Trecento volte
Trecento volte ti ho chiesto di non farlo e trecento volte te ne sei fregata. Trecento volte ti ho supplicata di smetterla con le tue civetterie e te ne sei fregata. Trecento volte ti ho detto di non vederlo e trecento volte te ne sei fregata. Trecento volte sei sparita con lui e te ne sei fregata. Trecento volte e non hai ascoltato. Trecento sono tante. Sono davvero tante. Ma te ne sei fregata.
Per questo ho dovuto darti trecento pugnalate. Perché capissi una buona volta quello che provavo quando non mi davi retta, quando ti pregavo che non continuassi più ad andare con lui, che morivo ogni volta che te lo vedevo fare. Non ho fatto altro che affondare il coltello dentro di te le stesse volte che l’hai affondato tu dentro di me.
Trecento coltellate, amore mio, che hanno finito per far male più a me che a te.
Juan de Dios Rebolledo Martínez
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Condanna: trentacinque anni per femminicidio
Quando mi svegliai, trovai un messaggio su WhatsApp: “Ci vediamo a pranzo alle tre a Le Cuisine.” Morales sapeva che ero così in suo potere che non mi aveva nemmeno chiesto se potevo incontrarlo o no. Pedro mi aveva avvertita: “Dagli corda.” Prima o poi avrebbe trovato una via d’uscita. O, almeno, era quella la mia speranza.
Le Cuisine era uno dei ristoranti preferiti di Claudio. Vicino al suo ufficio, lui e i suoi colleghi di lavoro lo frequentavano spesso. Panchito doveva saperlo. Un tipo della sua risma non mi dava appuntamento lì per una semplice coincidenza. Gli risposi con un “potremmo vederci in un altro posto?” a cui lui replicò con un deciso “no. Ti aspetto lì.” Stronzo bastardo. Dice bene il detto: “L’informazione è potere,” e lui aveva tonnellate di informazioni su di me.
Mi rassegnai ad andarci. Quella mattina, presto, Claudio era partito per Monterrey e, almeno, non l’avrei incrociato. Quando gli parlai, più tardi, lo avvisai che avrei pranzato da Le Cuisine con Pedro, Julián e dei dirigenti del penitenziario. Bonaccione com’era, mi raccomandò di ordinare le escargots al tartufo. Non mi chiese nemmeno chi altro ci sarebbe stato.
Sarei andata all’incontro con Morales con un vestito più semplice e meno attraente possibile. Se avessi potuto, mi sarei travestita da pupazzo pubblicitario della catena El Pollo Loco. Non mi sarei lavata per trasformarmi in una donna puzzolente e ripugnante. Dopo colazione, di proposito non mi lavai i denti con la speranza che i batteri mi fornissero un’alitosi da paura. La mia conversazione sarebbe stata banale e piatta, senza alcuna traccia di seduttività. Anche se questo doveva importare poco a Morales. Era interessato al mio culo, non al mio eloquio.
Le Cuisine era un locale ridicolmente caro. Un posto da power lunch e da leziosaggine molto boriosa, di quelli che ancora richiedono ai commensali di indossare giacca e cravatta, con camerieri in uniforme, piatti di Limoges, posate di Christofle, bicchieri di Saint Louis, tovaglie di lino importate da Bruges. Si trovava nella zona finanziaria di Reforma e il proprietario, si diceva, era il leader del sindacato dei lavoratori del petrolio. La classe operaia al servizio delle migliori cause.
Fui tentata di chiamare Julián per raccontargli dell’“invito” di Morales. Ero sicura che, al contrario di Pedro, mi avrebbe detto di non andare. Non potevo aprire una finestra sulla tana del lupo. Pancho avrebbe fiutato la mia paura e senza esitazioni avrebbe dato il primo di decine di morsi. Non avrebbe mollato finché non mi avesse spremuta sessualmente e, magari, economicamente. Perché ero convinta che nulla lo avrebbe soddisfatto. Dovevo manovrare meglio che potevo. Era tempo di entrare nel Messico selvaggio travestito da ristorante di lusso.
Arrivai all’appuntamento con dieci minuti di ritardo. Non volevo arrivare prima, sedermi da sola ed essere sottoposta allo scrutinio dei presenti. All’addetta alla reception annunciai che andavo al tavolo del dottor Morales. “Ah? Don Francisco. Da questa parte, prego.” Pessimo segnale.
Attraversammo il ristorante fino a un tavolo sul fondo. Camminai preoccupandomi di non incrociare qualche conoscente di Claudio. Se qualcuno m’intercettava, dovevo essere più secca possibile: “Scusa, mi stanno aspettando. Piacere di averti incontrato.” Quando mi vide, Pancho si alzò per ricevermi. “Ecco la sua ospite, don Francisco,” disse l’addetta alla reception. Morales ringraziò con un leggero cenno della testa. Allungai la mano da lontano per stringergliela ed evitare così qualunque tentativo di saluto con un bacio. Mi offrì di sedermi al suo fianco, ma mi sistemai di fronte a lui, di spalle agli altri. Il tavolo era in un angolo, con una prospettiva privilegiata della sala, ma non volevo essere in vista, specie essendo sicura che Morales avrebbe tentato di accarezzarmi la mano o, peggio, accennare a baciarmi.
Su un lato del tavolo c’era una bottiglia di champagne dentro un secchiello con il ghiaccio. “La tengo in freddo per festeggiare il nostro incontro,” disse. Quanto sono dozzinali gli uomini quando vogliono dimostrare il potere del loro portafoglio. “Mi fa venire il mal di testa,” mentii, perché in realtà lo champagne mi piace da morire e tanto più il Krug Vintage Brut 2000 che giaceva sopra i cubetti. Se volevo berlo, meglio pagarmelo quando mi andava e non cadere nella trappola di quel bastardo di Morales per farmi ubriacare.
“È un piacere che tu abbia accettato di venire,” disse lui, cinico. Fui sul punto di rispondergli: “Non credo che avessi alternative,” ma risposi con un sorriso il più glaciale possibile. Dal mio sorriso falso e dal mio atteggiamento ipocrita dipendevano il mio futuro e quello di José Cuauhtémoc. Ma dovevo anche essere molto chiara e resistere alle sue insinuazioni.
Si vedeva che ogni movimento di Morales era artificiale, simulato. Se in Héctor e Pedro il buon gusto era connaturato per educazione e, perché non dirlo, per boria classista, quello di Morales era con ogni evidenza una rozza imitazione. Era così che succedeva di solito con i politici che arrivavano in cima. Si avvertiva che i loro modi erano finti, i loro interessi culturali appresi soltanto per impressionare, non per un genuino appetito. Morales si mostrava come un uomo di mondo, colto, mentre le sue conoscenze sembravano piuttosto prese da Wikipedia.
Non smise di tirare in ballo il “mio grande amico Lucien”. Sono convinta che, se l’avessi chiamato al telefono, Lucien a stento se ne sarebbe ricordato. Morales, da buon politico, aveva un’ottima memoria. Lo dimostrò quando un paio di adulatori vennero al tavolo per salutarlo. Chiese loro della moglie e dei figli chiamandoli per nome, e sapeva con esattezza l’ultima volta in cui li aveva visti. I tizi se ne andarono contenti che qualcuno così importante ricordasse tanti particolari su di loro.
Dopo un elenco della quantità di balletti a cui aveva assistito nel corso della vita nei diversi paesi in cui era stato ambasciatore, mi azzardai a chiedergli, pur conoscendo già la risposta, qual era lo scopo del nostro incontro. “Voglio che tu mi conosca, Marina,” disse mentre attaccava un soufflé al cioccolato. “Mi interessa una relazione con te, lo sai benissimo, e che ti allontani una volta per tutte da quell’animale.” Animale? Sono sicura che José Cuauhtémoc avrebbe accolto l’epiteto come una medaglia al valore. “A cosa si riferisce con relazione?” domandai. Durante il pranzo mi aveva chiesto più volte di dargli del tu. Lo evitai. Non potevo aprirgli il minimo spiraglio. “Sei una ragazza di buona società, di buona famiglia, di classe. Bella, colta, cos’altro posso chiedere?” A bruciapelo gli domandai fino a dove volesse arrivare con me. “Fin dove si può,” rispose. “Passare notti insieme, viaggiare, vederci spesso. Un’amicizia intima, senza complicazioni. Vedrai che sono molto meglio dell’assassino con cui ti rivoltoli nelle topaie del carcere.” Che maniera edulcorata di dirmi “voglio che tu sia la mia puttana e scoparti quando ne ho voglia.” “Va un po’ troppo in fretta, non crede?” gli dissi. Sorrise. “Approfittane per cambiare la tua vita, con me o senza di me,” sentenziò. “Credimi, ci intenderemo. This is meant to be.” Fui sul punto di scoppiare a ridere. Sulle sua labbra, l’inglese suonava assurdo. Né il completo di Savile Row, né i gemelli d’oro, né l’orologio da centinaia di migliaia di dollari gli compravano un millimetro di classe. “Non giriamoci più intorno, cara. La chimica tra di noi è più che ovvia. Ho un appartamento in questo stesso palazzo. Perché non ci andiamo così chiacchieriamo più tranquilli?” L’unica cosa che riuscii a chiedergli fu: “È sposato?” Sorrise di nuovo. “Come te, Marina. Ma importa davvero?”
Ai suoi occhi, una donna della mia posizione sociale che andava a letto con un detenuto doveva essere una tipa facile, pronta a scopare con chiunque incontrasse. Sì, dovevano pensarlo lui e altri cinquanta milioni di uomini. Io stessa non so come avrei giudicato un’amica nella mia stessa situazione. Meno che pazza, sicuramente no. Dovevo lottare contro lo stereotipo. “Tutto a suo tempo,” gli dissi per schivarlo.
Quando ci accomiatammo, Pancho mi prese la mano e mi guardò negli occhi. “Ci andrà a meraviglia, vedrai.” Sorrisi con lo stesso sorriso falso di tutto il pranzo. “Vedremo,” gli risposi. “Spero che sia andata bene a Claudio a Monterrey con i Dos Santos. Incredibile la suite che ha preso al Quinta Real. La 102, la suite del Viceré. Ci sono stato diverse volte. Bella scelta.” La rabbia cominciò a ribollirmi dentro. “Guardi, dottore. Non mi piace la sensazione di essere spiata e tanto meno che coinvolga mio marito in questa storia.” Lo sguardo di Morales si fece duro. “Marina, più in fretta ci capiamo, meglio è.” Le agenzie di intelligence della nazione al servizio di un molestatore sessuale. Decine di capi del narcotraffico in giro per il paese e le spie del governo occupate a stalkerarmi. Mi risparmiai i commenti. “Per favore, non coinvolga nemmeno José Cuauhtémoc,” gli chiesi. “Non preoccuparti. Domani ceniamo da Di Paolo, alle venti e trenta. E vieni vestita meglio. I tuoi stracci non sono adatti a posti così di classe. Buon pomeriggio, cara.” Si voltò e andò via in fretta. Lungo il percorso, un cliente si alzò per salutarlo. Ne approfittai per svignarmela alle sue spalle e uscii dal ristorante senza voltarmi indietro.
Ceferino, quanto ti piaceva inveire contro gli psicologi e contro qualunque tipo di terapia psicologica. “Senza nevrosi non si va avanti,” ci dicevi, “ci vogliono anni per adattarci alle condizioni più sfavorevoli e poi un piazzista ci toglie gli strumenti con cui ci siamo riusciti. Non cadete mai nella trappola.” Ci piaceva vedere come José Carrasco, il tuo amico psicanalista, ti ribatteva: “Smettila di dire stupidaggini, Ceferino. Si tratta di liberarti dai pesi che t’impediscono di progredire.” Negavi con veemenza. “Questo succede soltanto ai deboli. Noi forti usiamo quel peso per tirare avanti.”
Rispettavi Carrasco, formato alla scuola junghiana. Lo ricordo che polemizzava con te in salotto per ore. Si notava un’ammirazione reciproca. Con altri perdevi in fretta la pazienza ed eri intollerante con quelli che consideravi “menti minori”, incurante se si trattava di storici famosi, scrittori di successo o politici di alto livello. Ah, Ceferino, come godevo del modo in cui li demolivi. Sulla tribuna eri ancora più feroce. Non fosse mai che una di quelle menti limitate osasse metterti in discussione. Le distruggevi con contundenza e senza riguardi. Le tue imprecazioni erano così brutali che demolisti la reputazione intellettuale di diverse persone.
Per noi, Carrasco era come uno zio vicino e amato. Bonaccione, dalla risata contagiosa, bohémien e allo stesso tempo un intellettuale rigoroso. Implacabile quando si trattava di confrontare punti di vista. Quando veniva a casa, io godevo della sua presenza. Ci abbracciava e ci viziava. Immancabilmente, quando viaggiava, portava un regalo a ciascuno di noi.
Mi stupiva la combinazione di razze e culture dalle quali proveniva. Un pomeriggio raccontò a José Cuauhtémoc e a me i particolari del suo albero genealogico. Pronipote di cantonesi arrivati come operai alla fine del diciannovesimo secolo per costruire la ferrovia. Bisnonno aragonese sposato con un’ebrea siriana. Bisnonno materno tarahumara sposato con una nera americana il cui padre era stato linciato in Alabama. Una volta, quando andammo al castello di Chapultepec, ci mostrasti i quadri di casta dipinti da artisti anonimi del diciassettesimo secolo. “Questi sono gli antenati di Carrasco,” dicesti sarcastico. Termini come “ lobo”, “tornatrás” o “tentenelaire”, tutti riferiti a vari risultati di incroci “razziali”, si potevano applicare all’intera sua stirpe. Tu, l’indigeno discendente diretto di coloro che avevano attraversato lo stretto di Bering, contro la mistura etnica che era Carrasco. Quando gli rivelammo ciò che avevi detto di lui, si prese in giro da solo. “Sono un cane randagio, incrocio di un chihuahua con un mastino, con un po’ di dobermann spruzzato di maltese.” E poi ne approfittò per prendersi gioco di te. “Invece vostro padre è tale e quale a uno xoloitzcuintle, un cane nudo messicano. Rapato, brutto, con il cuore e pochi peli, però ritti.”
Come te, era ossessionato dalla storia. Tu, un esperto di popoli originari; lui, di grandi migrazioni. Tu studiavi le razze che si mantenevano imperturbabili, lui, i misteri racchiusi negli esili di chi era fuggito dalla tragedia e dalla miseria. Lui tirava fuori il meglio di te. Ti spingeva a essere più preciso nelle tue posizioni teoriche, ad affinare il tuo approccio. Era un uomo in perpetua calma. Sorrideva alla minima provocazione e tendeva alla generosità. Non riuscì ad avvertire il mostro che eri. Se avesse saputo dei tuoi maltrattamenti nei nostri confronti avrebbe smesso di parlarti. Come quella volta che scoprì l’occhio viola di Citlalli, appena una bambina di dieci anni, a cui avevi dato un ceffone perché aveva lasciato una bambola sulle scale e ti aveva fatto inciampare sui gradini. Nella versione ufficiale che gli fornimmo, era stata Citlalli a cadere per le scale e il livido era dovuto al colpo contro la ringhiera.
Non era necessario che ci dessi istruzioni su cosa potevamo o non potevamo dire. Già in maniera naturale negavamo quanto accaduto. Avevamo un pulsante automatico che ci faceva cambiare il racconto dei fatti. Dentro di noi abitava un piccolo Goebbels che ci dettava il modo più appropriato di rielaborare la verità per mantenere incolume la tua aureola di grand’uomo. Eravamo i tuoi addetti alle pubbliche relazioni. Tre bambini e una donna pieni di lividi che promulgavano le tue virtù e negavano la belva che ricompariva non appena i tuoi amici uscivano di casa. Carrasco morì con l’impressione erronea che fossimo una famiglia felice e in armonia.
Malgrado il suo dottorato in antropologia e nonostante fosse stata l’allieva prediletta di Joseph Campbell, ti confesso che la moglie di Carrasco mi sembrava un po’ stupida. Tu lo imputavi al suo cattivo spagnolo e al suo precario inglese. Secondo lui, si era innamorato di lei perché era brillante ed erudita. Credo, piuttosto, che lo avesse attratto il suo meticciato: figlia di padre magiaro e madre tunisina, perché non la sentii mai dire nulla di minimamente interessante. Ancora oggi penso che la sposò per perpetuare l’esotica mescolanza di etnie dalla quale lui proveniva.
I suoi figli lo dimostravano. La figlia maggiore poteva passare per beduina; il figlio mediano, per un calciatore svedese, e la minore, per una mulatta caraibica. Erano rumorosi e allegri, immagino contagiati dalla bonomia del padre. A noi tre sorprendeva la loro personalità aperta e chiacchierona. Non avevano l’aria taciturna di Citlalli, né la mia insicurezza, né gli occhi torvi di José Cuauhtémoc. C’era in loro un alone luminoso che contrastava con il nostro carattere freddo. A una domanda, rispondevano spediti e con spontaneità. Noi ci giravamo a guardarti un paio di volte prima di rispondere. “Che bambini educati,” commentava la moglie idiota di Carrasco. Se quella stupida fosse stata intelligente, come assicurava suo marito, si sarebbe accorta che tu non ci avevi educati, ma addomesticati. Piccoli animali da compagnia addestrati a compiacere il loro padrone.
Per quanto abbia amato Carrasco, non gli perdono che non si sia reso conto delle ammaccature che ci coprivano il corpo, dei nostri modi impacciati, dei nostri sguardi ombrosi, delle nostre risposte a monosillabi. Lui era l’unica speranza che qualcuno ci salvasse. O non lo notò mai o, se lo fece, preferì chiudere un occhio. Opto per la prima ipotesi. Benevolo, era privo di malizia per leggere fra le righe. Fummo naufraghi su un’isola sperduta e remota che, vedendo passare una nave sulla riva, saltammo e chiedemmo aiuto, però nessuno a bordo sentì le nostre grida.
Ricordo con vivezza quella sera di domenica in cui il telefono di casa squillò. Un amico ti avvisò che Carrasco, la moglie e i tre figli erano morti travolti da un camion che non si era fermato a un semaforo. Per l’unica volta nella mia vita, ti vidi abbattuto e sull’orlo delle lacrime. Ti sedesti su una poltrona e scuotesti la testa come non potendoci credere. “Non può essere, non può essere…” ripetesti. La tua insolita amicizia finì di colpo per la distrazione di un autista di appena diciannove anni. Quando ci annunciasti la morte di Carrasco e della sua famiglia, a noi figli fu chiaro che si era chiusa anche la nostra ultima via di fuga.
Il giorno dopo non andai al laboratorio letterario. Scrissi un bigliettino a José Cuauhtémoc e chiesi a Pedro di consegnarglielo.
Il direttore del carcere mi ha proibito di vederti, con la minaccia che, se lo facessi, ti confinerebbe in isolamento, e non voglio mettere a rischio nemmeno per un secondo la tua integrità fisica. Ti spiegherò quando ci vedremo. Ti amo.
Per tutta la mattina non smisi di pensare a lui. Ricordai i suoi baci, le sue carezze, il suo odore, il suo maledetto e affascinante odore. La sua intelligenza, la sua passione, la sua forza. Impensabile scambiarlo con uno come Morales. Impensabile con nessun altro. Amavo lui e soltanto lui. Desideravo José Cuauhtémoc nella mia vita fin dove fosse possibile.
Aspettai che Pedro e Julián uscissero dal laboratorio per chiamarli. Volevo sapere cosa gli aveva detto José Cuauhtémoc del mio biglietto. Per distrarmi, tentai di abbozzare qualche evoluzione della nuova coreografia. Inutile, mi schiacciava l’immagine di José Cuauhtémoc. Finalmente arrivò mezzogiorno e chiamai Pedro. Niente. Scattò la segreteria. “Per favore, chiamami appena senti questo messaggio.” Alle 12.03 e alle 12.05 chiamai di nuovo, con lo stesso risultato. Provai ancora alle 12.06, 12.07, 12.09 e 12.13. Ogni telefonata a vuoto mi provocava ulteriore angoscia. “No news, good news,” dicono sempre gli inglesi. In questo caso, no news suonava come se José Cuauhtémoc fosse seccato con me.
Chiamai al cellulare di Julián e a quello di Pedro alle 12.18, 12.21, 12.24, 12.27 e mi diedi per vinta alle 12.55. Dove si erano cacciati? Le lezione terminava alle 11.30. Per regolamento, non ci consentivano di rimanere più di quindici minuti dopo la fine ed eravamo obbligati a lasciare il penitenziario al massimo alle dodici. Perché non erano ancora usciti?
Finalmente il mio telefono squillò alle 13.58, quasi due ore dopo la loro presunta uscita. “Che è successo? Perché non mi chiamavi?” apostrofai Julián. “Non ho potuto dare il tuo biglietto a José Cuauhtémoc,” mi disse inaspettatamente. “L’hanno portato nel cubicolo.” Il cubicolo, mi spiegò, era una minuscola cella in cui mettevano i detenuti in isolamento. Così piccola che un tipo di un metro e trenta non ci sarebbe entrato disteso, tanto meno uno grosso come José Cuauhtémoc. Spazi clandestini, nascosti nelle viscere della prigione per non essere scoperti dai supervisori dei diritti umani. Celle di punizione inumane, in grado di far impazzire qualcuno dopo due soli giorni di reclusione. “Perché l’hanno fatto?” gli domandai. “Abbiamo cercato di parlare con Morales, ma dopo averci fatto aspettare un’ora e mezza, ci ha mandato a dire che tu sapevi il perché.” Figlio di quella gran puttana di sua madre, Morales. Ma se mi ero comportata bene con lui… “Inoltre, Morales assicura che prima o poi gliene sarai grata e di non preoccuparti, perché il tuo ‘fidanzatino’ può resistere lì dentro per un paio di settimane.” Maledetto Pancho, è già tanto sopportare un solo giorno di carcere. Non parliamo della claustrofobia del cubicolo.
Era ingenuo pensare che, pregandolo, Pancho avrebbe liberato José Cuauhtémoc. Averlo messo in isolamento implicava strategie da sequestratore: trattenere un essere umano in cambio di un beneficio economico o sessuale. Così dovevo visualizzare Morales da quel momento in avanti, come un sequestratore con cui bisognava negoziare. Per colmo, poteva contare su un arsenale di prove della mia infedeltà. Se non gli funzionava una cosa, gliene funzionava un’altra.
Julián e Pedro decisero di pranzare con me. Mi avrebbero fatto compagnia fino alle otto e mezza, quando sarei stata costretta a rivedere quell’imbecille di Francisco Morales. Tanto per cambiare, ci vedemmo al San Ángel Inn. Raccontai loro a grandi linee come andavano le cose. Julián mi chiese di non abbattermi. “Non sottovalutare la capacità di resistenza di José Cuauhtémoc. È più forte di quanto credi.” Non si trattava di forza. In quel minuscolo pozzo si sarebbe lesionato le articolazioni, le ossa, i legamenti. E per di più, il colpo psicologico. Passare notte e giorno in completa oscurità doveva essere terribile, un’infallibile strada verso la follia.
“Possiamo fare poco per liberarlo,” assicurò Pedro quando li feci partecipi di ciò che provavo. Pancho Morales era un uomo vicino alla camarilla del presidente e godeva della protezione della classe politica. “Gli offro dei soldi?” chiesi in un’ulteriore dimostrazione della mia stupida ingenuità. Julián scosse la testa in segno di disapprovazione: sì, ero stupida. “Dovresti impegnare tutti i tuoi beni per offrirgli qualcosa che possa minimamente tentarlo, e non basterebbe. Dopo un paio di settimane tornerebbe a ricattarti. Per tipi come lui non è mai abbastanza.”
“Conosco qualcuno che forse ci può aiutare,” disse Pedro. “È uno con molti agganci. Se chiedo il suo aiuto, Marina, dovrò dirgli di te e di José Cuauhtémoc.” A quel punto, l’unica cosa che m’interessava era tirare fuori José Cuauhtémoc da quel cazzo di buco e liberarmi dalla piaga di Morales. “Cerca solo di non dirgli il mio cognome, per favore,” gli chiesi.
Alle sei, Pedro pagò il conto e si girò verso Julián. “Andiamo? Abbiamo la riunione alla galleria.” Julián non fece il minimo sforzo per alzarsi. “Se non ti dispiace, mi farebbe piacere restare a parlare con Marina.” “D’accordo, ci vediamo dopo.” Ci salutò e se ne andò. Incrociai le dita sperando che Julián non mi travolgesse con una tempesta moralista. Non l’avrei sopportato. “Ti ammiro, sai?” disse appena Pedro si perse tra i tavoli. Mi sorprese. “Be’, visto il casino in cui mi sono infilata non credo che ci sia molto da ammirare,” gli risposi. “È proprio per quel casino che ti ammiro.” Fece una pausa e chiamò il cameriere. “Maestro, porti due mezcal,” ordinò. Io non volevo bere. Volevo arrivare sobria all’incontro con Morales. Però un mezcalito per rilassarmi non era male.
Parlammo dei miei figli, di Claudio, dell’architetto che aveva ristrutturato Danzamantes. Mi confessò il suo interesse per le farfalle, derivato dall’ammirazione che gli suscitava Nabokov. Mi raccontò che il russo era stato un appassionato entomologo, con una collezione di lepidotteri acquisita durante anni di caccia con la rete. Nabokov aveva preso così sul serio la sua passione che aveva scoperto circa venti specie e aveva aiutato a classificarne un’altra dozzina. Fu così apprezzato dai suoi colleghi che classificarono con il suo cognome due specie appena scoperte: la Eupithecia nabokovi e la Nabokovia cuzquenha. Julián ne aveva collezionate circa trecento diverse e sperava che qualche specie portasse il suo nome.
Mi raccontò di un poeta francese poco noto: Jean Follain. “Faceva il giudice, ma la sua vita era la poesia. Molto apprezzato nella cerchia letteraria. È morto investito in un vicolo. Una morte poetica, indubbiamente,” disse. Mi recitò una sua poesia, che secondo lui poteva riflettere la mia relazione con José Cuauhtémoc:
Non sempre è facile
affrontare l’animale
anche se ti guarda
senza paura o odio.
Lo fa fissamente
e sembra disprezzare
il sottile segreto
che porta con sé.
La conversazione con Julián mi rilassò, tanto più perché ci scolammo un bel po’ di mezcal. Al sesto, ero ormai completamente ubriaca. Balbettavo cose incoerenti e quando volli alzarmi per andare in bagno, quasi caddi a faccia in giù. Questo non m’impedì di bermi un settimo e un ottavo mezcal. Se non mi addormentai sul tavolo fu perché la chiacchierata era piacevole. “Così ubriaca,” gli dissi, “quel bastardo di Pancho mi catturerà come Nabokov catturava le farfalle.” Julián sorrise. “Vieni con me,” disse. Mi portò nei giardini sul retro del locale, che a quell’ora erano deserti. Vacillante per l’alcol, a stento riuscii a seguirlo. Andammo fin sul fondo e ci mettemmo dietro il tronco di un robusto albero. Julián tirò fuori una bustina e si sparse una polverina bianca sul palmo della mano. “Questa ti aiuterà ad affrontare quel pagliaccio,” disse. Per tutta la vita avevo evitato la cocaina. Avevo paura di diventarne dipendente. “No, io non lo faccio,” gli dissi tra le brume della sbronza. “Non ti sei mai fatta di coca?” Scossi la testa. “Hai due possibilità: o ti fai una sniffata o dai buca a Panchito.”
Il Pisellino e il Carne si avviarono verso José Cuauhtémoc, sotto gli occhi di altri tipi che stavano facendo la doccia. Nudi e bagnati, attaccarono dai fianchi. Il biondo li sgamò con la coda dell’occhio e si appiccicò al muro per proteggersi le spalle. Il Pisellino, più impulsivo, arrivò per primo e si lanciò a colpirlo sul lato sinistro delle costole. Con una flessione, JC eluse l’assalto per un pelo.
Gli scagnozzi sferrarono coltellate, una dopo l’altra. JC smanacciò per schivarle. Il Carne riuscì ad arpionarlo all’addome. Sgorgò del sangue e l’acqua della doccia si tinse di rosso. Il Pisellino si avvicinò per dargli il colpo di grazia, ma calcolò male le distanze e JC lo fermò con un destro. Il Pisellino crollò sulle piastrelle come un cartone di uova. Vedendo il suo compare con il muso che gorgogliava rosso, il Carne ripartì alla carica, con ancora più vigore. Era così concentrato a sferrare coltellate che non si accorse del tipo che, armato di un tubo, gli arrivava alle spalle. Una botta in testa mandò il Carne a fare compagnia all’amico. Sembravano così carini, quei due tutti nudi sotto il getto della doccia. Il man si voltò verso di loro e cominciò a riempirli di mazzate con il tubo.
JC si portò la mano alla pancia. La lama era penetrata appena e aveva sbattuto contro una costola. Osservò i suoi assalitori stramazzati sulle mattonelle. Il suo guardiano li aveva conciati per le feste. “Li conosci?” chiese al man. “Non ho la minima idea di chi siano,” disse l’altro e mollò un calcio in piena faccia al Pisellino, che ansimava asfissiandosi con il sangue che gli scorreva dal naso. Il mazzolatore si chinò su di loro: “Molto piacere, frocetti, sono Terminator.”
Arrivarono i secondini con una faccia da uotdefack. In genere, erano loro i primi a sapere a chi si voleva fare la pelle. Senza la loro complicità era impossibile freddare qualcuno. Stavolta li avevano sorpassati a destra. “Che è successo qui?” chiese uno molto ganzo. Terminator si girò a guardarlo. “Dimmelo tu, piuttosto.” Il povero secondino cominciò a tartagliare quando si rese conto con chi stava parlando. Terminator era la forza bruta di don Julio, l’incaricato di mettere ordine nella prigione. “Signore, non sapevamo niente,” balbettò terrorizzato il cacasotto.
Nelle docce comparve anche Carmona. Il tentativo di omicidio di JC era stato anderhisuocch e non andava per niente bene. Identificò i due pelagatti. “Quello con il cazzo piccolo piccolo è Edgardo Fuentes Peredo e lo chiamano il Pisellino e l’altro con la faccia da scimpanzé è Luis del Cristo Benavides Ortiz e lo chiamano il Carne. Sono dei rottami e non contano un cazzo.” Terminator rispose sprezzante. “Come, non contano un cazzo, se hanno quasi fatto fuori il biondo? Non ti paghiamo per far scorrazzare a destra e a manca questi due coglioni. Vedi tu come fare, ma devono cantare.”
E cantarono. Non fu necessario neanche ficcargli la picana elettrica su per il culo. Bastò prenderli a bastonate dove Terminator gli aveva già fratturato le ossa. Alla quinta mazzata, i ragazzini cinguettarono come Titti. “Ci ha ingaggiati il Rolex,” spifferarono. Dopo mezz’ora il Terminator aveva già il Rolex con le braccia e le gambe legate, appeso nudo a testa in giù.
Il Rolex giurò e spergiurò che aveva chiesto a quei due di rispettare la tregua che gli aveva ordinato il suo capo, il Manina Corta. “Non hai imposto il rispetto a loro due e siccome non hai avuto le palle per gestirli, noi le togliamo a te,” sentenziò il Tequila. Il Rolex implorò piagnucolando di non ridurlo come il gatto di una signora di Polanco. Don Julio, neanche due grammi di compassione. Se non gli dava una punizione esemplare, qualunque mollusco avrebbe fatto quel che gli girava per i coglioni. E per dimostrare di essere deciso a tagliare alla radice qualsiasi tentativo di ribellione, gliele strappò a mani nude. L’urlo di dolore del Rolex arrivò fino a Cerritos, dove Manina Corta ricevette la notizia, esterrefatto. In altri tempi, sarebbe prevalso l’occhio per occhio. Avevano castrato uno dei suoi uomini più prossimi, ma lui non voleva entrare in quelle danze e lasciò correre l’offesa. Forse il Rolex se lo meritava perfino. Se i puledri avevano saltato lo steccato, era stato perché non si erano sorvegliate le stalle e come stalliere il Rolex era stato una nullità.
Per ordine di don Julio, venne proibito di ricoverare il Carne e il Pisellino in infermeria. Li lasciò alla mercé delle loro ferite e delle loro fratture multiple. Se erano stati così svegli da nascondersi la lama nel culetto, be’, s’inventassero qualcosa per curarsi senza aiuto medico. Magari a forza di legare stecche potevano far saldare il perone o bendandosi la mascella riuscivano a mantenerla al suo posto.
JC ne uscì illeso, ma non indenne. La ferita alle costole creò ramificazioni emotive, come quando un blocco di ghiaccio si fessura al semplice colpetto di una mano. Sì, era da barzelletta che un tipo con un cazzettino da topo avesse cercato di ucciderlo. Roba da farci battute su battute. Eppure, a JC la possibilità di morire cominciò a corroderlo. Non doveva soltanto combattere con la facching paura della propria morte, ma anche con quella di Marina. Nella sua ansia di vendetta, il Macchina avrebbe potuto farla a pezzettini. Occhio per occhio, donna per donna. Per il Macchina, il colpevole della morte di Esmeralda era stato José Cuauhtémoc. Se il biondo non se la fosse scopata, il mostro osceno addormentato e rannicchiato dentro di lui non si sarebbe mai svegliato. Il Macchina aveva sentito che una forza superiore si era impossessata della sua anima e l’aveva trascinato a mutilare con frenesia la sua amata. Non appena avesse saputo dell’esistenza di Marina, quello stesso demone l’avrebbe spinto a smembrarla. JC lo sapeva, e quella certezza lo stava ammazzando.