Manchi.
La tua
assenza
PESA
Apro gli OCCHI e
Non
ci sei
Cosa ci faccio
con questa voglia di baciarti
con queste carezze
con queste parole
qui
(r/i/n/c/h/i/u/s/e/)
(c/o/n/ /m/e)?
-
La mia nave si è incagliata
È arenata
nella immensa spiaggia
che sei
Tu
Io
Affogo
in
questo
.
Vuoto
Vieni
aiutami a
R          = e =
s.......................
p = i = r = a = r = e
Perché
La mia
Vita
Si
secca
Senza di te
José Cuauhtémoc Huiztlic
il tuo

 

 

 

 

 

 

Mi stavo preparando ad accompagnare Daniela alla sua lezione di equitazione quando mi squillò il cellulare. Avevo fretta, le lezione iniziava alle quattro e mancavano soltanto quindici minuti. Risposi mentre andavo verso la macchina. Vidi sullo schermo che si trattava di Pedro. “Ciao,” lo salutai. “Marina, accendi la tele sul canale 13, adesso,” ordinò. Credevo che scherzasse. “Ti intervistano o perché tanta fretta?” lo presi in giro. “Vai subito prima che finisca la notizia,” avvertì. Il suo tono denotava gravità. Chiesi a Daniela di aspettarmi e corsi in cucina, dove le domestiche guardavano una telenovela sul televisore piccolo. “Scusate,” dissi e cambiai canale. Sullo schermo apparvero immagini da un elicottero che sorvolava il Reclusorio Oriente. Diversi detenuti con il volto coperto alzavano i pugni verso il velivolo, con aria di sfida. Alcune ali della prigione erano in fiamme. Il giornalista raccontava dall’alto. “Si ritiene che finora ci siano più o meno quindici morti. Le autorità hanno stabilito uno sbarramento intorno al penitenziario e si prevede che più tardi le forze di polizia cercheranno di fare irruzione per mettere sotto controllo i detenuti ammutinati.”

Rimasi paralizzata davanti al televisore con la voglia di vomitare. Decine di volte avevo visto dei servizi sulle rivolte nelle carceri. Riprese dei familiari ammucchiati all’ingresso, che urlavano per reclamare informazioni sulle persone care. I visi stravolti dell’angoscia e dall’incertezza. Quella doveva essere la mia espressione, perché una delle tate dei miei figli si affrettò a portarmi una sedia. “Si sieda, signora.” Potei riconoscere i posti in cui ero stata: i cortili, la zona visitatori, le aule, la biblioteca, le stanze per le visite coniugali. Il fuoco consumava parecchi di quei locali.

Uscii dalla cucina. Non volevo che la servitù notasse la mia emozione. Entrai nel mio studio e mi chiusi a chiave. Feci il numero di Carmona. “Il numero da lei chiamato è irraggiungibile.” Bel casino che gli era toccato. Appena pochi giorni che aveva assunto l’incarico, e già doveva affrontare il peggior incubo possibile per il direttore di un carcere. Il cuore mi batteva a mille. José Cuauhtémoc stava bene? Era uno dei morti? Per la prima volta mi resi conto della banalizzazione delle cifre da parte dei notiziari. Si parla di esseri umani come di numeri, come se la morte fosse una semplice statistica fra tante. Tra quei “più o meno quindici morti” potevano esserci miei conoscenti di entrambe le sponde: detenuti e secondini. La violenza fece irruzione nella mia vita nel momento più inatteso.

Non poteva succedere nulla a José Cuauhtémoc. Cosa ne avrei fatto della mia vita se lui fosse stato uno dei morti? Non mi sarei potuta perdonare la mia pusillanimità. Non avrei nemmeno potuto ricordare le sue ultime parole. Cosa mi aveva detto? Cazzo, cosa? Si dà per scontata la vita e di botto arriva un lampo che fa detonare a una a una le nostre certezze.

Chiesi all’autista e a una delle tate di portare Daniela a lezione. L’autista uscì subito a eseguire i miei ordini. Teresa, la nuova tata, rimase in piedi sulla soglia. “Ha qualche familiare nel penitenziario? L’ho vista molto colpita,” disse. “Ho accompagnato i miei amici Julián e Pedro al laboratorio letterario che tengono là,” le risposi cercando di essere più circospetta possibile. Non volevo far trasparire l’agitazione che mi rodeva. “Immagino che conosca persone là dentro, non è vero?” domandò. Non mi piacque la direzione verso cui s’incamminava il suo interrogatorio. “Sì, ne conosco diverse. Perciò sono preoccupata da quello che succede lì dentro.” Lei rimase per qualche secondo in silenzio. “Per caso conosce Eleuterio Rosas?” No, non lo conoscevo. “Perché, Teresa?” le domandai. “È il marito di una mia cugina. L’hanno condannato per furto ed è un uomo molto precipitoso e goffo. Ho paura che gli abbiano fatto qualcosa.” Mi avvicinai a lei e la abbracciai. Cominciò a piangere sulla mia spalla. Non avrei mai immaginato una tale vicinanza con una dipendente. Entrambe ansiose di conoscere i nomi dei detenuti morti durante le devastazioni. Entrambe vittime di un dolore che nessuno nella mia cerchia sociale avrebbe potuto comprendere.

Mi misi a fare zapping per i canali televisivi cercando informazioni. Niente più notizie sul penitenziario. Nella programmazione c’erano telenovelas, quiz, documentari storici. Nei notiziari mandavano goffe interviste a politologi. Cercai la notizia su Google nel mio laptop. La maggior parte dei siti copiava un lancio d’agenzia di tre ore prima. Niente di nuovo rispetto a quanto raccontato dal giornalista a bordo dell’elicottero. I detenuti, perlopiù in maglietta o a torso nudo, i visi coperti, si erano piazzati minacciosi sui tetti della prigione. Perfino dalle telefoto si potevano notare le dita contratte, gli sguardi pieni di risentimento, le espressioni decise. M’imbattei nelle immagini di quattro secondini, tra cui il cortesissimo agente che mi aveva portato da José Cuauhtémoc la prima volta. Era steso supino su una pozza circolare di sangue. Chiusi gli occhi, orripilata. Quel ragazzo bonaccione e gentile, tra le persone migliori che avevo conosciuto in carcere, non meritava di morire.

Nonostante l’orrore e la repulsione, continuai a passare in rassegna le fotografie. Dovevo assicurarmi che in nessuna di esse comparisse il corpo inerte di José Cuauhtémoc. In gran parte erano immagini confuse scattate nel fragore della battaglia campale. Il conto dei morti doveva essere stato fatto sulla base di quelle istantanee prese con il cellulare e messe in rete dagli stessi secondini. Si potevano scorgere corpi mutilati o con il volto sfigurato. Una strage.

Rimasi attaccata a Internet per altre due ore. Nel frattempo chiamai Pedro e Julián innumerevoli volte. Julián sembrava preoccupato quanto me. Decisero entrambi di venire a casa mia. Mi chiusi con loro nel mio studio a indagare su diversi portali. A poco a poco si cominciarono a conoscere i particolari di quant’era accaduto. Un gruppo aveva iniziato la protesta alle sei del mattino nella mensa della prigione. I secondini avevano tentato di disperderli con i lacrimogeni ed era stato lì che era nata la conflagrazione. Armi di vario calibro avevano cominciato a circolare fra i detenuti. Tre ore dopo avevano ormai occupato il penitenziario. Un contingente era riuscito a rompere i filtri di sicurezza e aveva invaso l’area della direzione generale. Non si conosceva il destino di Carmona, né degli altri funzionari.

Sentimmo le voci dei miei figli che arrivavano. Pedro chiuse il laptop. “Che fai?” gli chiesi. “Ci stiamo ossessionando. Dobbiamo riposarci un po’,” rispose. Mi arrabbiai. “Si tratta dell’amore della mia vita,” gli dissi senza pensare. Mi sorpresi delle mie parole. “Amore della mia vita”, un’affermazione troppo forte da digerire. “Smettila di dire stupidaggini,” reagì Pedro, “i tuoi figli sono là fuori. Vai e occupati di loro. Noi ti avvisiamo se sappiamo qualcosa.” Aveva ragione. Dovevo accogliere i miei figli, aiutarli a fare i compiti e prepararli per la cena.

Mi abbracciarono, effusivi. Loro mi consideravano la migliore mamma del mondo e io una calamità errante con l’istinto materno atrofizzato. Li incitai a mettersi il pigiama. Brontolarono. “Alle sei?” si sorprese Claudia. Volevo togliermeli dai piedi e tornare in studio a seguire le novità. Calma, calma, mi dissi. Non dovevo sacrificare il tempo con i miei figli. Era ingiusto coinvolgerli in un conflitto a distanza astrale dalle loro vite. Finsi di stare bene e di essere allegra, mentre dentro mi rodeva l’ansia. Li aiutai a finire i compiti. Deconcentrata, tardavo a rispondere ai loro dubbi, specialmente quelli di Daniela, che non riusciva a imparare le tabelline.

Julián e Pedro se ne andarono alle undici. Pedro fece un tentativo di incoraggiarmi. “Starà bene. José Cuauhtémoc sa come difendersi.” Scambiai un’occhiata con Julián nella speranza che fosse d’accordo con lui. Trovai i suoi occhi inchiodati a terra, come se si rifiutasse di contagiarmi ancora di più con le sue tribolazioni. “Chiamami se hai bisogno di qualcosa,” mi disse Julián quando mi salutò. Lo abbracciai. Sempre più fraterno, il nostro rapporto.

Non appena chiusi la porta, sentii qualcuno dietro di me. Era Teresa. “Signora, scusi se la disturbo a quest’ora, ha saputo qualcosa?” Immaginai che si aspettasse una bugia pietosa che la tranquillizzasse. “Le cose si sono messe male, Teresa. Speriamo che il marito di tua cugina stia bene.” Rimase zitta un bel po’. Gli occhi le si cominciarono a inondare di lacrime. “Signora, devo confessarle una cosa,” disse e fece una pausa. “Eleuterio è il mio fidanzato.” Feci due passi verso di lei. “Ma non era il marito di tua cugina?” le domandai. “Sì, signora, è suo marito. Io sono la sua amante.” Abbassò la testa. Qualche lacrima le scorse lungo le guance. “Vorrei chiederle il permesso di andare domani al penitenziario a vedere cosa sta succedendo. Io non ce la faccio più a stare senza sapere niente.” Deglutì non appena finì di parlare. Le presi il mento e le sollevai il viso. “Vengo con te. Anch’io non ce la faccio più.”

 

Il penitenziario era infestato da un fottio di insetti. I kings erano gli scarafaggi. Signori e padroni degli angoli, delle dispense e dei bagni. Facevano schifo anche ai più rudi e molti diventavano come bambini quando schiacciandogli le trippe esplodevano in un purè color mango. I letti erano pieni di Cimex lecturalius, meglio note come le reverende figlie della loro madre cimice. Al risveglio, i detenuti erano morbillosi come se fossero usciti da sessioni di agopuntura con i chiodi. Abbondavano anche pidocchi, pulci, lendini e piattole, il dream team del prurito nei capelli, nei coglioni e nell’anice.

Le zanzare giocavano in un altro campionato. Nel penitenziario, costruito su letti di laghi prosciugati, bastava un po’ d’acqua sporca perché vi depositassero a sacchi i loro ovetti. D’estate massacravano l’illuso che si azzardava a uscire al tramonto e di notte la rottura di palle dei loro ronzii superava di gran lunga quella di chi russava.

Era necessario che le infestazioni arrivassero al livello della stazione Pino Suárez perché le autorità si decidessero a fumigare. “Questo non è un collegio per signorine,” dicevano i diletti funzionari e zac, ecco l’insetticida, senza preoccuparsi se i detenuti mangiavano o dormivano. Inutile trattenersi per pinzillacchere come se questa o quella sostanza fosse cancerogena o provocasse danni irreversibili ai bronchi. A sterminare le bestiacce. Quelle a sei, a otto e a due zampe. Dopotutto, sempre bestiacce.

Tra le infami piaghe, quella che JC più detestava erano le mosche. Ubique, onnipresenti. Scacazzavano su lampadine e finestre, prendevano per bar i cessi, ciucciavano il cibo e molte galleggiavano affogate nelle brocche di limonata. Alcuni detenuti se le bevevano senza fiatare per il loro “valore nutritivo”: proteine con cacca, uva passa ricoperta di cioccolata. A JC rompeva vederle allungare le loro proboscidi piene di merda per succhiare il suo pane o i suoi spaghetti. Spargeva dello zucchero sul tavolo per attirarle e quando se n’erano riunite parecchie le ammazzava con una manata.

Quelle mosche infami abbondavano nelle topaie della visita coniugale. Tutte malinconiche, se ne stavano belle tranquille sulle pareti fin quando iniziava la scopata. Qualcosina negli ormoni di chi ci dava dentro doveva eccitarle perché immediatamente si lanciavano sui corpi nudi. E scopare con le mosche che ti svolazzavano sulla schiena, sulla faccia o sulle chiappe era una vraie merde.

Quello che JC non riuscì a digerire durante la prima visita coniugale furono le loro picchiate. Temeva che Marina non sopportasse la sensazione delle loro zampe piene di merda sulla pelle. Una mattina, lei si mise a dormicchiare sul suo petto. Lui le accarezzò la schiena finché si addormentò profondamente. Però, oh my God, attirate dall’odore dei suoi succhi vaginali conditi di sperma, una ventina di mosche cominciarono a posarsi sul suo sederino e sulla sua pisella. JC si mise a scacciarle con le mani, ma gli squadroni facevano dietrofront e tornavano.

Quello gli parve il momento più umiliante dei suoi anni al gabbio: le mosche che ciucciavano l’ano della sua amata. Lui si meritava le mosche e le cimici e le pulci e gli scarafaggi e le zanzare e le amebe e i batteri e l’intossicazione da fumiganti, ma lei no. Avrebbe voluto conservarla in una cassa di vetro, proteggerla dagli insetti, dall’immondizia, dall’aria putrida, dagli assassini e perfino da se stesso.

Lo sollevò fino all’indicibile che si dessero appuntamento nella suite Westin. Water con il coperchio, bagno privato, acqua calda, preparazione igienica degli alimenti (niente uva passa con il cioccolato che galleggiava nell’acqua fresca), pavimenti brillanti e, alleluia!, coperte senza disegnini. Niente tracce di mosche né di nessun insetto maligno. Espulse le bestie dal paradiso dei detenuti ricchi. Fuori dal tempio i farisei alati. Salute comprata a forza di banconote. Sorrise quando a Marina venne nostalgia per la stanzetta puzzolente. Tipico atteggiamento dei borghesi quando visitano per qualche ora i letamai dei morti di fame. Il primo mondo che assaggia a cucchiaini gli abissi del terzo mondo. A Marina doveva sembrare un sacco simpatico rotolarsi su coperte con motivi infantili. Per lui era un ulteriore esempio della stronzaggine delle autorità penitenziarie. Scopare con un topo grottesco che ti guardava le chiappe. Il potere appiccicato in pieno muso, o meglio, in pieno culo. Per Marina era un’espressione di ingenuità kitsch. La distingueva venire sopra i volti deformi di Pippo, Topolino e Minnie. Quello sì era contestatario, non i film di quel poppante di Héctor.

José Cuauhtémoc apprezzava la fichettaggine di Marina. Così ingenua, così candida, così Nesquik alla vaniglia. La sua presenza lo aiutava a cambiare aria, ad abbandonare, sia pure per pochi minuti, il torpore dei tempi morti in carcere. Non soltanto era innamorato di lei, le era grato. E come un malato terminale a cui da anni abbiano annunciato la fine, attendeva l’ora in cui lei non sarebbe tornata mai più.

 

A quanto pareva, era stata un’azione coordinata. Non si erano ammutinati soltanto nel Reclusorio Oriente, ma anche in diversi altri: Reclusorio Norte, Sur e Santa Marta Acatitla a Città del Messico; Cadereyta, Topo Chico e Apodaca nel Nuevo León; i penitenziari di Tepic, Colima, Piedras Negras, Saltillo, Zacatecas e altri. I funzionari del ministero degli interni erano evidentemente sconcertati. “Non permetteremo che un gruppuscolo di criminali tenga sotto scacco il paese e le istituzioni democratiche,” dichiarò alla stampa il ministro. Di cosa parlava? A cosa si riferiva con quel “gruppuscolo”? Chi aveva organizzato la rivolta? Tra un anno ci sarebbero state le elezioni presidenziali. Erano lotte di potere fra i membri del gabinetto? Forze esterne? Scontri fra partiti? I narcos?

Non sentii Claudio entrare nella stanza e mi scoprì mentre guardavo il cellulare. Mi si avvicinò senza fare rumore e notò le immagini del carcere. “Cos’è successo, amore? Problemi al penitenziario?” Saltai per la paura. “Non spaventarmi mai più così,” protestai. Claudio sorrise. “Ti ho vista così concentrata.” Gli spiegai la situazione e gli raccontai che alcuni nostri conoscenti, tra i quali il secondino gentile, erano morti. Gli espressi la mia preoccupazione per la crisi rampante. “È un segnale per farci andare a vivere a New York. Qui non abbiamo niente da fare,” disse. Nel mio mondo pre-José Cuauhtémoc, la sua proposta avrebbe avuto un grande senso. Innamorata e pazza d’angoscia, mi sembrò un insulto. “Non ho intenzione di lasciare questo paese,” fu la mia laconica risposta, ma il sottotesto in realtà era: “Per nulla al mondo ho intenzione di lasciare José Cuauhtémoc.”

Claudio andò a fare la doccia (la sua ossessione per l’igiene lo faceva lavare due volte al giorno) e ne approfittai per chiamare Pedro. “Ho bisogno che mi presti un SUV blindato e un paio dei tuoi guardaspalle. Domani voglio andare al penitenziario,” gli dissi. “Non ti presto un bel niente,” rispose seccato, “non voglio seguirti nel tuo giochino a Romeo e Giulietta nel bel mezzo di una strage.” Lo avvertii che sarei andata al penitenziario con o senza il suo aiuto e che stavolta doveva appoggiarmi. Cercò di farmi desistere. Non mollai. “Andrò con Teresa, la nuova tata. Anche lei ha un familiare detenuto lì.” Finì per cedere. “È l’ultima volta che mi coinvolgi nei tuoi intrallazzi,” disse.

Prima di andare a letto, mi arrivò sul cellulare un messaggio di Julián:

 

C’è un tempo in cui devi lasciare i vestiti, quelli che hanno già la forma abituale del tuo corpo, e dimenticare il solito cammino, che sempre ci porta negli stessi luoghi. È l’ora del passaggio: e se noi non osiamo farlo, resteremo sempre lontani da noi stessi.

Fernando Pessoa

 

Non capii lo scopo di Julián nel mandarmi quel frammento. Verso dove suggeriva che dovessi fare quel passaggio? Verso un amore chimerico e irrealizzabile? O voleva dirmi che il mio unico cammino era il ritorno alla stabilità matrimoniale? Quello che mi mancava. Altre domande. Altri motivi per non dormire.

Passai una notte insonne. Continuai a rigirarmi nel letto e a guardare spesso la sveglia: l’una, le due e sette minuti, le tre e trentacinque, le quattro e quaranta. Dovetti crollare verso le cinque. Non sentii la sveglia di Claudio. Aprii gli occhi soltanto quando chiuse la porta della stanza. Cercai di dormire qualche altro minuto. Ero esausta. Pensare stanca e pensare ossessivamente ancora di più. Venne l’ora di alzarmi e di organizzare i ragazzi per la scuola. Ogni mattina cercavo di svegliarli con qualche coccola. Non ero dell’umore per farlo. Accesi la luce e ordinai di farsi trovare vestiti e con la colazione già fatta entro mezz’ora.

Mandai i miei figli a scuola con l’autista e una tata. “Noi andiamo subito,” dissi a Teresa. Partimmo nel SUV blindato di Pedro seguiti da un altro con quattro guardaspalle. Attraversammo la città e quando arrivammo nelle vicinanze del penitenziario cominciai a intravedere la gravità della situazione. Decine di agenti antisommossa circondavano il perimetro. Non potemmo avvicinarci oltre dieci isolati di distanza. I poliziotti deviavano il traffico. Il nostro autista tentò di convincere l’agente a lasciarci passare. “No, giovanotto, non è autorizzato il passaggio di veicoli.” Chiedemmo come potevamo arrivare alla prigione. “A piedi, ma non ve lo raccomando. Le cose là sono belle toste.” Decidemmo di parcheggiare il più vicino possibile e da lì camminare fino al penitenziario.

Mentre parcheggiavamo, controllai sul cellulare le ultime notizie. Il governo aveva deciso di riprendersi il carcere dopo ore di infruttuosi negoziati con i detenuti in rivolta. Si prevedeva uno scontro feroce. I giornalisti avvertivano, “non recatevi in quella zona.” Da un elicottero trasmettevano dal vivo. I prigionieri ribelli erano concentrati nel cortile centrale, quello che tante volte avevo attraversato. In mezzo a un cerchio di detenuti erano legati e imbavagliati diversi secondini. Si distingueva una linea di trincea fatta con banchi, materassi e qualche pneumatico. I primi piani della telecamera mostravano gli agenti sequestrati con la testa bassa. Al passaggio dell’elicottero, uno dei prigionieri sollevò un cartello: “Rispetto per i diritti umani dei detenuti.” Tentai di identificare José Cuauhtémoc tra le decine di rivoltosi. Sarebbe stato facile distinguerlo per la statura e i capelli biondi. Impossibile, la telecamera si agitava da una parte all’altra.

In cambio della liberazione degli ostaggi, i ribelli pretendevano l’accoglimento di diversi punti. Tra le altre richieste: liberazione anticipata dei detenuti con condanne minori, fine del sovraffollamento, cibo più vario e nutriente, orari di visita più flessibili, permesso per l’ingresso di telefoni cellulari. Il governo aveva mandato un gruppo di negoziatori, ma gli ammutinati si erano rifiutati di riceverli. Prima era necessaria la firma di un documento in cui s’impegnavano ad accettare le condizioni della piattaforma delle richieste nei penitenziari in rivolta. Non c’era dubbio che si trattava di un’azione concertata. Bisognava soltanto capire chi l’aveva organizzata.

Scendemmo dal SUV e, scortate da sei guardaspalle comandati da Rocco, Teresa e io avanzammo tra la folla. Sembrava che percorressimo il tragitto verso uno stadio di calcio. Donne umili con i figli piccoli per mano, vecchi che camminavano con difficoltà, ragazzi tatuati. I loro visi riflettevano preoccupazione e rabbia. La rivolta era andata fuori controllo e ritenevano le autorità responsabili di quanto poteva succedere ai loro familiari detenuti.

Ci stavamo avvicinando alla prigione quando si cominciarono a sentire delle detonazioni. Subito dopo si udì un’esplosione. La gente fuggì spaventata. Rocco mi abbracciò per proteggermi con il suo corpo e in formazione compatta con gli altri guardaspalle mi allontanarono da lì. Altre esplosioni e sparatorie. Rocco mi fece abbassare la testa. “La può colpire una pallottola, signora.” Proseguimmo verso i SUV tra nuvole di gas lacrimogeno. Arrivammo ai veicoli. I guardaspalle aprirono gli sportelli e li richiusero appena fummo saliti. Finalmente potei guardarmi intorno. Una folla fuggiva terrorizzata. Chiesi di Teresa. “L’abbiamo persa, signora,” rispose Rocco. “Come, l’avete persa?” domandai. Non mi risposero. Partimmo. L’autista schivò con abilità le decine di persone che fuggivano dalla mischia. Guidò fino a sbucare su un viale e da lì riprendemmo la strada di casa.

 

Il Macchina si siede di fronte al middle man del cartello di Là. “Quanto vuoi per questo e quest’altro?” Il man gli risponde: “Be’, tanto e tanto.” Il Macchina si fa dei conti in testa. “No, no. Stai pisciando fuori dal vaso. Manco con un facching miracolo arrivo a pagarti questo.” Il man ride. “Ma mica ti sto vendendo delle biglie.” Inizia la contrattazione. Sì, no. Non dire stronzate, mi offendi. Offesa è se manco di rispetto a tua sorella. Allora, quanto offri? Be’, tanto. Naaa. Allora più tanto. Ok, andata. Si danno la mano e chiudono l’accordo. Il Macchina negozia una quantità di fentanyl sufficiente per settemila overdose. In aggiunta, il man gli regala il cloruro mercurico. Quattro secchi sigillati con immagini di teschi: “Materiale pericoloso. Maneggiare con cura. Usare maschere antigas.”

Si accordano su un luogo e su un’ora per la consegna del fentanyl. Il Macchina si porta via i secchi di cloruro mercurico, li mette nel portabagagli dell’auto, va in albergo, prende le sue cose e si affretta a partire. Per cinquemila svanziche ingaggia due autisti di taxi che prima avevano fatto dei lavoretti per i Quinos nella zona e li manda a ritirare la roba. Lui non ha intenzione di andarci. Da anni conosce il man del cartello di Là e lo considera un suo compare, ma nel narco non si sa mai quando un compare si scompara.

Chiede agli autisti di mandargli via WhatsApp la loro posizione in tempo reale e di fargli uno squillo al cellulare quando arrivano nel posto convenuto. Gli ordina di non spegnerlo mai. Loro lo salutano e partono con il camion preso a noleggio. Il Macchina va a trenta chilometri dalla città e si nasconde nel casotto di un’officina meccanica abbandonata ai bordi della strada. Il caldo è un mattone bollente e il Macchina gorgoglia sudore. Lo stridio delle cicale risuona tra la vegetazione tropicale.

Il Macchina dormicchia su una sedia di legno rosa dai tarli. Sul pavimento sono sparsi giornali ingialliti. Un divano rotto è accantonato in un angolo. C’è puzza di merda e di piscio. È un posto dove i camionisti vanno a cacare e a urinare. Il calore ha seccato le cacate. Questo non impedisce che un puttanaio di mosche ci si fermi sopra. Arriva su WhatsApp il messaggio con la posizione degli autisti. Stanno per arrivare nel posto in cui faranno lo scambio della borsa di grana con i chili di fentanyl. Se il Macchina li mettesse sul mercato oltre il border intascherebbe dieci volte quello che ha investito. Facching affarone da paura. Non gli interessano i bigliettoni. Lui vuole quello che vuole e quello che vuole è fare la festa a quel bastardo di JC.

Uno degli autisti lo chiama. “Stiamo arrivando, capo.” “Non riattaccare,” gli ordina il Macchina. “Mettiti il cellulare a testa in su nel taschino della camicia e non spegnerlo manco per il cazzo finché non te lo dico io.” Lo vuole a testa in su così il microfono non struscia sulla stoffa e può sentire cosa succede. “Sta bene,” gli risponde l’autista, un mentecatto con la pelle scura e i capelli da cinese.

Il Macchina lascia il cellulare in vivavoce su una bacinella di latta arrugginita. Sente i tassisti scendere dal veicolo e salutare i tipi che li aspettano. “Salve,” dice uno. “Salve,” risponde l’altro. La conversazione va bene finché uno dei furboni domanda: “Ndo’ cazzo sta il Macchina?” L’autista ciccione risponde: “Non viene.” Una pausa. “E la grana?” Si sentono sportelli e poi la cerniera di una borsa. “È qui, tutta intera.” Passi che si allontanano sul sentiero. Voci distanti. Di nuovo passi sulla ghiaia. “Adesso portano la merce,” dice uno. “Grazie,” risponde il ciccione. Di colpo si sente il tracataca di una mitraglietta. “No… no…” riesce a urlare l’altro tassista. Si sentono ansiti e poi lamenti. Voci dei tipi. “Finisci questo stronzo.” Spari e poi risate. “Porca puttana, questo bastardo mi ha riempito di schizzi di cervello,” si lagna uno. “Colpa tua che gli spari da troppo vicino,” replica l’altro. Hi hi hi, ah ah ah. Due tizi stesi nella polvere come pappagalli spiumati e quelli giù a ridere.

Il Macchina spegne il cellulare. Prende un sasso e lo fa a pezzi. Non può lasciare tracce di dove si trova. Deve svignarsela dalla zona prima possibile. Sa che in pochi minuti ci saranno posti di blocco a tutte le uscite dallo stato. Sulle autostrade a pedaggio, sulle nazionali, sulle strade vicinali. Non gli era passato manco per la testa che il cartello di Là potesse essere una chiappa del cartello dei Quelli. Il suo compare ha fatto la soffiata che lui stava facendo shopping e il boss dei boss ha ordinato di mandarlo all’altro mondo.

Il Macchina sale sul pick-up e ci dà dentro con l’acceleratore. Va alla massima velocità. Evita il raccordo con l’autostrada. Lì di solito i militari piazzano un posto di controllo e non mancherà il soldato del cazzo che vuole fare il bullo. Procede a zigzag tra campi di canna da zucchero e terreni a maggese a centocinquanta all’ora. Contadini e vacche lo vedono passare stravolto.

Procede per settanta chilometri andando da qui a là finché non scopre una scorciatoia che lo porta dritto sulla nazionale. Non si ferma finché non arriva ai limiti dello Stato del Messico, quello che confina con la capitale. Seicento chilometri a pigiare sull’acceleratore per non farsi raggiungere. Finalmente, arriva nella sua tana e respira tranquillo. Vigliacco del cazzo, l’amico di quelli di Là. Si è comportato da schifo, come la malagueña. Ma lui l’aveva fiutato e perciò ha mandato i tassisti a prendere la roba. Gliel’avrebbe fatta vedere a quel bastardo, e ai Quelli e a chiunque osasse ostacolarlo nella sua faraonica vendetta.