al più remoto dei confini. “Pulizia,” la chiamavano i boss. “Andiamo a ripulire la piazza dagli zozzoni,” sentenziavano. Traduzione: liquidare tutti quelli dell’altra fazione. E in una pulizia su quattro si portavano via tra le zampe un innocente. Anche se per i narcos nessuno era innocente. Se in una piazza c’erano narcos dell’altro cartello, era perché in quella piazza la gente li tollerava. I boss non tenevano conto del fatto che la maggior parte degli abitanti non aveva altra scelta che accettarli. Era difficile resistere quando ti puntavano una Beretta dritto alla capoccia. Tra scontri a fuoco, sequestri, cadaveri appesi ai ponti, poliziotti corrotti, estorsioni, quale cittadino con un po’ di sale in zucca aveva i coglioni per mettersi contro di loro? Il rimedio: “ajo y agua”, come riassumeva il vecchio detto. “A joderse y a aguantarse.” Fottersi e tenere duro. Di questo ai boss non gliene fregava una sega. Nella guerra dei narcos chiunque camminasse su due gambe era un obiettivo bellico. E in quella guerra, Esmeralda non era priva di colpe. Il semplice fatto di essere la donna di un sicario dei Quinos l’aveva trasformata in una nemica ed era così nemica che il suo corpo decapitato era lì a dimostrarlo.

 

Con goffaggine leziosa cercai di spiegare a José Cuauhtémoc il mio rifiuto di andare a letto con lui. Gli parlai delle porte che si potevano aprire e che poi non si sarebbero più potute chiudere. Mi fissò. Qualche minuto prima, come nelle visite precedenti, ci eravamo baciati a lungo e tocchicchiati senza esagerare perché non lo punissero per offese alla morale. “Marina,” mi disse con gravità e poi restò in silenzio. Diverse settimane che pomiciavamo come adolescenti e io ancora esitavo ad avere rapporti sessuali con lui. Pensai che mi avrebbe rinfacciato il mio atteggiamento infantiloide. Non fu così. Scrutò i lontani cortili e poi si voltò verso di me. “Credo che non ti sia resa conto di con chi stai e dove,” disse. “Certo che lo so,” risposi subito. “Allora sei consapevole che questo può essere l’ultimo giorno che ti vedo?” Secondo gli angusti schemi della mia mentalità pensai che, stanco dei miei timori e dei miei dubbi, avesse deciso di farla finita con me. “Perché lo dici?” chiesi con ingenuità. “Vivo chiuso in un carcere e credo che tu lo dimentichi.” Come potevo dimenticarlo se quattro volte alla settimana attraversavo Ixtapalapa soltanto per vederlo? “Lo tengo presente ogni giorno,” gli sottolineai. “Vogliono uccidermi, Marina,” mi disse con calma. “Cosa?” chiesi sorpresa. “Prima o poi, chiunque sta in un carcere cercano di assassinarlo e stavolta è toccato a me.”

Appena me lo disse l’aria si fece più densa, i suoni più sordi, la luce più obliqua. “Ne sei sicuro?” Annuì senza togliermi gli occhi di dosso. “E come fai a saperlo?” gli domandai. “Perché chi mi vuole uccidere ha già mandato i segnali.” Di nuovo entrarono in azione i meccanismi della mia limitata visione del mondo da allieva di una scuola cattolica. E se quello era soltanto un ricatto per farmi pressione e convincermi ad andare a letto con lui? “Non te lo starai mica inventando?” gli dissi con una sfacciataggine che sfiorava la maleducazione. Un uomo del mio ambiente sociale si sarebbe offeso perché gli avevo dato del bugiardo e si sarebbe alzato dal tavolo per andarsene, sperando che gli corressi dietro per scusarmi della mia insolenza. José Cuauhtémoc non si scompose. La sua risposta mi raggelò. “Se vuoi, non ci vediamo più così non hai paura che possa succedere qualcosa anche a te.” Quella possibilità non mi aveva neanche sfiorato la mente: che nel tentativo di ammazzarlo facessero fuori anche me. Mi voltai indietro. (José Cuauhtémoc si sedeva rivolto verso il parlatorio e io di spalle. Così lui sorvegliava e io mi esponevo il meno possibile agli sguardi indiscreti.) Vidi nei secondini e nei detenuti insieme ai loro visitatori dei possibili assassini. E se all’improvviso un tipo ci crivellava con una mitraglietta o se diversi uomini arrivavano per accoltellarlo e di passata tagliavano a fette anche me? Avrei potuto dirgli: “Mi dispiace, me la faccio sotto dalla paura e la cosa più prudente è smettere di vederci finché non risolvi i tuoi casini.” Invece sbottai in un deciso “Non ho intenzione di separarmi da te.” Si voltò verso di me e mi baciò. Stavolta il suo bacio fu più profondo, più intimo, più amoroso. Chiusi gli occhi e persi la nozione dello spazio e del tempo. Ormone ammazza neurone, bacio ammazza ormone.

Finì l’ora di visita. José Cuauhtémoc mi accompagnò alla porta di uscita. Il tragitto lo percorremmo mano nella mano, come se fossimo una coppia giovane e innamorata che progettava la sua luna di miele. In quale istante mi fossi trasformata in una ragazzina imbambolata, non lo so, ma ero lì felice di camminare tra carcerati e secondini per mano all’uomo che, per quanto strano potesse sembrare, amavo, del tutto indifferente alla minaccia di morte che incombeva su di lui o, perché non dirlo, su di noi.

 

Esmeralda si trasformò in un fardello impossibile da sopportare. Ci sono morti che pesano di più ed Esmeralda equivaleva a cento sacchi di cadaveri. Quanta morte aveva patito José Cuauhtémoc ed era lei che veniva a schiacciarlo. Lui non si deprimeva, era un trattore che andava sempre avanti. Un John Deere emozionale. Aveva attraversato le paludi più putride: la colpa, la fame, la reclusione, il caldo, il freddo, massacri, polvere, sole, ferite, sangue. Lui poteva superare quello e altro. Perché adesso la morte di una tipa con cui aveva a stento avuto rapporti gli toglieva il fiato come un gancio in pieno plesso solare?

Esmeralda ricomparve come soltanto i bravi fantasmi sono soliti fare: nei momenti più inattesi. Appariva quando JC era seduto sulla latrina. Appariva tra il vapore della doccia. Appariva sul fondo della minestra, negli angoli caliginosi della cella, tra le lenzuola. Esmeralda fantasma senza testa, infilzata su un palo tremolando come una bandiera a mezz’asta. Esmeralda fantasma che gli s’intrufolava nelle ossa come un’umidità nociva e tossica. Esmeralda ricordo, taglio, crepa, precipizio: fantasma.

Nella sua immaginazione cominciarono a confondersi i volti e i corpi di Esmeralda e di Marina. Assomigliava alla dea Hel, la divinità vichinga che abitava nelle oscure caverne del sottosuolo, metà cadavere, metà essere vivente. Così si ripresentavano loro due nei suoi incubi. Esmeralda sorridente, Marina decapitata. Esmeralda parlava con la voce di Marina, Marina guardava con gli occhi di Esmeralda. Marina fantasma. Esmeralda viva. Marina. Marina. Dov’era Marina?

Marina tornò al laboratorio di Julián. JC si comportò come se gli parlasse la Madonna. Cercò di non filarla. Impossibile. Ce l’aveva ficcata proprio nell’Uti Wa Mgongo. Ebbe voglia di spingerla in un angolo dell’aula e dirle: “Senti, grandissima stupida, detesto quanto mi sei diventata indispensabile e deploro il mio rozzo bisogno di te. Nell’istante in cui ti penso me ne pento, non appena ti sogno, cancello quello che ho sognato. Quando menziono il tuo nome, taccio per non pronunciarlo più. Però eccomi qua, teso verso di te. Goffo, frastornato. Non sarai la prima donna nella mia vita. Ma sarai l’ultima. Non c’è un dopo di te. Non voglio parole di un’altra donna che non siano le tue. Non voglio spargere il mio seme in un’altra vagina che non sia la tua. Quando verrai in carcere guardati intorno. Osserva i muri, le torri, i fili spinati. Vedrai che non c’è via di fuga. Capiscilo una buona volta, non ho dove andare se non da te. Perciò, Marina, se devi lasciarmi, fallo adesso oppure rimani e non andartene mai più.”

Quella mattina le applicò la legge dell’iceberg. Nemmeno una parola. Uscì dall’aula e se la squagliò in fretta. Di sottecchi, notò come lei lo osservava e immediatamente capì che non si sarebbe allontanata di nuovo. Lo colse al volo nel suo sguardo. Era sicuro che Marina sarebbe tornata.

La sera dopo scoprì sul suo cellulare una chiamata persa. Soltanto lei aveva il suo numero. La seduzione era reciproca. Il filo non si era spezzato. Era sempre teso tra loro due. Era un filo forte e resistente. Lei era tornata.

 

Ti seppellimmo nel Panteón Jardín. Mia madre volle tenerti vicino, per venirti a trovare alla tua tomba. Puoi immaginare quanto malessere provocò quella decisione nei miei nonni. Avrebbero voluto riportarti nella tua terra, darti sepoltura nel piccolo cimitero alle spalle del villaggio in cui vivevano. Lì giacevano le spoglie dei tuoi antenati, dei tuoi bisnonni, dei tuoi nonni, dei tuoi zii, dei tuoi fratelli. Segnavano ogni tomba con monticoli di pietre. Non c’erano iscrizioni con i nomi, né lapidi. Non era necessario. Nella memoria dei tuoi era conservato il luogo esatto dove ciascuno era sepolto. Fosti il primo a non essere seppellito lì. I tuoi genitori ne soffrirono come di una mutilazione.

L’angoscia si notava sui loro volti di granito. Nel loro spagnolo tronco non seppero spiegare a mia madre quanto importante fosse per loro inumarti in quel camposanto. Lei non accettò. Era tua moglie e decideva lei. Per i miei nonni, quella era un’atrocità. Le mogli non dovevano decidere più dei genitori. Loro ti avevano messo al mondo, ti avevano alimentato e allevato. Chi si credeva di essere quella donna per contraddirli?

La nonna propose a mia madre una soluzione: loro si sarebbero portati via parte dei tuoi vestiti e dei tuoi oggetti personali. “Le cose di una persona,” le disse nel suo misto di spagnolo e náhuatl, “conservano i suoi odori, le sue gioie, le sue tristezze, la sua vita.” Mamma accettò. I tuoi genitori vennero a casa e chiesero a me e a mia sorella di aiutarli. Pretesero che mia madre aspettasse fuori mentre le sceglievano. Ci mettemmo ore. Indumento per indumento, oggetto per oggetto, ci domandarono da dov’erano usciti, quanti anni avevi quando li avevi comprati, il numero di volte che li avevi usati.

Misero in una valigia la tua lametta da barba, il tuo spazzolino, il tuo pettine, il tuo profumo, due paia di scarpe, due pantaloni, tre camicie, tre mutande, quattro paia di calzini, due magliette, due cinture, due cappelli, due cravatte, i tuoi occhiali da vista, uno dei tuoi orologi, qualche tuo diploma, copie fotostatiche delle tue conferenze, il tuo anello della maturità alla scuola rurale.

Citlalli e io li accompagnammo nel ritorno alla tua terra natale. Noleggiammo un furgoncino perché ci entrasse la tua famiglia. Fu un lungo pellegrinaggio fino alla sierra. Domandai a mio nonno perché avevano deciso di vivere così in alto sulla sierra. Mi rispose in náhuatl che lui era nato lì e che suo nonno era nato lì e anche il nonno di suo nonno. “Immagino che i miei antenati volessero toccare il cielo,” disse nel dolce tono della tua lingua.

Proseguimmo fino alla cima e le nubi rimasero sotto di noi. Un’aquila entrava e usciva dal manto bianco. L’uccello sacro degli aztechi che aveva ispirato i nostri nomi: Cuitláhuac, “aquila nell’acqua”, e Cuauhtémoc, “aquila che discende”. Cominciò a piovere. Si formarono delle fangaie e il tragitto divenne pericoloso. Le gomme del furgoncino, non adatte a quel tipo di terreno, derapavano nel fango, e in diverse occasioni scivolammo verso i burroni. Citlalli e io, nervosi; i miei nonni, i miei zii e i miei cugini, calmissimi.

A mezzanotte finalmente arrivammo, dopo quindici ore di risalita delle montagne. Pernottammo nella baracca, pigiati. Mi fu impossibile dormire per il picchiettio della pioggia sul tetto di lamiera. L’insonnia durò fino alle quattro, quando finalmente cessò il temporale.

La mattina dopo mi svegliarono dei colpi di martello. Mi alzai stordito e insonnolito. Non c’era nessuno in casa. Uscii. Tuo padre stava costruendo una cassa con delle rustiche assi di pino. Gli domandai cos’era. Senza girarsi a guardarmi mi rispose in náhuatl: “La bara per seppellire tuo papà.” Non capii. Mi voltai verso il cimitero. I miei cugini e i miei zii stavano scavando una fossa. Cosa dovevano seppellire?

Seppellirono le tue cose, Ceferino. Amorosamente, mia nonna mise i tuoi vestiti nell’improvvisato feretro a forma di figura umana. Un tuo pantalone, una camicia, un paio di scarpe. Dove doveva esserci la tua testa, sistemò gli occhiali e sotto la manica destra della camicia, il tuo anello. Al tramonto si riunì la famiglia per il commiato. Calarono la tua bara nella fossa e recitarono una preghiera in náhuatl. Alla sepoltura del tuo corpo a Città del Messico avevo trattenuto le lacrime. In questo funerale allegorico scoppiai a piangere non appena cadde la prima palettata. Ciò che avevamo sepolto al Panteón Jardín era una massa stopposa e bruciacchiata di carne, stoffa e plastica. Nel cimitero dei tuoi seppellimmo la cosa più vicina a un essere umano. Indumenti impregnati di te. Indumenti che avevi scelto, che ti avevano definito. Indumenti che avevi respirato, sudato, abitato.

Non piovve quella notte, né la successiva, come se l’acqua avesse deciso di rispettare la tua tomba. Il terzo giorno partimmo. Proprio mentre ce ne stavamo andando, il cielo si annuvolò. Ben presto sarebbe arrivato un acquazzone. In lontananza si scorgevano i lampi. Abbracciai i nonni e in náhuatl dissi loro quanto li amavo.

 

Alcuni passavano tanti anni al gabbio che quando uscivano si appecorivano di fronte al vasto mondo. Camminando per strada gli veniva un colpo soltanto a vedere arrivare verso di loro un’orda di antropoidi anonimi. In carcere, più o meno, si conoscevano tutti. La strada ribolliva di sconosciuti. Una zuppa di volti senza nome. Per avere rapporti con la gente di fuori ci voleva tempo. Gli psicologi calcolavano tre mesi di adattamento per ogni anno di reclusione. Sì, come no. A volte erano necessarie tre vite per ogni giorno di carcere.

Ad altri, il fottuto istinto criminale li incalzava con una forza tale che ben presto tornavano in galera. Un maleficio che chi non lo subiva semplicemente non riusciva a capire. I minchioni lo imputavano al carcere: “Le prigioni sono la scuola del crimine.” Col cazzo. Un criminale è criminale perché è criminale e lo era da prima che lo rinchiudessero e la maggior parte nemmeno nelle prigioni finlandesi riescono a raddrizzarli. Ce l’hanno nel sangue, insomma.

José Cuauhtémoc lo sapeva bene. Nessuno gli aveva fornito un manuale su come ammazzare Galicia. Nessuno in carcere gli aveva spiegato con cococchi e mazzarelle come doveva fotterselo. Si era organizzato per ucciderlo e punto. Un autodidatta dell’assassinio. E beccati questa, di nuovo al gabbio. Maledetto il virus che gli aveva fatto premere il grilletto.

In carcere, i prigionieri con lunghe condanne li chiamavano i “serbatoi stazionari”. Così dicevano, “sei un serbatoio stazionario o vai e vieni?” Serbatoi stazionari: gli incorreggibili, i permanenti, i duracell, i perpetui, i mattoni, gli abituali, i cronici, gli incurabili, i seifottuto, i gambe fredde, i finepenamai, i radicati, quelli di casa, la mobilia. Ci voleva una calma piatta per non impiccarsi sapendo che l’uscita dalla galera sarebbe stata alla fine di quel periodo chiamato vita.

JC smise di fantasticare sulla libertà. La reclusione la cancellò. “L’unico modo di sopportare il carcere è vivere giorno per giorno,” gli aveva suggerito don Chucho quando l’avevano messo in gabbia la prima volta. “Cercati qualcosa da fare perché il cervello è bastardo e ti fa brutti scherzi.” Don Chucho sapeva di cosa parlava. Senza nulla da fare, i detenuti s’invischiavano in spirali ossessive. Parecchi diventavano ipocondriaci. Tutto quel cazzo di tempo libero li faceva fissare su uno stesso doloretto. Una colica: cancro terminale. Tosse prolungata: AIDS. Mal di testa: emorragia cerebrale. Belli sconquassati, si credevano a un passettino dalla morte. Chiedevano un medico urlando. I secondini semplicemente non se li filavano. Le reginette del dramma minacciavano ricorsi e denunce alla Commissione per i diritti umani. “Smetti di urlare e dormi,” gli rispondevano le guardie. Una percentuale degli ipocondriaci non ce la faceva più e bum. Alcuni si suicidavano e altri finivano nei padiglioni per i pazzi a grugnire come marmotte. La maggior parte “guariva”, soltanto in attesa della prossima malattia mortale immaginaria. “La reginetta adesso ricomincia,” lo sfottevano i sorveglianti, e sì, la reginetta si buttava a terra e scalciava di dolore convinto di avere un cancro alle ossa.

Altri, tutto quell’ozio li faceva diventare paranoici. Cominciavano a “scoprire” nemici. Si costruivano assurde teorie persecutorie e assicuravano di essere circondati da fetosi che volevano farli fuori. Vivevano nel timore di essere assassinati finché non decidevano di fare la pelle alla canaglia prima che la canaglia facesse la pelle a loro. E così, senza motivo, il paranoico tagliava il collo a un tipo che non aveva la minima idea del perché della filettatura. Per un po’ il tizio si sentiva sollevato, soltanto finché la sua testolina non involveva verso un nuovo nemico.

Don Chucho aveva ragioni da vendere. JC le aveva colte subito. Fin dall’inizio si era cercato cose da fare, quelle necessarie per non guardarsi l’ombelico, perché era dall’ombelico che sgorgavano le brutte idee. Si era salvato dall’ipocondria e dalla paranoia. Solo che non aveva tenuto in conto l’ultima trappola del pensiero ossessivo: innamorarsi. Non delle donne, ma DELLA DONNA.

Il tornado Marina gli rase al suolo il cervello. Che starà facendo? Farà l’amore con suo marito? Avrà un amante? Penserà a me? Per fortuna, per caso o per chissà che, lei sembrava essere sullo stesso suo track. L’intrallazzo cominciò a prendere piede: altre telefonate, altre occhiatine, altri tocchettini, altro da qua a là e da là a qua. Una fortuna, che lei giocasse allo stesso gioco. Una fortuna, che lei decidesse di non mancare al laboratorio. Una fortuna, quella strabastarda fortuna.

Per un sopracciglio di lepre, JC schivò la pallottola dell’ossessione.

 

Il procedimento per accedere alla visita coniugale fu abbastanza sgradevole. Per la prima volta, capii fino in fondo l’espressione “l’hanno trattata come una bagascia”. Quando avevo sentito per la prima volta la parola “bagascia” non sapevo nemmeno cosa significava. Quel giorno scoprii quello che significa essere trattata come tale. Venni sottoposta a un severo interrogatorio nel quale ogni mia risposta fu messa in discussione. Malgrado avessero già i miei dati, fossero al corrente delle mie visite, del mio lavoro nel laboratorio di Julián e sapessero che entravo con Pedro e il suo seguito di guardaspalle, fui sottoposta a un’umiliazione dietro l’altra. Non c’è dubbio che prevalga ancora una cultura maschilista. Una donna in visita coniugale che non sia la moglie o la mantenuta del detenuto è, per le autorità carcerarie, letteralmente, una bagascia, una puttana da quattro soldi. Una da maltrattare e degradare.

Cercarono di ricattarmi, mi minacciarono. Dovetti dargli i soldi che avevo addosso e “regalargli” il mio orologio perché mi dessero l’autorizzazione e mi evitassero l’“esame” medico. Per dimostrare il suo potere su di me, un imbecille di dirigente del penitenziario mandò cordiali saluti a Claudio. Mi sentii estremamente vulnerabile. Avevano abbastanza informazioni per mettermi nei guai con la mia famiglia e i miei amici. Così funzionava il ricatto: o collabori o ti roviniamo. Un passo falso e Claudio avrebbe saputo delle mie avventure sessuali con José Cuauhtémoc. Pensai di girare i tacchi e andarmene. Mi rifiutai di farlo. Non ero arrivata fino a quel punto per poi mollare e dovevo accettarne le conseguenze. Nonostante la mia discrezione e il mio basso profilo, avevo lasciato un’ampia scia di prove della mia infedeltà. Una in più non avrebbe cambiato molto. Se volevano fregarmi, avrebbero potuto contare su innumerevoli video in cui mi sbaciucchiavo con José Cuauhtémoc in parlatorio. La mia unica alternativa era non piegarmi e affrontarli a viso aperto.

Decisi di entrare. Una sorvegliante e un secondino mi condussero per corridoi sconosciuti in un’ala remota del penitenziario. Un’ala di cui non avevo mai sospettato l’esistenza e che non si notava dalle aule in cui Julián teneva il laboratorio. I corridoi erano lugubri. Non aveva piovuto ed erano pieni di pozzanghere. Poi scoprii che l’acqua proveniva dagli scarichi della lavanderia. Per questo era saponosa e distribuita in maniera irregolare. Dai finestroni, potei intravedere le lavatrici automatiche. Un gruppo di detenuti piegava le divise e le lenzuola e le metteva in carrelli di tela.

Arrivammo nell’area delle visite coniugali. Come se non mi avessero vessata abbastanza, prima di entrare la secondina mi perquisì di nuovo. Mi passò le mani tra le cosce, le natiche e i seni. Sembrava più una nonna dolce che una sorvegliante. Questo non evitò che mi chiedesse di abbassarmi i pantaloni e aprire le gambe. “Perché?” chiesi. “Non ti sei messa droga o banconote nella pisella?” Scossi la testa. “Sei sicura?” Annuii. “Meglio per te, bambola, perché se ti controllo e ti trovo qualcosa, non te la cavi liscia.” Il suo modo di parlare strideva con la sua aria da Sara García. “Allora controllami, se vuoi,” la sfidai. La tipa mi guardò con rabbia. “Chi ti ha autorizzato a darmi del tu?” Non volli farmi mettere in soggezione. “Do del tu a chi mi dà del tu. Io ti rispetto se tu mi rispetti.” Non disse più niente. Si girò verso il secondino. “È pulita, falla passare.”

Il secondino mi precedette passando davanti ad alcune stanze con la porta di metallo, ognuna numerata. Mi portò alla tre e aprì con una chiave. “Entra, biondina,” mi disse. “Il tuo bello arriva subito.” Entrai e cercai di chiudere la porta. Lui me lo impedì. “Naaa, biondina, non puoi chiuderla finché non arriva il ganzo. È per la tua sicurezza,” disse. “D’accordo,” replicai.

Nella stanza c’era un materasso sul pavimento. Una lampadina nuda pendeva dal soffitto schizzato di merde di mosca e c’era una finestrina tappata con un logoro pezzo di stoffa. Sul materasso c’erano un paio di coperte, una gialla con dei leoni stampati e l’altra blu con personaggi di Walt Disney. La stanza era umida e fredda. Dovevo essere pazza per essermi ficcata in un posto come quello. Pazza da rinchiudere.

Mi sedetti sul materasso ad aspettare. Non avevo con me il cellulare per distrarmi almeno giocando a Spider. Me l’avevano requisito all’ingresso. Mi misi addosso una coperta per proteggermi dal freddo. Era strano avere Topolino e Minnie che mi osservavano. Devo riconoscere che il posto era pulito. Abbastanza più impeccabile della maggior parte delle stanze dei motel che frequentavo. Le coperte odoravano di ammorbidente Suavitel e, per uno di quei rocamboleschi trucchi della memoria, mi ricordarono la mia infanzia. Bella combinazione: Disney e Suavitel pochi minuti prima di scopare con un omicida confesso.

Vidi arrivare altre due donne. Una bassina e tonda con i capelli tinti d’arancione e una magra, molto alta e muscolosa, tanto muscolosa che mi convinsi che si trattava di una transessuale. Aveva una minigonna, poco appropriata per il freddo, e lunghi peli sulle cosce. Entrarono nelle stanze di fronte alla mia e, come me, si sedettero sul materasso sul pavimento. La bassina mi sorrise e le restituii il sorriso. La donna – o l’uomo – muscolosa tirò fuori uno specchietto e cominciò a ritoccarsi il trucco. Era abbastanza femminile nei gesti e nelle espressioni. Non affettata, ma fine e delicata.

La presenza delle altre due donne mi confortò. Sicuramente saremmo uscite tutte e tre nello stesso momento. Le visite coniugali duravano un’ora, dalle undici a mezzogiorno, ma avevamo già mezz’ora di ritardo. A dire il vero, ero emozionata. Soltanto conoscere le viscere del carcere, già valeva l’esperienza. Nulla nella vita mi aveva preparata a un materasso sul pavimento, a coperte stampate e a compagne come loro due.

Da porta a porta, la donna muscolosa mi domandò: “Chi è il tuo ganzo?” Le dissi il nome. Lei spalancò la bocca con sorpresa. “Ah, tesoro, hai vinto alla lotteria. Il tuo uomo – lo dico con tutto il rispetto – m’incanta. È così maschio, così tutto.” Bastò sentirla parlare per verificare che sì, era una trans. Le restituii la domanda. “Il tuo chi è?” Nominò un certo Paco de la Fuente. Le dissi che non lo conoscevo. “Non è bello come il tuo, ma è un vero uomo. Non sai quant’è forte.” Sorrisi. Che tipo di uomo andava a letto con lei? “Mi chiamo Micaela, e tu?” Le dissi il mio nome. “Ah! Una stella marina. Che emozione.” Risi della trovata. La simpatia di Micaela era naturale e contagiosa. Doveva essere alta almeno un metro e ottantacinque. Elastica. Braccia poderose. Mandibola pronunciata. I quadricipiti marcati. I capelli crespi fino alle spalle.

Si sentirono delle voci maschili. La bassina si alzò in piedi per ricevere il marito, il primo ad arrivare. Anche lui di bassa statura, cicciottello. Entrò e chiusero la porta. Poi arrivò Paco. E sì, era molto forte. Un armadio, avrebbero detto le nonne. Un po’ più basso di Micaela. Bruno, spalle ampie, collo da toro. Poi avrei saputo che Paco era stato uno dei sicari più spietati dei narcos. Erano famosi i video in cui decapitava i membri di bande rivali. Micaela era in realtà Miguel Santibáñez, un altro sicario al quale non erano mai riusciti ad addebitare un crimine, e che quindi non era mai stato in carcere. Due sicari omosessuali che davano briglia sciolta al loro amore. Paco entrò dritto nella stanza e fece sbattere la porta quando la chiuse. Il suono metallico rimbombò per i corridoi.

José Cuauhtémoc arrivò un po’ dopo di loro. Uscii ad accoglierlo. Sorrise quando mi vide. “Finalmente,” disse e mi abbracciò. Sentirlo calmò le mie inquietudini e i miei dubbi. Mi prese per mano, mi guidò all’interno della stanza e chiuse la porta.

 

Quando la vita butta bene, quando le cose vanno una meraviglia, arriva la maledetta sorte, o come volete chiamarla – circostanze, cattive vibrazioni, sfiga, karma – a rompere i coglioni. Se a chi vive in libertà la sorte impone tremende capriole, ai detenuti fa fare dei ribaltoni da antologia. Dietro le sbarre non si può dare niente, quel che si dice niente, per scontato. La felicità è un’illusione passeggera. Non si può dimenticare che in gran parte i detenuti sono fetenti, scabbiosi, clamidiatici, vili, codardi, intriganti, felloni, bastardi figli di puttana. Prima o poi, la stronzaggine ricompare.

D’accordo, i penitenziari non erano una scuola del crimine, però propiziavano un greet and meet tra delinquenti di svariato tonnellaggio. In prigioni di secondo piano come l’Oriente, a volte capitavano tipi che conoscevano come le loro tasche i grandi affari sporchi: chi sequestrare, con quali aziende lavare la grana, le banche più facili da derubare, i posti più porosi della frontiera per far passare la roba, i gun show texani dove si trovavano le armi più a buon mercato, con quali colombiani o boliviani fare bisnes, chi gestiva le migliori puttane russe, slovacche e ucraine, quale politico copriva le spalle a chi e altre raffinatezze del genere.

Quando alcuni facinorosi uscivano dal gabbio, presuntamente riabilitati, non perdevano tempo e approfittavano della rete LinkedIn del who is who del sottomondo delinquenziale per trovare lavoro con un enorme vantaggio: dentro il penitenziario rimanevano dei compari per qualunque necessità, e questa necessità, la maggior parte delle volte, consisteva nel fare la pelle a qualcuno che stava anche lui dentro. “Senti, brader, il mio capo ha bisogno che fai fuori un tipo,” e per un po’ di soldi i ragazzi eseguivano obbedienti l’incarico.

A JC stava andando a meraviglia. La relazione con Marina, prima un po’ inceppata, adesso procedeva alla grande. Lui innamorato, lei innamorata. Il loro rapporto sulla cresta dell’onda, ma non avevano tenuto conto dei vermi. Se JC fosse stato più attento, si sarebbe accorto che gli stavano facendo la posta. Giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, un paio di figli di puttana lo sorvegliavano per cercare il momento adatto per infilzarlo. Studiavano i suoi orari, il tavolo che sceglieva a mensa, gli angoli del cortile che frequentava, la doccia che preferiva. Non agivano motu proprio. A stento sapevano chi era. Abitavano in un altro braccio, reclusi per delitti disgustosi: lo stupro e l’assassinio di bambine e adolescenti. Nell’argot carcerario erano iene, carogne, vermi, avvoltoi: la merda. Appena entrati in carcere, li avevano accolti con una mazza di scopa nel culo. “Così provano quello che hanno provato quelle bambine.” Perfino tra delinquenti esistono categorie morali. Gli assassini e stupratori di bambine vanno direttamente nel fetido pozzo della serie D criminale. Sono feccia. Su questo si fonda il loro valore: se sono capaci di oltraggiare, torturare e smembrare una bambina di nove anni, sono capaci di qualunque cosa. Assassini rozzi, psicopatici con un precario senso di colpa, si scagliano contro chiunque si trovano davanti. Non gliene fotte di niente e di nessuno.

I due tizi, il “Carne”, chiamato così perché prima faceva il macellaio, e il “Pisellino”, il cui soprannome era dovuto al suo minuscolo organo sessuale (“le ragazze che questo bastardo ha violentato pensavano che gli stava infilando il mignolo,” aveva detto un giornalista che aveva intervistato diverse vittime sopravvissute; e i detenuti l’avevano verificato quando avevano scoperto il suo minuscolo cazzo mentre gli infilavano la mazza di scopa da Detroit), erano striscianti e si dedicavano a fare lavoretti domestici ai detenuti snob per una mancetta da niente. “Carne, pulisci quel vomito che ieri ho esagerato con il rum,” oppure “Pisellino, vammi a prendere le sigarette,” e i due correvano in fretta a fare le commissioni.

La loro disponibilità e la loro obbedienza erano ben note. Sempliciotti e implacabili, docili e figli di puttana. Il “Rolex”, così chiamato perché prima che venisse rinchiuso gliene brillava al polso uno di oro rosa, gli offrì un deal. “Do cinquemila pesos a ciascuno di voi se fate fuori José Cuauhtémoc Huiztlic.” I due non avevano idea di chi si trattasse. “Il biondo ben piazzato, con i capelli lunghi,” spiegò l’orologio d’oro. Lo individuarono: era quel cazzo di gorilla sbiancato. Ucciderlo non sarebbe stato facile, nemmeno assalendolo a coltellate. Un pugno del biondo li avrebbe mandati dritti a Fantasyland. “Sono pochissimi soldi,” disse il Pisellino, “ci giochiamo la pelle e stavolta i morti possiamo essere noi.” Il Rolex scoppiò a ridere. “Non fate i cacasotto, o avete paura di lui?” Il Carne intervenne: “Naaa, paura no, solo precauzione.” “Vi do ottomila pesos e non di più.” I due farabutti accettarono. Ottomila pesos non erano un fracco di soldi, ma se facevano un lavoretto pulito avrebbero guadagnato prestigio e quotazioni alla borsa degli scimmioni ingaggiati per uccidere altri scimmioni dentro il penitenziario.

Si misero al lavoro. All’inizio seguirono JC tutti e due insieme. Il Rolex li avvertì che così davano troppo nell’occhio e che era meglio farlo separati. “Tu, il lunedì e il mercoledì, e tu, il martedì e il giovedì, e non ogni giorno per non fare accendere i semafori.” Stabiliti i turni, chi buon guadagno aspetta, non si stanca. “Perché lo vuoi uccidere?” gli domandò il Carne. Il Rolex sorrise. “A me non me ne frega niente, ma gente pesante mi ha incaricato di fargli la pelle.” Il Carne, da buon macellaio che passava il tempo a chiacchierare con le clienti, continuò a interrogarlo. “E chi è questa gente pesante?” Il Rolex abbozzò un sorriso. “Questo, caro mio, non lo saprai mai.”

 

È triste che il nostro cervello non sia in grado di immagazzinare i ricordi di ogni secondo della nostra vita. Nella memoria rimangono soltanto minutaglie. Per di più, la nostra percezione ci gioca degli scherzi. Sovrapponiamo fatti reali e immaginari e ciò che davamo per accaduto non è altro che un’invenzione. Il ricordo del nostro passato è a metà strada tra il falso e il vero.

Spesso dimentico i lineamenti di mio padre. Mi angoscio e cerco di ricostruirli, non sempre ci riesco. La sua immagine mi elude, si fa vaporosa. Dove aveva quel neo? Che odore aveva? Era mancino o no? Com’era la sua voce? Anni accanto a lui si sono ridotti al lampo di venti, trenta istanti. In gran parte vaghi, confusi, che non permettono di ricostruire il puzzle completo. I primi ricordi di lui girano intorno alla mia festa di compleanno per i quattro anni. Spuntano immagini di pignatte, facce delle amichette, un pagliaccio terrificante. Mio papà a stento lo distinguo in quella massa amorfa.

Verso gli undici anni lo evoco con più chiarezza. Mi vengono alla mente reminiscenze di un pomeriggio in cui mi portò a pattinare sul ghiaccio con le mie amiche. Si china per allacciarmi i lacci dei pattini. Gli metto fretta. Le altre sono già in pista e voglio raggiungerle. Lui si attarda ad assicurare il nodo. “Non voglio che si allenti e ti faccia cadere.” Quella frase spicca tra centinaia che mi ha detto nel corso della mia vita. Lo ritrae come un padre affettuoso e protettivo. Appena finisce di farmi il nodo, salto sullo strato di ghiaccio e scivolo verso le mie amiche. Mio padre si rialza e mi guarda con un sorriso.

Alla sua morte ero ossessionata dall’immagazzinare “momenti”. Sapendo che tendono a riversarsi nello scarico dell’oblio, tentavo di raccogliere i più puntuali: aromi, colori, trame, suoni, voci, visi, spazi. Scoprii che la memoria può ricordare con maggiore precisione se si concatenano i particolari. Uno rimanda a un altro e quest’ultimo a un altro fino a ricostruire un’immagine più diafana. Cominciai a praticare questa tecnica il giorno stesso del funerale di mio padre. Sentendomi in colpa per non essere stata con lui nei suoi ultimi mesi, cercai di recuperare, fin dove fosse stato possibile, ogni minuzia di quel passaggio finale. Mi concentrai sull’odore della terra, sull’ora esatta della prima palettata, sulle scarpe di mia madre, sul ritmo del mio respiro, sulla luce sbieca delle cinque del pomeriggio. Se avessi talento per la pittura, potrei rappresentare con esattezza il suo funerale.

Così come la morte di mio padre era stata uno spartiacque per la mia vita, ero convinta che fare l’amore con José Cuauhtémoc sarebbe stato un altro. Entrando in quella topaia non volli perdere nemmeno un dettaglio. Registrai la puzza di umidità, il lontano odore di fogna, i gemiti delle coppie nelle stanze vicine, lo stridio metallico delle porte, il rombo dei motori d’aereo che passavano in alto, lo slavato verde pistacchio delle pareti, il blu e il rosso della coperta con i personaggi Disney, il caffè e il giallo di quella con i leoni, il grigio del pavimento.

Tutto venne scombussolato quando comparve lui. Appena si stese accanto a me, il suo odore prevalse. Il suo odore, il suo maledetto odore di selvatico. Non ricordo né come né quando ci spogliammo. Avevo palpato il suo torso attraverso i vestiti nelle visite precedenti, ma nudo mi parve gigantesco, una mole in cui potevo perdermi. Pensai che, dopo anni di reclusione, sarebbe stato brusco e goffo. Al contrario, mi trattò con più dolcezza di quella di Pedro. Non si affrettò a penetrarmi. Mi abbracciò finché mi tranquillizzai. Poi, con calma, mi accarezzò la schiena e mi baciò la bocca, il collo, i seni fino ad arrivare fra le cosce. Fui io, arsa dal desiderio e dalla disperazione, a montare sopra di lui. Non so se esiste un concetto equivalente all’eiaculazione precoce nelle donne, ma il suo glande entrò e dopo due minuti ebbi un orgasmo maiuscolo. Eccitata, volevo proseguire, ma José Cuauhtémoc mi prese la testa fra le mani e mi guardò negli occhi. Rimanemmo in silenzio, senza muoverci. Mi accarezzò il viso. Mai prima, facendo l’amore con altri uomini, mi ero scambiata degli sguardi. “Piano,” disse. Cominciai a oscillare lentamente avanti e indietro. Quando cercai di accelerare, lui lo impedì fermandomi con le sue manone. “Piano,” ripeté. Continuai senza smettere di guardarci negli occhi. A metà orgasmo, José Cuauhtémoc uscì e mi tirò su verso il suo petto. “Spingi,” ordinò. Fra i tremiti, non seppi come reagire, ma appena spinsi espulsi un fiotto caldo. Non sapevo cosa fosse, se urina o altro, ma continuò a uscire. Lo inzuppai. Fili di flusso gli scivolarono lungo i pettorali. Mi prese per le natiche ed entrò di nuovo in me. Un altro orgasmo. Lo tirò fuori di nuovo e gli bagnai il torso. Ogni volta che stringevo, una sensazione di piacere. L’orgasmo divenne interminabile e finì per farsi doloroso. Non ce la feci più. Mi lasciai cadere sulla coperta con i leoni che si era completamente bagnata. Sull’addome di José Cuauhtémoc rimase una pozza. Mi annusai le dita. No, non era urina. Il famoso mito dello squirt non era un mito. “Il dorato nettare delle dee”, come lo denominavano gli antichi greci, era sgorgato nel momento e nel luogo più inattesi. Perché ora? Perché con lui?

Mi stesi al suo fianco e non gli permisi di toccarmi ancora. La pelle mi era diventata ipersensibile. A poco a poco mi ripresi. Mi resi conto che non avevamo usato il preservativo. Me ne ero portati un paio nella tasca posteriore dei jeans, ma nell’eccitazione avevo dimenticato di prenderli. Andai nel panico. Ero cresciuta in una generazione terrorizzata dall’AIDS e dalle variazioni genetiche della gonorrea e della sifilide resistenti agli antibiotici. “Sei sano?” gli chiesi. José Cuauhtémoc mi guardò, confuso. “Di cosa parli?” Indagai se aveva o aveva avuto qualche malattia venerea. Se ne fregò delle mie preoccupazioni. Senza scomporsi, mi prese per la vita e mi tirò verso di lui. Con un solo movimento mi mise a faccia in giù e mi mordicchiò il collo. Mi penetrò con delicatezza e gradualmente cominciò a infilarlo e sfilarlo con maggiore intensità. Quando sentii che stavo per venire di nuovo, s’inarcò, spinse il cazzo fino in fondo alla mia vagina e rimase fermo. Cercai di muovermi, ma mi fermò con le mani. Sentire il suo pene alla base dell’utero mi fece eccitare ancora di più. Una corrente sotterranea che mi saliva e scendeva lungo il corpo. Morsi una coperta per smorzare le mie urla. (Così pudica quando facevo l’amore con Claudio. Cercavo di non fare il minimo rumore per non farmi sentire dai bambini. Qui le mie urla si dovevano sentire fino in strada.) Il corpo mi cominciò a tremare in modo incontrollabile. Mai prima mi ero sentita così fuori di me. Rapito, José Cuauhtémoc cominciò a sbattere il pube contro le mie natiche finché non venne. Non gemette, com’erano soliti fare quelli con cui ero andata a letto prima. Dalla sua gola sgorgò un ruggito profondo e rasposo che finì per eccitarmi ancora di più.

Finimmo impregnati di fluidi, di sperma, di sudore e di qualche lacrima che versai senza accorgermene. Lui rimase disteso sopra di me. Anche se il suo peso m’impediva di respirare, mi piacque la sensazione di piccolezza sotto la sua corpulenza. Restammo così per qualche minuto finché non risuonarono dei colpi sulla porta di metallo. “È finito il tempo,” urlò una voce. José Cuauhtémoc si alzò e io rimasi distesa sul materasso a guardarlo mentre si vestiva. “Sei stupenda,” mi disse, e sorrise. Il sorvegliante bussò di nuovo. “Fuori!” José Cuauhtémoc gli rispose, seccato: “Arrivo, cazzo!” Si abbottonò i pantaloni e si chinò per darmi un bacio. “Avvolgiti nelle coperte, non voglio che questo tipo ti veda nuda.” Obbedii e mi aggrovigliai nella coperta con i leoni. José Cuauhtémoc mi diede un altro bacio e si alzò. Aprì la porta, si voltò a guardarmi, pronunciò un “grazie” e la richiuse alle sue spalle.

Rimasi sola e stordita. Sapevo tutta di lui. Mi alzai. Il suo seme mi scorse lungo la gamba destra. Ne presi con l’indice una goccia che mi scivolava sulla coscia. L’avvicinai al naso. Il suo profumo concentrato in quella goccia. Il nostro rapporto in quella goccia. Me la portai alla lingua e la assaggiai. Come un mantra cominciai a ripetere: “Non t’innamorare, non t’innamorare…” Ovvio, quando si dicono cose del genere, vuol dire che si è già innamorati fino alle orecchie.

Non me n’ero ancora andata da quel posto e cominciavo già a soffrire di nostalgia perché lo lasciavo. Avrei fatto quanto sarebbe stato in mio potere per tornarci il prima possibile.

 

La morte non arriva così, all’improvviso, arriva per accumulazione. Anni di fumo riempiono il corpo di sostanze nocive finché una cellula dice è stato bello e si trasfigura in nemica mortale delle altre. Anni a rimpinzarsi di cibi grassi tappano a poco a poco le arterie fino a farle diventare come la tangenziale con la pioggia alla sette di sera. Anni di alcol gonfiano il fegato e lo riducono come un mocio infangato. Si può sostenere che gli incidenti automobilistici non sono effetto dell’accumulazione, ma è un errore: il camion che ti ucciderà sta circolando in strada da dieci ore. Ci portiamo addosso giorno e notte la nostra morte. È la nostra seconda pelle.

Anche la condanna a morte di José Cuauhtémoc fu dovuta all’accumulazione. Iniziò nel momento in cui si diresse a casa di Esmeralda e suonò il campanello. Controllò la strada alla ricerca di sguardi indiscreti: nessuno. Nessun potenziale testimone in vista. Non si accorse degli occhi che lo guardavano dal secondo piano di una casa a sessanta metri di distanza. Se fosse stato scuro e bassino, come tanti ragazzi della zona, sarebbe stato impossibile trovarlo. Ma alto, muscoloso e biondo, la sua identità era avvolta in un pacco regalo con il fiocco e tutto il resto.

Per mesi il Macchina vagò nel deserto. Sopravvisse succhiando acqua dai nopales e mangiando fiori di palma e radici. Con abilità catturò topi di campagna e un paio di lepri. Li mangiava crudi per non accendere un fuoco e richiamare l’attenzione degli Altri-Altri, che erano decisi a riempirgli la carrozzeria di piombossidina. Lui e un altro compare che erano scampati al massacro salirono sulla sierra. E quei figli di puttana erano arrivati fin là a inseguirli. L’ordine del boss degli Altri-Altri era stato: o me li riportate morti o mi portate i loro cadaveri, scegliete. E i ragazzi avevano scelto.

Il Macchina e l’amico si nascosero nelle grotte, si seppellirono nelle tane dei coyote, tagliarono rami dagli arbusti e li intrecciarono con i vestiti per camuffarsi. Furono a un passo dall’ucciderlo. Una notte lui e l’amico si addormentarono e non si alzarono all’alba. Gli inseguitori li scorsero in lontananza quando i raggi del sole colpirono la fibbia della cintura dell’altro tizio. Capirono subito che erano loro: in montagna niente faceva quei riflessi. Spararono a mansalva. Si svegliarono sotto una tormenta di proiettili. Il Macchina si trascinò fino a un blocco di pietre e riuscì a eludere i colpi. L’altro non fu lucky luck. Due pallottole gli bucarono la pancia. Cominciò a urlare. “Aiutami, aiutami…” Il Macchina si affacciò appena e le raffiche gli fischiarono sopra la testa. “Se mi muovo beccano anche me, amico.” E sì, sarebbero stati due, i morti, se cercava di aiutarlo. Fece un tentativo di allungare la mano e tirarlo verso le rocce, ma uno sparo alla testa diede il colpo di grazia al compare.

Il Macchina indietreggiò. I proiettili cadevano accanto a lui, facendo schizzare schegge dai sassi. Tra due rupi vide la via di squagliatela-subito-da-quella-parte. Doveva attraversare trenta metri in campo aperto, non aveva altra scelta. Serpeggiò tra gli arbusti. Gli spari aumentarono, sembravano rulli di tamburo. Sentì di non farcela, e decise di rischiare. Si alzò e cominciò a correre come una gallina senza testa. Raggiunse le rupi e, senza fermarsi, corse e corse finché non ebbe più fiato e quando lo recuperò era ormai tra la terza base e home.

Per mesi vagò sulle montagne fino a quando non arrivò l’inverno. Le cose si fecero interessanti. Durante il giorno la temperatura saliva a ventotto gradi e la notte scendeva a meno sette. Era fuggito in piena estate, a quarantaquattro gradi all’ombra, e i suoi vestitini da barcaiolo di Acapulco non servivano a niente con quel freddo. Si ammalò ai polmoni. Sembravano incendiati dall’interno, come se gli avessero iniettato della benzina e poi le avessero dato fuoco. La febbre lo fece delirare. Immaginava mostri che lo inseguivano. Sonnambulo, correva nell’oscurità per fuggire da loro. La mattina si svegliava pieno di graffi e con i vestiti lacerati come se un puma avesse cercato di scoparselo.

Tossiva sangue. Lasciava sputacchi scarlatti sui nopales. Sangue rossissimo, fresco. Quando finalmente superava le polmoniti, lo assillava la diarrea. La tifoidea e la dissenteria gli divorarono le pareti intestinali. Defecava meduse sanguinolente. Non si diede per vinto. Doveva tornare dalla sua cicciottella deliziosa. Stendersi sul suo grembo e farsi accarezzare e curare le ferite. Lei era la sua luce. Il suo unico motivo per sopravvivere.

A volte scendeva dalla sierra nei villaggi. Aspettava che facesse buio. Rubava il cibo a gente che quasi non ne aveva. Un paio di tortilla, formaggio di capra, uova. Li prendeva e, come l’animale che era diventato, tornava sulla montagna, dove s’ingozzava per ingannare la fame. Non si fece vedere dalla gente. Se gli Altri-Altri lo beccavano, l’ammazzavano in fa maggiore. Lo conoscevano bene, gli schifosi. Cazzo, perché non se n’era stato più schiscio quando lavorava per i Quinos? Manco per il cazzo. Aveva voluto essere il man di fiducia di don Joaquín, quello che gli faceva il lavoro sporco, quello che uccideva senza pensarci su, quello che sistemava le macchine alla grande. Maledisse la sua voglia di essere l’employee-of-the-year. Se avesse volato basso, adesso sarebbe stato spaparanzato su un divano come un pascià con una birra in mano a guardare una partita dell’América. Col cazzo. La storia di essere una star dei narcos era stata bella finché non gli era toccata quell’acchiapparella. Bastava che qualcuno in un villaggio, in una fattoria o su una sterrata dicesse: “Abbiamo visto un tipo così e così,” perché i suoi inseguitori ne concludessero: “Dev’essere quel bastardo del Macchina, dove l’avete visto?” e una volta avute le indicazioni, gli Altri-Altri non si sarebbero fermati finché non l’avessero fatto fuori.

Brutti figli di puttana. Quando loro facevano i lavamacchine e pulivano i parabrezza, i Quinos gli avevano dato lavoro e li avevano tirati fuori dalla merda. Le cose andavano bene. I soldati distratti che aiutavano la popolazione nelle inondazioni. La migra gringa, allineata con il cartello. Tutto in pace, tranquillo. Megacool. Ma dovevano arrivare quei castrosi degli Altri-Altri. Avevano comprato la polizia, distratto l’esercito e raddoppiato il pizzo a quelli della border patrol. Gli scalzacani del cazzo si erano ribellati ai Quinos e si erano arruolati con gli altri bastardi. I boss degli Altri-Altri gli avevano dato dei lavori più fichi. Gli scalzacani si erano ringalluzziti con il potere appena acquisito. Siccome venivano dal basso, avevano preso in odio i Quinos in alto. Invidiavano le loro macchine, i loro kalashnikov, le loro gnocche. Dato che il Macchina era tra quelli che si trovavano al di sopra della media, gli scalzacani ce l’avevano con lui. “Quel bastardo ci trattava una merda,” ricordavano. I pulciosi non l’avrebbero lasciato tranquillo. Non gli avrebbero dato tregua finché non l’avessero riempito di piombo e appeso il suo cadavere a un albero per scattargli una foto con il cellulare e mandarla ai boss via uotsapp con un messaggio: “Fatto fuori il figlio di puttana.”

Il Macchina andò fuggendo di qui e di là. Qualunque rumore lo faceva sussultare. Perfino il fischio degli agutí lo faceva gettare a terra. Tutto gli suonava nemico. Lo consumava la voglia di sedersi a mangiare a tavola per assomigliare di nuovo a un essere umano. Dopo aver girovagato per i monti qualche altro mese, arrivò al Río Bravo, verso Boquillas del Carmen. Attraversò il fiume, che in inverno era ridotto a un filino d’acqua, e si addentrò in territorio texano. Riuscì a evitare le pattuglie alla frontiera e le orde di turisti che visitavano il parco nazionale del Big Bend. Intirizzito e affamato, con i vestiti che gli sfarfallavano a brandelli, le scarpe con la suola staccata e camminando soltanto di notte, arrivò ad Alpine. Così abituato a essere un animale, si cibò soltanto di quello che recuperava dai cassonetti. Tamales mordicchiati, pacchetti di prosciutto putrefatto, banane annerite, pomodori schiacciati, barrette di cioccolato ammuffite. Anche se sapeva di essere in territorio gringo, continuò a stare all’erta. Degli Altri-Altri non bisognava fidarsi, erano capaci di inseguirlo fino a lì.

Una notte riuscì a salire su un treno merci diretto a est e gattonò sui vagoni fino ad arrivare a uno che trasportava sacchi di mais. Cullato dal dondolio, finalmente, dopo mesi, riuscì a dormire più di dodici ore filate. Sentì il treno che frenava e si svegliò rincoglionito senza sapere dove si trovava. Il Macchina lesse un cartello: Rocksprings. La conosceva bene. Quando da ragazzino aveva passato illegalmente la frontiera, aveva lavorato al Baker Ranch incitando vacche Longhorn.

Appena il treno diminuì la velocità, il Macchina saltò giù. I facching bastardi della migra, ragazzi messicani il cui unico merito per avere la cittadinanza gringa era stato nascere in miseri ospedali dal lato americano, sapevano che nei treni gli illegali viaggiavano a sbafo. Branchi di border patrol, il Macchina lo sapeva, avevano uno stipendio dai narcos e, se lo beccavano, sicuro che lo consegnavano agli Altri-Altri.

Saltò e si nascose nel querceto. Acquattato, vide i clandestini saltare giù fuori tempo dai vagoni. Non meno di dieci rotolarono nella polvere. Gli stupidi non sapevano che bisognava correre nella direzione in cui procedeva il treno. Acciaccati e pieni di spine, i migranti fuggirono verso le montagne. Errore. I border lo sapevano e li aspettavano con i cani, i pick-up e tutto l’ambaradan.

Il Macchina non si mosse finché non fece buio. Quando fu sicuro che la migra se l’era squagliata, andò verso il paese. Ricordò un negozio in cui lavorava un brader suo. Il tizio era sempre là, dietro il banco, adesso brizzolato e panzone. Si riconobbero e si abbracciarono. Il ciccione non sapeva delle peripezie narco del Macchina. Quando avevano smesso di vedersi, il Macchina si atteggiava ancora a bovaro. Il ciccione, chiamato Segismundo, gli disse che gli avrebbe trovato lavoro in una delle fattorie della regione. Lì nelle fattorie, la migra non rompeva e lui poteva stare tranquillo.

Il Macchina gli chiese in prestito il cellulare. Era ansioso di sapere del suo grande amore, Esmeralda. Temeva che l’avessero fatta fuori per rappresaglia. Il telefono squillò varie volte finché rispose una voce femminile. Il Macchina chiese di sua moglie. La signora gli spiegò che Esmeralda aveva difficoltà a parlare perché le avevano mozzato la lingua. “La capirà poco,” lo avvertì. Tutto nervi, il Macchina andò su e giù mentre la sua bonazza gli rispondeva. Dall’altro capo della linea, sentì dei balbettii da primate. Rimase in silenzio ad ascoltarla senza capire una sega. Ogni tartaglio di Esmeralda alimentò la sua rabbia. Avrebbe squartato vivo chiunque le aveva fatto del male. “Presto verrò a trovarti,” le disse. Le raccontò dov’era stato e giurò che non l’avrebbe mai più lasciata sola. Riattaccarono e per la prima volta da quand’era bambino, forse per la stanchezza, forse per la sua condizione di animale selvatico, scoppiò a piangere.