Le bugie che uno si dice
Sono vere le bugie che ha detto chi dice la verità. Non possiamo confonderci quand’è chiaro che nessuno sa. La vita fa molte giravolte ed è lì che ci viene la nausea. Nauseati, non sappiamo se andare di là o venire di qua, e il peggio è che finiamo dove non dovremmo. Quelli che ingannano sanno che l’altro non può essere ingannato malgrado lo si inganni. Perché uno finisce per sapere tutto. E così ce ne andiamo per la vita, senza dire agli altri che vanno dall’altra parte, verso dove non andiamo noi che vogliamo andare, ma gli altri. Non c’è niente di peggio che trovarti dove non sapevi di essere. Giri e rigiri e alla fine scopri che non ti sei mosso da dov’eri. Perciò non è buono correre per cercare. Meglio starsene fermi e così si comincia a distinguere. Se ti alzi dal tuo posto e te ne vai, vai a sbattere. Se ti perdi, non chiedere, perché gli altri non sapranno dove ti sei perso. Il tuo posto è il tuo posto e non c’è niente che possa cambiarlo. Anche se credi di sì. Perché il tuo posto è quello e non un altro. E questa è l’unica cosa da capire.
Carmelo Santos Aguirre
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Condanna: ventotto anni per omicidio premeditato
Lungo il percorso nessuno parlò. Attraversammo Ixtapalapa guardando in silenzio dai finestrini. Cani randagi, ragazzi denutriti, donne in coda per le tortilla, meccanici sotto i cofani delle auto. Come vedeva Teresa il sottomondo lumpen di Ixtapalapa – che doveva essere molto simile a quello da cui lei proveniva – dall’alto di un SUV blindato? E all’inverso, cosa avrebbe pensato vedendo passare un convoglio del genere nel suo quartiere?
Le strade intorno al penitenziario erano chiuse. I vigili deviavano le auto per itinerari alternativi. Un caos. “Credo che questo sia il punto più vicino in cui possiamo arrivare,” disse Rodrigo e aprì il finestrino per parlare con l’agente. “Non si può passare, giovanotto.” Rodrigo tirò fuori una credenziale e gliela mostrò. L’agente la controllò, si voltò e andò a farla vedere al suo superiore. La esaminarono per qualche minuto e poi spostarono l’autopattuglia che ostruiva il passaggio. L’agente restituì il documento a Rodrigo. “La situazione lì avanti è molto difficile, giovanotto. State attenti.”
Proseguimmo. Nessuno per strada. Ci avvicinammo alla fascia di sicurezza stabilita dagli antisommossa. Il panorama era completamente diverso da quello del giorno prima. Soltanto un piccolo gruppo di protestatari ronzava intorno al carcere. La teoria di Rodrigo delle masse “cammellate” iniziava ad apparire reale. L’atmosfera era tesa senza le dimostrazioni virulente della giornata iniziale.
Rocco scese a indagare. Si perse tra la fila di antisommossa e si rivolse a quello che sembrava il comandante. Conversò con lui per qualche minuto e poi tornò da noi. “Signora, il capitano delle forze di polizia suggerisce di non avvicinarci di più. Dice che in questo momento stanno negoziando con i leader della rivolta, ma che la situazione può esplodere da un momento all’altro.” Teresa e io ci scambiammo un’occhiata. Non ce ne saremmo andate senza avere notizie dei nostri uomini, anche se lei non poteva sapere che dentro il carcere c’era anche il mio. “Mi può accompagnare a parlare con lui?” chiesi a Rocco. “Come vuole, signora.”
Rocco, Rodrigo, Julián e io andammo dal capitano. Il comandante ci accolse con diffidenza. “Buongiorno,” salutò sprezzante. “Buongiorno,” gli rispose Julián con un sorriso. Quel bastardo sapeva essere seducente nei momenti critici. In lontananza, il gruppo dei protestatari iniziò una serie di slogan. “Vivi li hanno rinchiusi, vivi li rivogliamo… Vivi li hanno rinchiusi, vivi li rivogliamo…” Con il mento, Julián indicò alla mia sinistra. Da uno dei vicoli comparve un contingente di ragazzi rapati a zero. Sembravano di tutto, tranne che familiari dei detenuti. Avevano l’aria di un gruppo d’assalto inviato dal governo, nello stile dei famosi Falchi del ’68 o della strage del Giovedì Santo del ’71. A quanto pareva, le autorità non avrebbero esposto le truppe in uniforme a una possibile figuraccia. Se doveva esserci repressione, che se ne occupassero gruppi paramilitari travestiti da civili. Passo dopo passo la tesi di Julián veniva confermata. Forze oscure manipolavano la ribellione nelle carceri e io, bimba stupida che non intuiva le motivazioni del lupo.
Il capitano si voltò verso i ragazzi. La preoccupazione gli si riflesse sul viso. Prese la radio per impartire un paio di ordini. “Vulcano, attenti a un quattro alle vostre spalle. Pianeta, chiudete l’accesso a due.” Si girò verso di noi. Era ovvio che per lui eravamo un fastidio. “Come posso esservi utile?” Julián stava per rispondere quando accadde qualcosa di inatteso: il capitano lo riconobbe. “Tu sei Julián Soto, quello che studiava alla Secondaria 74?” Julián annuì, sorpreso. “Sono Víctor Vargas, il Linti.” Dall’espressione di Julián capii che non aveva la minima idea di chi fosse. “Linti, come va? Che piacere rivederti.” A partire da lì, l’andamento dell’incontro fu un altro. “Sei diventato strafamoso, Quico,” gli disse, un soprannome legato al personaggio della serie Cecco della botte che irritò Julián in maniera evidente. Il Linti chiese a un altro poliziotto di scattargli una foto. Una scena abbastanza assurda. Mentre il capitano alzava il pollice per la foto, dai lati del penitenziario arrivavano sempre più ragazzi armati di mazze da baseball.
Malgrado la situazione così tesa, il capitano sembrava entusiasta di parlare dei vecchi tempi. Rocco non la smetteva di guardarsi intorno. Si avvicinò a sussurrarmi all’orecchio: “Signora, credo sia il momento di andarcene.” Julián vide il gesto e interruppe di botto la tiritera nostalgica di Víctor Vargas. “Amico, mi dai una mano a sapere se due nostri amici stanno bene? Si chiamano Eleuterio Rosas e José Cuauhtémoc Huiztlic. Sono detenuti e non abbiamo loro notizie.” Via radio, il capitano si mise in comunicazione con un suo subalterno. “Vázquez, hai la lista dei morti dentro il penitenziario?” Passò qualche secondo. “Capitano Vargas, ce l’ho qui in mano, ma soltanto dei cadaveri che siamo riusciti a recuperare,” disse il subordinato. “Controllami se c’è un X5 di Eleuterio Rosas o di José Cuauhtémoc Huiztlic.” X5, strano codice per designare un morto. “No, signor capitano, non per il momento.” Una buona e una cattiva notizia. La buona: non erano nella lista. La cattiva: non lo erano per il momento. Gli domandai se sapesse qualcosa di Carmona. “Quello lì lo tengono sequestrato gli ammutinati,” affermò. “Non lo libereranno finché non soddisfano le loro richieste.” Mi spiacque sentirlo. Carmona mi era simpatico e inoltre era l’unico che poteva aiutare José Cuauhtémoc dentro la prigione.
Il capitano ci intimò di andarcene. “Qui le cose si metteranno molto male,” disse. Altri paramilitari arrivarono dalle strade vicine. Il gruppo di familiari che protestavano venne circondato. “Grazie, Linti,” gli disse Julián. Si abbracciarono. Ci voltammo per avviarci. A metà strada Julián ordinò “torniamo a casa.” Scossi la testa. “Teresa e io restiamo qui.” Rocco mi guardò, incredulo. “Cosa rimane a fare, signora?” Neanch’io lo sapevo. “Non essere ridicola,” sbottò Julián. Sì, era ridicolo. Poco o nulla potevo fare per José Cuauhtémoc, ma credevo fosse mio dovere. L’avevo abbandonato e avevo bisogno di compensarlo con la mia solidarietà e la mia presenza, anche se così rischiavo la vita. “Non possiamo permetterlo, signora,” avvertì Rocco. “Il signor Pedro ci ha incaricati di proteggerla e per eseguire i suoi ordini devo portarla via.” Mi voltai verso di lui. “Rocco, mi stai minacciando di portarmi via con la forza?” Julián intervenne prima che Rocco mi rispondesse. “Sì, Marina, con la forza. Rimanere è una stupidaggine e per di più costringi Rocco e gli altri a restare con te. Metti in pericolo anche loro.” Anche se non mi convinsero, le parole di Julián ebbero effetto. “Loro possono andarsene, non c’è motivo che rimangano,” risposi. Julián mi prese in giro. “Come vuoi, Batgirl.”
Gli antisommossa cominciarono a spostarsi verso l’ingresso della prigione. Aleggiava un’atmosfera di scontro imminente. Sì, era un’enorme stupidaggine non squagliarsela. “Signora Marina, per favore, andiamocene,” implorò Rocco. Se un omone di quella stazza, forgiato in decine di sparatorie contro dei delinquenti, mi chiedeva di andarcene, era per ragioni molto forti. “Andate voi,” insistetti. Julián prese Rocco per la spalla. “Lasciatela stare, se è quello che vuole.” Julián mi proteggeva. Agiva a favore dei miei interessi, fra i quali farmi rimanere viva. Eppure, non mi piaceva per nulla il suo atteggiamento condiscendente. “Sì, è quello che voglio,” ripetei. Rocco fece un altro tentativo di farmi ragionare. “Si guardi intorno. Mi dica cosa otterrà se rimane.” Il piccolo gruppo di familiari, circondato dagli agenti antisommossa e dalle squadre dei gruppi paramilitari, si ammucchiava alle porte della prigione. Perché loro resistevano ai propri posti e io no? “Stare con loro,” gli risposi e gli indicai quelli che si affollavano all’ingresso. Julián sorrise con sarcasmo. “Ah, sì? E vuoi comparire nei telegiornali mentre alzi il pugno e gridi slogan? Cosa dirai a Claudio, ai tuoi figli, ai tuoi amici? Sono una ragazza bene al fianco degli emarginati di questo paese? Sei un’illusa,” mi rimproverò.
Colonne di fumo cominciarono a salire dagli edifici del penitenziario. Si sentirono le urla dei detenuti sui tetti. Rocco si girò a guardare verso la prigione e poi si rivolse di nuovo a me. “Andiamo?” Scossi la testa. No, non me ne sarei andata.
Oscurità. Silenzio. Respirazione. Battiti. Pioggia che scivola lungo le pareti. Freddo. Dolore alle articolazioni. Immaginare. Creare. Resistere. Vincere. Nella sua testa si monta l’impalcatura di nuovi mondi. Una parola dopo l’altra. Un rigo dopo l’altro. Il buio come cornice per costruire. L’edificio delle storie. “Precisione nel linguaggio,” martellava suo padre. Scegliere il vocabolo esatto. Decidere la perfetta combinazione di sostantivi e verbi. Andare cauti con gli aggettivi. Imparare ogni giorno cinquanta parole nuove. Disciplina militare al servizio dell’espressione.
Oscurità. Silenzio. Respirazione. Battiti. Allunga il braccio nel nero vuoto. Sfiora le pareti umide. Sente un insetto sui polpastrelli. Lo palpa. L’insetto, forse una forbicina, gli sale sulla mano e avanza verso l’avambraccio. Avverte le piccole zampe tra i peli. L’insetto gli arriva al bicipite. Gira in cerchio. Fa il solletico. Con delicatezza lo toglie e lo rimette sul muro. L’animaletto si perde nella dimensione ignota dell’oscurità.
JC fa entrare la forbicina in una storia. Un uomo sepolto vivo si sveglia nel silenzio della tomba. Capisce l’errore. Non è morto e l’hanno seppellito. Grida per richiamare l’attenzione. Batte sulle pareti della bara. Nessuna risposta. Spinge il coperchio in un vano tentativo di uscire. Lo assale l’angoscia. Dai lati del feretro cominciano a spuntare forbicine. A migliaia. Gli percorrono il corpo, la faccia. S’infilano nelle maniche della camicia, nei pantaloni. Pullulano tra le sue pliche. L’uomo lancia delle urla. Quando apre la bocca, i neri fiumi di insetti gli penetrano fino alla gola. Ingoia zampe, carapaci, antenne. Ha dei conati, ma non riesce a vomitare. Le forbicine gli scendono nelle viscere. È invaso da dentro e da fuori. Con le loro minuscole mascelle iniziano a divorarlo. L’uomo si contorce dal dolore. Minuscole gocce di sangue gli ricoprono il corpo. Le forbicine lo bevono, avide. Gli si arrampicano negli occhi. Li masticano. Cerca di scacciarle a manate. Ne ammazza una, dieci, mille. Lo attaccano duemila, cinquemila, centomila. Lo sciame di forbicine lo lascia cieco. Gli consuma la lingua. Dalle narici gli irrompe nel cervello. Ingoia i suoi neuroni. L’uomo comincia a perdere i sensi. Il suo corpo è un brulichio di forbicine che entrano ed escono. Fra le chele portano suoi pezzi. L’uomo fa un ultimo… Si apre la porta. Una mazzata di luce. JC si copre gli occhi. Non basta chiuderli. I raggi luminosi gli soffriggono le palpebre. “Ora di ricreazione,” gli dice un secondino. In JC ribolle ancora la storia delle forbicine. Mascelle, mandibole, morsi. Toglie la mano. Gli occhi si abituano a poco a poco alla palla arancione. Ha perso la nozione del tempo. Il sole è allo zenit. Mezzogiorno. Tenta di alzarsi. È tutto contorto. Si muove come un robot senza olio. “Forza, che non abbiamo tutta la giornata.” Le giunture gli fanno male. Gli intestini ruggiscono. Emerge dal buco con difficoltà. Si raddrizza. Le vertebre scricchiolano. Puzza di fango e di umidità. Di insetto. Di forbicina. Di radici. Di pioggia.
Il secondino lo conduce al quadrangolo di cemento. Non c’è nessun altro. José Cuauhtémoc gira il collo da una parte all’altra. Si prende il ginocchio destro e lo tira verso il petto. Poi quello sinistro. Ruota le spalle. Non può permettere l’artrosi né l’artrite. Inspira a fondo. L’aria pulita entra nei polmoni e si porta via qualche millilitro delle tossine dell’isolamento. Alza la testa e sorride. Sorride unicamente per rompere le scatole, per dimostrare che con lui perdono tempo. Comincia a fare giri del recinto. Prima cammina, poi trotta e alla fine esplode in corse brevi. Stimolare il sangue, ossigenare il corpo. Ha bisogno di essere forte. Marina deve aspettare che esca. Forte per lei. Lei.
Appena uscirà dal cubicolo scriverà tre, quattro libri. Sembra che le storie gli affiorino dal corpo. Un campo seminato di storie. Storie costruite a partire dalle cellule. JC apre e chiude le mani. Deve rafforzare le dita per poter battere sulla tastiera per mesi, per anni, per lustri. Nessuno fermerà quel flusso. Le sue dita non tradiranno la cascata di storie immagazzinate nel suo cervello.
Il secondino gli intima di tornare nel buco. JC lo soppesa. Un suo cazzotto gli cancellerebbe quel sorrisino furbo e quel tanfo di ti-teniamo-per-le-palle-stronzo. Decide di acquietare il prurito di ammazzarlo. Fargli la festa significherebbe altre punizioni, altro cubicolo, meno Marina. E quello proprio no. Sopporta soltanto perché lei lo aspetta.
Entra e il secondino chiude il coperchio. Di nuovo i rumori smorzati, il fetore di palude, la cecità, le forbicine, le radici. Riprende la storia da dove l’ha lasciata. Le forbicine si cibano dell’uomo. Lo rosicchiano con le loro mandibole seghettate. Le femmine depositano uova nelle ferite. Spuntano le larve e inghiottono quello che si trovano intorno. Hanno bisogno di proteine per crearsi l’esoscheletro. Le forbicine accelerano il loro frenetico festino. Vogliono affrettarsi a far fuori la loro preda. L’uomo smette di opporre resistenza. Non c’è scampo. Decide di entrare in uno stato di pace. Di ricordare la vita mentre muore. Manca poco. Inspira aria. I suoi ultimi sospiri. Sente uno scossone che gli parte dalla pianta dei piedi. Lo risale come un serpente. Le forbicine eccitate non si fermano. Mordono, mordono. L’uomo allunga la testa all’indietro e lascia sfuggire un’esalazione finale. Il cadavere inizia a perdere calore. Le forbicine si affrettano. Non tardano ad arrivare i vermi. Inghiottono più che possono. Ore dopo scivolano nelle loro tane. Silenzio.
José Cuauhtémoc termina la sua storia. La ripete diverse volte ad alta voce per memorizzarla. A ogni ripetizione cambia parole, taglia frasi. Perfeziona. “Non esistono i sinonimi.” Deve trovare la precisione. Scrivere è un lavoro di precisione. Riscrivere. Correggere. Affinare. Gli cigola lo stomaco. Muore dalla voglia di qualche taco o di qualche panino al prosciutto e formaggio. Decide di non pensarci. La fame può farlo impazzire. La sete può farlo impazzire. La non-Marina lo fa impazzire. Pazzo, sempre più pazzo. Marina, Marina, Marina.
Quando cerca di dormire sente delle martellate sul coperchio d’acciaio. Sussulta. Chi è che bussa così? Fa attenzione. Grandina. Ton, ton, ton, ton, ton. La cazzo di grandine estiva. Palle da bigliardo che cadono dal cielo. Il rumore assordante. Quasi una sparatoria. Di nuovo: ton, ton, ton. Ora sì che può impazzire davvero. Come sfuggire a quello scoppiettio di ghiaccio?
Ha bisogno di altre storie per resistere. Raccontare. Raccontare. Raccontare. La follia comincia a minacciarlo. Lo sa. Altre storie. Altre ancora. La liberazione delle storie. Altre storie. Altre ancora.
Con mia sorpresa, Teresa non volle restare. Temeva un’altra cagnara con gli antisommossa e, quando seppe che Eleuterio non era nella lista dei morti, preferì andarsene. Julián, nonostante si fosse opposto alla mia decisione, scelse di rimanere al mio fianco. “Sei una pazza fottuta, ma ti voglio bene e non ti lascerò da sola in mezzo a questo casino.” Rocco, Rodrigo e Adrián Leal, un altro dei guardaspalle, rimasero con noi. Gli altri se ne andarono con Teresa. “Non posso mettere in pericolo i colleghi,” affermò Rocco, al quale la mia idea di proseguire nella protesta dovette sembrare una bizza da ragazzina ricca.
Gli antisommossa stabilirono un impenetrabile sbarramento intorno al penitenziario. Gli scudi davanti, i manganelli predisposti a colpire, pronti i fucili di gas lacrimogeno. Poliziotti a cavallo che giravano tra le file. Risuonavano gli zoccoli degli animali sull’asfalto. Non avevo mai visto equini così grandi e muscolosi. I gruppi di ragazzi con abiti civili e capelli a spazzola rendevano marcatamente nervosi sia gli agenti antisommossa sia i familiari che protestavano all’ingresso del penitenziario.
Con la loro esperienza militare, Rocco e Rodrigo valutarono la situazione. “L’unico modo di avvicinarsi all’entrata è da quel lato.” Mandarono Adrián parcheggiare il SUV e ci incamminammo verso l’ingresso del penitenziario. Robusti e allo stesso tempo agili, si mossero a grandi falcate verso il parcheggio contiguo alla prigione. Le poche auto parcheggiate avevano i vetri rotti, tracce della battaglia del giorno prima.
Passammo tra i Falchi in abiti civili e ci fecero largo in silenzio. Né un commento volgare, né una galanteria. Erano molto giovani, nessuno con più di ventiquattro anni. “Devono essere poliziotti federali,” mi sussurrò Julián. Quando ci vide, il capitano Vargas si avvicinò. “Io non vi raccomanderei di andare avanti. Potete ritrovarvi in mezzo al fuoco incrociato. I detenuti non esitano a sparare all’esterno.” Eravamo ad appena quaranta metri dalla porta principale. Lì sicuramente avrei trovato qualche staffetta disponibile ad andare a cercare José Cuauhtémoc per chiedergli di venire a incontrarmi. Volevo soltanto scambiare qualche parola con lui. Chiarirgli che lo amavo ancora e chiedergli scusa per la mia assenza. Per nessun motivo sarei tornata indietro. “Proseguiamo,” dissi al capitano. “La responsabilità è sua,” sostenne il poliziotto e con un cenno ordinò di lasciarci passare.
Avanzammo fino al punto in cui si trovavano circondati gli altri familiari. Erano una cinquantina. Gente di paese, umile. Nei loro visi segnati dal sole e nei loro corpi sciupati si rivelava la povertà. Avevano un bel fegato a stare lì in attesa di notizie o di intravedere, anche se da lontano, le persone care. La stessa mia speranza.
C’era puzza di urina e di merda. Diversi di loro dovevano aver dormito alle porte della prigione e avevano improvvisato un bagno con dei teli di plastica blu. Il fetore era intollerabile. Ci guardarono di sbieco. Evidentemente, li intimidivamo. Due armadi in giacca e cravatta, una donna più alta di tutti loro e un tipo barbuto e capellone. Passammo fra la gente e arrivammo al portone. Lo sorvegliavano diversi poliziotti federali. Erano grandi e solidi quanto Rocco e Rodrigo. A quanto pareva, avevano mandato l’élite della polizia all’occupazione del penitenziario.
“Cosa desiderate?” chiese uno degli ufficiali. “Assicurarci che un amico della signora stia bene,” rispose Rocco. Definire José Cuauhtémoc un mio “amico” rese evidente la storia d’amore. “Qui ci sono le liste recenti dei morti e dei feriti,” disse e indicò un cartello appeso a una parete. Scritti a pennarello c’erano i soprannomi delle vittime. “La Pulce, il Chato, il Pancitas, il Papero, il Pillo, il Chanoc, l’Orso.” Soltanto in alcuni casi li accompagnavano i cognomi: “il Tamal Santibáñez, la Papita Sánchez”. In totale, quattordici vittime, delle quali otto erano morte. Mi sollevò non vedere nella lista i soprannomi con i quali era conosciuto José Cuauhtémoc: “il Biondo, il Grande, il Vichingo”.
“Vorrei parlare con il mio amico,” dissi al poliziotto federale. Si voltò per guardarmi con assoluto disprezzo. “Qualcos’altro, signora?” chiese ironico. “No, soltanto questo,” risposi ferma. Il poliziotto scambiò un’occhiata con un altro al suo fianco e sorrise con una smorfia. “Entri a cercarlo, se vuole,” disse. Si scostò dalla porta. Fra tornelli e fili spinati, riuscii a scorgere il disastro. Decine di detenuti con i volti coperti dalle magliette facevano la guardia nei cortili. Falò accesi. I banchi delle aule e i materassi usati come barricate. Avevo visto quelle immagini soltanto in televisione o su Internet. Adesso di fronte a me c’era il palpitare più violento della rivolta.
“Non c’è una staffetta che possa andare a chiamare il mio amico?” domandai con assoluta ingenuità. Il poliziotto scoppiò a ridere. Julián si girò a guardarmi con aria incredula. La mia richiesta era completamente fuori luogo. “La signora è preoccupata per il nostro amico,” disse Julián in tono di scusa. Il “nostro” aiutò a togliere dal “suo” amico l’aura da amante. “Tutta la gente che sta qui è preoccupata e non viene da noi a chiedere stronzate,” sbottò il poliziotto. “E se la signora non è disposta a entrare per cercare il suo fidanzato, allora non date più fastidio e andate dove aspettano gli altri.”
Rocco mi portò un po’ in disparte. “Marina, il suo conoscente,” disse evitando l’“amico”, “non è nella lista dei feriti e dei morti. Le chiedo di andarcene.” A dire la verità, non c’era nient’altro da fare. Sarei potuta rimanere per il resto della settimana a fare la guardia e le informazioni su José Cuauhtémoc sarebbero arrivate con il contagocce. Era una fantasia pensare che un messaggero andasse a cercarlo e gli chiedesse di venirmi a incontrare. Anche riuscendoci, nulla garantiva che lui volesse parlarmi.
Passammo di nuovo tra i familiari, gli antisommossa e i gruppi d’assalto. La distante galassia dell’emarginazione e della violenza. I poliziotti a cavallo ci esaminarono dall’alto come se fossimo bestie ripugnanti e infette. Eravamo l’anomalia, l’eccentricità pura.
Adrián non era riuscito a parcheggiare nelle vicinanze e per raggiungerlo era necessario fare un lungo giro. Rocco non volle che passassimo di nuovo davanti al penitenziario e ci guidò per delle vie laterali. Lungo la strada ci imbattemmo in una panineria. Non toccavamo cibo da ore e li invitai a mangiare qualcosa. Tra un boccone e l’altro interrogai Rocco e Rodrigo. “Mi avete detto che le persone venute a protestare il primo giorno erano ‘cammellate’. Se è così, chi c’è dietro di loro?” Si scambiarono uno sguardo per qualche secondo. La presenza di Julián doveva metterli in soggezione. “Siamo in confidenza,” disse per incoraggiarli a parlare. Volevo sapere se condividevano la versione di Julián degli intrallazzi di Morales o se, per la loro esperienza nella lotta al crimine, intravedevano altri responsabili. “Io penso,” azzardò timidamente Rodrigo, “che siano coinvolti i gringos.” Quella sì che era una possibilità per me inattesa. “Come mai?” chiesi. Rodrigo si girò a guardare Rocco, il suo capo, in cerca di approvazione. Rocco annuì. “Ai gringos piace fare casino quando si avvicinano le elezioni presidenziali. Se il paese cade nel disordine e nell’anarchia, loro ci presentano come un nido di topi da mettere in riga. Posso scommettere che sono stati loro a finanziare l’acquisto delle armi per i detenuti e che quei ragazzi spuntati dal nulla sono paramilitari pagati dall’ambasciata americana.” La sua idea non sembrava assurda. Rocco e Rodrigo, addestrati da militari che avevano frequentato la Scuola delle Americhe, conoscevano le tattiche di destabilizzazione contro governi poco convenienti per gli Stati Uniti. Così era successo con il governo socialista di Allende.
Mi voltai verso Julián per vedere cosa rispondeva. La sua teoria della vendetta di Morales si trovava all’altro estremo dello spettro. Non si sarebbe dato per vinto così facilmente e mise in discussione le parole di Rodrigo. “E perché creare conflitto nelle carceri e non, per esempio, nei sindacati o nelle università?” Rodrigo sorrise. “In questo paese è il crimine che comanda. Colpire il crimine porta al disordine. E quando le acque s’intorbidano, a guadagnarci sono i gringos,” assicurò.
Se la teoria di Julián mi era sembrata una fesseria, quella di Rocco e Rodrigo mi fece scoppiare la testa. A quanto raccontarono, in diverse operazioni militari a cui avevano partecipato, avevano scoperto agenti dell’intelligence statunitense infiltrati in entrambe le fazioni della lotta al narcotraffico e affermarono che non era la prima volta che la CIA incitava rivolte nelle carceri.
Julián e i due ex militari mi stavano dando lezioni di descoglionol. Gli intrecci perversi a cui si riferivano erano per me inconcepibili. Da politici avidi di vendetta a sinistri operatori nordamericani che tramavano dalle caverne della clandestinità. Il mondo si srotolava sotto i miei occhi come oggetto di una lotta sorda e astuta al servizio di interessi oscuri.
Pedro mi chiamò per vedere come stavamo. “I miei guardaspalle sono lì per proteggerti, proteggili anche tu,” mi chiese. “Spero che ve ne andiate presto da lì.” Contro di me, o forse a mio favore, si era radicato in me un profondo senso di colpa. Oltre all’amore, ciò che mi spingeva a partecipare alle proteste era la colpa. Colpa per avere abbandonato l’uomo che amavo; colpa per non avere abbastanza fegato per piazzarmi davanti alla porta del carcere e non muovermi da lì; colpa perché ero una borghese rinchiusa in una realtà più falsa della scenografia di una telenovela. Colpa perché tradivo me stessa. Colpa cattolica contorta che mi punzecchiava se non prestavo attenzione a José Cuauhtémoc, colpa che poi mi esplodeva in faccia perché non mi occupavo della mia famiglia. Marionetta della colpa. Ribelle con il senso di colpa.
Ed era il senso di colpa che m’impediva di allontanarmi da lì. Nella mia fantasia rosea ero convinta che in qualche modo José Cuauhtémoc avrebbe saputo che ero là fuori, vicina a lui. Uno dei detenuti mi avrebbe riconosciuta, avrebbe detto a un altro prigioniero di avermi vista e lui l’avrebbe detto a un altro fino ad arrivare alle sue orecchie. Era importante per me che lo sapesse. Per amore, per senso di colpa, perché sì. “Non devono restare con me,” risposi a Pedro. “Me la cavo da sola.” Se donne anziane di ottant’anni resistevano alla minaccia di essere schiacciate da cavalli giganti o di farsi spaccare la testa da una manganellata, perché io no? La differenza tra loro e me, doloroso riconoscerlo, è che loro non erano lì per un senso di colpa, ma perché lo ritenevano un obbligo morale verso le persone amate.
Con l’intento di darmi una lezione o per farmi pressione affinché me ne andassi da lì, Pedro ordinò a Rocco di lasciarmi cuocere nel mio brodo. “Se vuole giocarsi la vita, perfetto, che se la giochi. Voi no, però, e neanche Julián. Tornate immediatamente.” Sentii ogni sua parola per quanto Rocco avesse tentato di coprire l’auricolare con la mano. “Mi spiace, signora, dobbiamo andarcene,” si scusò. “Spero che decida di venire con noi.” Mi voltai verso Julián per sapere cosa avrebbe fatto. “Vado con loro, non vedo nessun senso a restare qui.” Mi tremarono le gambe. Ora sì che dovevo dimostrare di che pasta ero fatta.
Partirono e rimasi sola. Mi diressi di nuovo verso le porte della prigione. Dai tetti salivano altre scie di fumo. Nonostante l’innumerevole quantità di persone, campeggiava il silenzio, rotto soltanto dall’occasionale nitrito di qualche cavallo. Superai lo sbarramento degli antisommossa. Stavolta sì che sentii sguardi lascivi. Senza la protezione delle due torri che mi sorvegliavano, mi sentii fragile. Non mi tirai indietro. Passando tra due agenti, uno di loro mi palpeggiò. Continuai a camminare. Affrontarlo sarebbe stato inutile e mi avrebbe soltanto messa in una situazione ancora più vulnerabile.
In lontananza scorsi una figura conosciuta. Rosalinda del Rosal, la celeberrima tagliadita moglie della Carogna. Avanzava decisa fra decine di poliziotti. Era vestita all’uso mazahua, con gonne di colore rosa e una camicetta ricamata. La sua fama doveva precederla, perché gli agenti antisommossa si scostavano per farla passare. Mi avvicinai a lei. “Donna Rosalinda, si ricorda di me? Ci siamo conosciute in parlatorio.” La donna mi squadrò. “Sì, sei la tipa del biondo grande e grosso, cosa vuoi?” domandò brusca. Non potevo farmi mettere in soggezione, tanto meno in quelle circostanze. “A lei la rispettano e se le danno la possibilità di entrare in carcere, voglio entrare con lei.” Mi osservò per alcuni secondi senza smettere di percorrermi il corpo da cima a fondo. “Vieni, vediamo cosa si può fare.” Rosalinda si avviò e, audace, s’infilò tra la folla.
Il cloruro mercurico si mescolò con l’acqua potabile. La morte liquida che raggiungeva rubinetti, pompe, sifoni. La morte liquida acquattata in bicchieri, bottiglie, recipienti, pronta a demolire gli organi di chi la beveva. H2O + HgCl2, la molecola ideale per radere al suolo la tana del suo nemico e fulminarlo. Il godimento di immaginarlo mentre si contorceva tra coliche e vomito superò lo scrupolo morale di far fuori altre persone. Se Pablo Escobar aveva fatto esplodere in volo un aereo con più di duecento passeggeri per cancellare un candidato presidenziale dalla faccia della terra, perché lui doveva preoccuparsi di un mucchio di carogne che non valevano manco due noccioline?
Il Macchina si spostò di nascondiglio in nascondiglio. In ognuno mise radio e televisori per seguire le notizie. Comprò perfino del sidro per festeggiare il momento esatto in cui l’ex secondo posto di Miss Tlaxcala avesse annunciato una catasta di morti nel Reclusorio Oriente e avesse nominato JC nella lista. E se vi compariva, a brindare.
Niente. Neanche un servizio su dei morti nel gabbio o annessi e connessi. Telegiornali zeppi di servizi sulla marcia dei professori e sull’aumento del tasso di criminalità nel Nordest del paese per colpa di quei malandrini degli Altri-Altri Altri-Altri. Sugli schermi divulgavano le fotografie di Macedonio. I vertici della polizia offrivano cinquecento chili di verdoni a chi desse informazioni su di lui. Macedonio, il principe maligno ostinato a devastare città, paesi, villaggi. L’iconoclasta, il vandalo ubiquo. Il Macchina aveva la suggestione di essere l’erede naturale di Macedonio, il Geronimo dei piccoli narcos. Appena l’avessero fatto fuori, lui avrebbe preso il suo posto.
I mezzi d’informazione non lo dissero, per cui don Otello non riuscì a saperlo, però dal nulla decine di detenuti si erano ammalati. Le autorità non ne azzeccavano una. Le analisi dei cibi non avevano rivelato contaminazione microbica che giustificasse i sintomi: sudore porco, spasmi, pelle giallo malarico, reni dinamitati, colpi apoplettici, coma e punto finale. La tensione a mille quando famiglie delle zone vicine cominciarono a soffrire di schifezze simili. Un caso per Sherlock Holmes.
Subito imputarono l’intossicazione collettiva alla discarica di materiali pesanti e di residui industriali di una vicina fabbrica di vernici. Tubature corrose avevano provocato infiltrazioni nella rete dell’acqua potabile. Con dito fiammeggiante i funzionari si affrettarono a indicare i proprietari. “Per colpa loro moltissime persone sono condannate a subire conseguenze gravi e irreversibili o perfino la morte,” e blablablà. Gli amministratori della fabbrica non se ne stettero zitti. Col cacchio, loro non gettavano nessun tipo di sostanza negli scarichi. La processavano in fusti e la mandavano dritta alle discariche di residui pericolosi. Le autorità fecero “un’ispezione” e niente, non erano loro. E malgrado ciò chiusero la fabbrica. Non si trattava di trovare i responsabili, bensì dei colpevoli.
Il sottosegretario pretese discrezione dai suoi subalterni. “Zitti e mosca.” Non valeva la pena uno scandalo mediatico per la morte di un po’ di stracciafacenti. Divieto assoluto di divulgare quant’era successo. Il sottosegretario ordinò di raccontare ai familiari dei morti la favoletta della fabbrica assassina. “Nessuno di quegli imprenditori rapaci sfuggirà al peso della legge,” spiegò. Chiusero la fabbrica omicida e “morto il cane, finita la rabbia,” disse con tatto sublime il sottosegretario.
I detenuti rimasero calmi. Era corsa voce che si trattasse di un’epidemia di ebola portata da un immigrante nigeriano. Un bel po’ di loro si prese tanta strizza che non affacciò fuori neanche la testa. Rimasero tranquilli nelle loro gabbie. Sospiro collettivo quando si seppe la causa: degli industriali stronzi avevano sversato sostanze tossiche nella rete dell’acqua potabile.
Solo che quelli che sopravvissero alla trafittura mercurica non riuscirono a guarire. Di più, dovettero preferire la morte. La loro salute precipitò in cantina. Falle organiche, perdita di memoria, emicranie come mazzate, fitte come coltellate, parestesie. Era come morire al rallentatore. Neanche di questo venne a sapere don Otello. Neanche una piccola sbavatura sulla stampa, alla radio, in Internet o alla televisione, così ferreo era il controllo dell’informazione da parte del governo. Frustrato dalla mancanza di notizie, cominciò a ideare nuovi modi di vendicarsi, senza sapere che ne aveva già fatti fuori quindici e resi invalidi a vita altri novantanove, tra i quali, per sua fottuta malasorte del cazzo, non era annoverato José Cuauhtémoc.
Il biondo non era tra i caduti per una semplice ragione: mentre gli altri detenuti bevevano acqua di tamarindo mercurizzata, lui si trovava in uno scatolone buio a mormorare tra sé un’opera interminabile. Recitava le righe a voce alta per non impazzire. A furia di ripeterle cominciò a credere che fosse un altro tizio a farlo. Si metteva a chiacchierare con quell’altro tizio. Gli domandava chi era e che cosa voleva. Dopo alcuni minuti, JC si rendeva conto della propria coglionaggine. “Nessuno mi parla, non c’è nessuno qui. Sono io stesso che parlo ad alta voce.” A poco a poco tornava alla realtà e si rimetteva a costruire storie.
Il vuoto di luce gli provocò un vuoto di senso. Sopravviveva a marce forzate. Soltanto per pura forza di volontà non si era messo a dare testate contro le pareti di cemento fino a lasciarci le cervella. Suicidio a colpi di testa. JC non era in condizioni di saperlo, ma tre tizi si erano tolti la vita così. Dagli e ridagli fino a lasciare sparpagliata la massa encefalica. Lui non si sarebbe ucciso. Troppa opera e troppa Marina lo aspettavano fuori.
A tentoni si tirava fuori la nerchia e se la menava pensando a lei. Quando veniva, alzava la mano alla cieca e leccava lo sperma che gli scorreva fra le dita. Berlo per ricordarla, berlo per alimentarsi. Dopo poche ore tornava a fare su e giù e di nuovo, alla Crono, divorava i suoi mini José Cuauhtémoc.
Gli orgasmi lo lasciavano tra il lusco e il brusco. Chiudeva gli occhi – misura inutile, vista la sua condizione di pipistrello – e si addormentava finché le fitte alle articolazioni lo svegliavano. Appena si schiariva la testa cominciava a concatenare parole ad alta voce. Dopo un po’, si fermava ad ascoltare il tizio invisibile. “Chi sei? Che vuoi?” Attento, si concentrava sulla risposta. Niente, silenzio. Lo sfioramento delle forbicine lo faceva saltare. Sì, lì c’era qualcun altro. Smanacciò per allontanarlo. Di colpo, la luce. Aghi solari gli beccarono la retina. Si coprì gli occhi con entrambe le mani. “Ora della ricreazione,” gli disse uno spettro. “Chi sei? Che vuoi?” gli rimbombava ancora nel cervello. Le tenebre biancastre lo stordirono. L’oscurità lavata con il detersivo al cloro. A poco a poco, le pupille si abituarono al bombardamento di bagliore. Guardò in basso. Mucchi di forbicine fuggivano sul cemento. Il tizio di dentro si era rotto in pezzettini rossi. “Ora esci,” gli ordinò la macchia biancastra.
Uscì come un coccodrillo al sole. Le ossa, i legamenti: vetri rotti. Si raddrizzò e a stento riuscì a reggersi in piedi. Cominciò a perdere il senso dello spazio. La realtà smise di essere tridimensionale per trasformarsi in una scenografia piatta, spianata. “Cammina,” gli disse quello lì accanto. JC esaminò il pavimento. Come cazzo fare un passo in quella nebulosa? La massa informe lo spinse. “Forza, stronzo, cammina.” Per non crollare come una vacca, JC fece due baby steps. Un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità. Un fiotto di sangue gli salì dal plesso solare al cervello. Decine di formichine gli restituirono molto lentamente la coscienza del mondo. La bava luminosa era un secondino. Di fronte a lui, un cortile. “Mi chiamo José Cuauhtémoc Huiztlic e mi hanno rinchiuso nel maledetto cubicolo. Secondo me dev’essere giovedì ed è giugno. Ho quarantadue anni. Non c’è nessuno con me là dentro. Non posso dimenticare nemmeno una sola delle storie che scrivo nella mia testa. Sono innamorato di Marina e lei mi aspetta.” Le domande che si era fatto non erano per il tizio invisibile con cui condivideva il pozzo, ma per se stesso. Aveva risposto alla prima: chi sei? Mancava la seconda: che vuoi?
Ah, La Vita! Così, con le maiuscole. Senza preavviso ti fa fare una piroetta acrobatica e di colpo finisci in un posto completamente inaspettato. Circostanze isolate all’improvviso s’intrecciano e, zac!, la barchetta che tu sei viene trascinata da una corrente sotterranea nella direzione contraria a quella in cui pensavi di andare. Tornando dal penitenziario in taxi, trovai il cellulare zeppo di messaggi. Decine di Pedro e Julián che m’incitavano ad andarmene da lì il prima possibile. Nessuno dei due aveva creduto che sarei rimasta nella protesta e si erano preoccupati vedendo che non leggevo i loro messaggi da ore. Uno di Julián diceva: “Mi pento di averti lasciata sola.” Pedro era più lapidario: “Credevo che fossi idiota, ma non a questi livelli superlativi. Chiamami subito.” Sorrisi. Ancora una volta avevo dimostrato a me stessa la capacità di fare le cose a modo mio. Forse sì, idiota a livelli superlativi, ma alle mie condizioni.
Tra gli innumerevoli messaggi ce n’era uno laconico di Alberto: “Sono successe delle cose. Vieni prima possibile a Danzamantes.” Se Pedro e Julián soffrivano di incontinenza verbale, Alberto era stitico. Bisognava cavargli le parole con il forcipe. Introdurglielo in fondo alla gola ed estrarne un paio di misere frasi. Quello sì, bisognava attenersi alle conseguenze. Sarebbero state frasi caustiche, punte di frecce piene di veleno di rana dorata. Inutile chiamarlo al cellulare. Conoscevo in anticipo la sua risposta: “Vieni, ne parliamo qua.” Perciò chiesi al tassista di cambiare strada e di andare a Danzamantes.
Quel “sono successe delle cose” di Alberto poteva significare da un incidente grave alla sua preoccupazione per una truffa contabile. Alberto non era allarmista per natura. Cauto, mi avrebbe importunata soltanto per un caso straordinario, e questo doveva esserlo. Appena arrivai a Danzamantes ebbi una stretta al cuore. Contrasto brutale fra le sorridenti bambine che finivano le lezioni e le donne che si affannavano sullo spiazzo davanti al carcere. Il mio stato d’animo non era dei migliori per ricevere brutte notizie, anche se ero preparata al peggio: una ballerina con una frattura, una rapina alle installazioni, casi di molestia sessuale.
Nulla nell’atmosfera di Danzamantes faceva pensare a un disastro. Facce stanche per ore di prove, madri indaffarate a riprendere le figlie, animazione, sorrisi. M’incamminai verso l’ufficio di Alberto. Lo trovai che controllava la posta al computer. Quando mi vide, si alzò per accogliermi con un bacio. Non era granché affettuoso, ma sembrava contento. “Cosa succede?” gli domandai. “Una buona e una cattiva notizia,” mi disse. “Prima la cattiva.” Alberto mi chiese di sederci. “È così cattiva?” gli domandai. Alberto sorrise. “Ti ricordi che Lety aveva registrato con il suo cellulare una delle prove?” Scossi la testa. Non avevo idea di cosa stesse parlando. Negli ultimi giorni, nella mia testa Danzamantes era a una distanza oceanica. “Be’, Lety ha caricato il video su Facebook.” Una delle regole più severe a Danzamantes era il divieto di mettere in rete materiale registrato delle prove. Erano processi intimi, vulnerabili, e non c’era motivo di far prendere loro aria in pubblico. Anche se Lety si era scusata, Alberto l’aveva espulsa da Danzamantes. Visto il mio distacco dalla compagnia, era autorizzato a farlo senza attendere il mio avallo. Lety se n’era andata contrita, fra le lacrime. “Hai fatto bene,” gli dissi. Lety non era la nostra migliore ballerina e cacciarla trasmetteva un messaggio agli altri.
“La buona notizia,” proseguì Alberto, ed ecco il tiro mancino della vita, “è che il video è stato visto da Ohad Naharin e gli è piaciuto moltissimo. Ha mandato una mail in cui ci chiede se siamo disposti ad andare al Festival di danza contemporanea di Tel Aviv e poi al Lincoln Center.” Rimasi di sasso. Per noi, Ohad Naharin era una specie di semidio. Un genio, un innovatore. Insieme a Biyou, uno dei coreografi più originali e audaci. Il suo invito, un sogno. “Per quando?” indagai. “È questo il problema,” spiegò Alberto, “fra tre settimane.”
Tre settimane voleva dire chiuderci in studio giorno e notte a perfezionare i movimenti. Dovevo reintegrare Lety, non c’era tempo per portare avanti la coreografia con un’altra ballerina. Sarebbe stato un lavoro massacrante con una concentrazione assoluta. Sacrificare tutto il resto in vista di un trionfo professionale. Ero sicura che Claudio mi avrebbe appoggiata. Sapeva della mia ammirazione per Ohad e dell’importanza di andare a Tel Aviv. I miei figli avrebbero condiviso la mia gioia ed era un’occasione per farli venire con me a vedere la danza ai più alti livelli.
Questa opportunità d’oro, lungamente desiderata, voleva anche dire abbandonare José Cuauhtémoc in una fase critica. Non avrei potuto vederlo, né parlarci, né fare l’amore, né essere al suo fianco. In altre parole, troncare di netto il rapporto, una cosa che non avevo la minima intenzione di fare.
Grazie a Rosalinda del Rosal, quella mattina ero finalmente riuscita a incontrarlo. Rosalinda era una figura mitica in alcuni strati sociali. La sua crudeltà nei confronti delle vittime che il marito aveva sequestrato, la sua tempra nell’affrontare la stampa, le sue risposte argute, la sua spavalderia avevano suscitato ammirazione perfino nelle autorità. I poliziotti l’avevano trattata con un rispetto prossimo al servilismo, più degno di una first lady che di una volgare e sanguinaria sequestratrice. Il suo merito: incarnare la rabbia sociale. Le ragazzine a cui aveva affettato le dita per spingere al pagamento del riscatto erano, in gran parte, figlie di politici corrotti o di imprenditori disonesti. Non dovevano pagare per i peccati dei genitori, che, in alcuni casi, perfino ripudiavano. Ma pur sempre figlie di papà, erano l’esca perfetta per intascare somme astronomiche. Quando l’avevano arrestata e l’avevano presentata alla stampa, Rosalinda si era piantata di fronte alle telecamere e non aveva battuto ciglio. Non si era mai mostrata nervosa. Al contrario, si era comportata in maniera sprezzante e altezzosa. Alla domanda di un giornalista, Rosalinda aveva risposto con la frase che l’aveva resa celebre: “Io ho tagliato delle dita, ma a me e alla mia gente, in questo paese di merda, hanno tagliato le ali e i piedi.” Lo diceva un’indigena di meno di un metro e cinquanta di statura che fissava i fotografi senza farsi intimidire né dallo sbarramento di poliziotti mascherati, né dai flash, né dai genitori delle sue vittime che volevano smembrarla viva e le urlavano insulti.
La sua vena poetica, sebbene kitsch, aveva provocato sorpresa. Una gran parte della popolazione si era identificata con le sue parole. Rosalinda aveva continuato il suo discorso: “Sono diventata una sequestratrice perché ero fottuta, morta di fame, perché ai miei non hanno mai reso giustizia, perché i nostri figli muoiono di diarrea, perché i nostri vecchi muoiono di freddo, perché ci hanno portato via le nostre terre e i nostri modi di vita. Cos’altro può fare una donna come me in questa nazione di figli di puttana? Sì, sono stata una bastarda e un’approfittatrice e sapete una cosa? Ficcatevi nel culo quello che pensate…”
Quella mattina avevo percorso lo spiazzo della prigione accanto alla Idi Amin indigena, alla rappresentazione stessa del Male. Ci facemmo largo tra le file di agenti antisommossa. Nessuno si azzardò a fermarla o a disturbarla. Quando si scambiavano sguardi con lei, gli antisommossa abbassavano la testa, intimoriti. Rosalinda rappresentava la radice contorta e putrida del crimine organizzato ed era meglio non guardarla negli occhi. Arrivammo alle porte del carcere e senza esitare si rivolse al comandante della polizia federale. “Salve,” lo salutò. “Buongiorno,” rispose il comandante. Non sapevo se si conoscessero da prima, ma si percepiva una certa familiarità tra di loro. “Siamo venute a trovare i nostri uomini,” disse lei. Il poliziotto indicò con il mento le barricate in cortile, i falò fumanti, le decine di detenuti a torso nudo e con i volti coperti. “Be’, vediamo se li riconoscete.” Rosalinda esaminò gli ammutinati e si voltò di nuovo verso l’ufficiale. “Tu sai che né il mio uomo né l’uomo di questa qua,” disse riferendosi a me, “si infilerebbero in queste cazzate.” L’atteggiamento della piccoletta era davvero fiero. Parlava con assoluta sicurezza e senza timore di nulla. E senza timore s’infilò verso i tornelli di accesso alla prigione. “Vieni, bionda, andiamo a cercare i nostri galli capponi,” mi disse. Il comandante non fece il minimo sforzo per fermarci. Passammo davanti ai suoi agenti e, prima di entrare, il comandante la chiamò. “Rosalinda, soltanto non fate troppo casino perché là dentro c’è una commissione che sta negoziando con i prigionieri. Non pisciate fuori dal vaso perché, se lo fate, allora sì che vi spariamo.” Rosalinda sorrise come se si trattasse della battuta più divertente del mondo e non di una minaccia di morte. “Non dargli retta, a quel coglione, è tutto chiacchiere e distintivo,” mi disse e superò il tornello.
Se fin da prima il carcere mi metteva soggezione, vederlo in stato di guerra fece quasi sì che mi tradissero gli sfinteri. Non era la stessa cosa vedere il cortile occupato dal di fuori che avere di fronte a noi un esercito di criminali decisi a immolarsi. Rosalinda li osservò con disprezzo. “Questi qua si credono Rambo, ma sono soltanto marionette degli altri.” Non sapevo a chi si riferisse, ma in quel momento, con lo stomaco grippato e le ovaie che mi erano risalite fino al naso, non ero in condizioni di chiederglielo.
Avanzammo verso le trincee e ci fermammo. Rosalinda scrutò i detenuti con attenzione e fischiò infilandosi il pollice e l’indice fra i denti. Diversi rivoltosi si girarono verso di noi. “Venite qua,” gli ordinò. I detenuti si scambiarono delle occhiate. Chi era il coraggioso che sarebbe andato da quella vecchia pazza? Impossibile che non sapessero chi fosse. Dopo un po’ di dibattito fra loro, due degli scamiciati vennero verso di noi. “Cosa vuole, signora?” le chiese il più alto dei due. “Prima di tutto, che ti togli quella maglietta dalla faccia perché non ti sento bene,” pretese Rosalinda. Il ragazzo esitò. La maschera gli consentiva di rimanere anonimo. Si tolse la maglietta. La sua faccia era quella di un adolescente. Radi baffetti gli coprivano appena il labbro superiore. “Vai a cercare mio marito e il tipo di questa qua,” gli ordinò la piccoletta. Il ragazzo la guardò dubbioso. “Chi è suo marito?” domandò. Forse era troppo giovane per sapere della notorietà pubblica di Rosalinda e della Carogna. “Lo sai benissimo, smettila di fare il coglione. Vallo a cercare e porta anche il biondo grande e grosso, che è l’uomo di questa qua.” Prima che se ne andasse, lo fermai. “Di’ a José Cuauhtémoc che lo cerca Marina.” Il ragazzo annuì e insieme all’altro si voltarono e corsero verso l’interno della prigione.
Alcuni minuti dopo, i due tornarono seguiti dalla Carogna e da José Cuauhtémoc. Soltanto a vederlo, un terremoto. I miei muscoli scossi dalla testa ai piedi. Palpitazioni. Visione a tunnel centrata su di lui. Il resto si cancellò. Accidenti, com’ero innamorata. Camminò verso di me e si fermò a pochi centimetri. “Credevo che non ti avrei mai più rivista,” disse. Senza una parola, lo abbracciai e appoggiai la testa sul suo petto. Anche il suo cuore batteva accelerato. Mi baciò sulla fronte. Lo strinsi ancora di più. “Scusa,” mormorai. Come avevo fatto a sopravvivere senza il suo odore, senza i suoi baci, senza le sue carezze? Cosa cazzo ci facevo lontana da lui? Aveva perso peso e muscolatura. “Sei magro,” gli dissi. Si scostò da me e mi prese il viso con entrambe le mani. “Lasciati guardare,” disse. Ci fissammo per qualche secondo. “Ti giuro che non ti lascerò mai più,” gli dissi. Lui scosse la testa. “Non giurare più su una cosa che non manterrai.”
Restammo insieme un altro paio di minuti. Si sentì un mormorio crescente. Guardammo alle nostre spalle. Una colonna di poliziotti federali, con giubbotti antiproiettile, caschi e mitragliatori, cominciò a schierarsi all’altra estremità del cortile. Dalla parte opposta, i detenuti iniziarono ad appostarsi con le armi nelle trincee. “Andatevene subito,” ordinò la Carogna. Prese per un braccio José Cuauhtémoc e senza dire una parola lo tirò per portarselo via. Ci voltammo e ci avviammo in fretta. Rosalinda era audace, non stupida. Sapeva quando le cose si sarebbero messe male. Tentai di guardare ancora una volta José Cuauhtémoc, ma si perse in fretta fra le truppe ribelli. Spirava vento di battaglia e noi alla mercé di un fuoco incrociato. La paura mi fece pesare sempre di più i piedi. Mi stavo paralizzando. “Forza, ragazzina, che ti riducono come un colabrodo,” disse Rosalinda e mi spinse a proseguire. “Non riesco a muovere le gambe,” la avvisai. “Certo che ci riesci,” disse e mi tirò per un braccio. Era forte, quella minuscola donna, perché a strattoni mi tirò fuori dal carcere. Senza frenare, andammo avanti fino a superare lo sbarramento degli antisommossa.
Ormai distanti dal penitenziario, Rosalinda si era voltata verso di me. “Figlia mia,” mi aveva detto in tono materno, “tu non sei fatta per queste cose. Lascia in pace quel povero stronzo, che si vede chiaramente che lo stai facendo impazzire, e stai in pace anche tu, che pure stai impazzendo.” Sentivo ancora le gambe piene di cemento. Lo stomaco attorcigliato. I denti sul punto di esplodere in pezzi. “Sono già pazza,” le avevo risposto con fermezza. “No, figlia mia, tu non hai idea di quel che dici. Io sì che so cos’è la pazzia ed è un posto dove non vuoi andare. Sei ancora in tempo per filartela. Dammi retta.” Mi aveva guardata ancora per qualche secondo e, senza salutare, si era allontanata fra le stradine.
“Ci penserò,” dissi ad Alberto. “Pensare a cosa?” domandò incredulo. “Se andiamo a Tel Aviv.” Alberto sospirò. “Ci ha cercato Ohad Naharin. Ti dice qualcosa?” Qualche mese prima avrei festeggiato alla grande con lo champagne. Solo che qualche mese prima non sarei stata capace di creare neanche il due per cento della coreografia che avevo elaborato adesso. Avevo lo stesso corpo, lo abitava un’altra Marina. Un’altra molto altra. “Certo che Ohad mi dice qualcosa,” risposi. “Ci penserò.”