Ho ascoltato Liliana Segre una sera di qualche anno fa, quando l’avevo invitata a parlare alla Villa Sacro Cuore di Triuggio, vicino a Milano, in occasione di un Consiglio pastorale diocesano. Mi colpì subito il suo modo pacato e oggettivo di parlare di argomenti tremendi, con una fortissima partecipazione emotiva che traspariva dietro le parole ma non cadeva mai nella retorica. Mi colpì anche la sua assenza di odio, il suo amore per la vita, la sua capacità di cogliere segni di vita anche in luoghi di morte.
Tutte queste cose ho ritrovato in queste pagine che ora vengono pubblicate e che, come quella sera a Triuggio, fanno stare col fiato sospeso e insieme non lasciano l’impressione di amarezza o di disperazione, ma piuttosto di una fiducia nella vita e nella forza di resistenza della persona umana di fronte al male che a un certo punto si esprime nella ammonizione: «Non dite mai “non ce la faccio più”». […]
Ho riletto con commozione quelle parole che già mi avevano tanto colpito allora, quando Liliana Segre raccontò come, nel momento della liberazione, con la pistola del suo aguzzino ai suoi piedi, avrebbe potuto compiere un gesto di vendetta. La tentazione ci fu «ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita, che mi fece capire che io mai, per nessun motivo al mondo, avrei potuto uccidere».
C.M. Martini, Prefazione a E. Zuccalà, Sopravvissuta ad Auschwitz. Liliana Segre testimone della Shoah, Paoline, Milano 2005, 5-7.
Ho un ricordo indelebile del cardinale Carlo Maria Martini. Le occasioni di incontro diretto non furono molte, ma sempre molto significative e intense. E comunque tutta la sua opera, direi la sua vita, predisponeva all’attenzione e alla considerazione.
In quelle occasioni trovai sempre conferma alla sensazione che la sua missione e la sua stessa figura fossero di esempio e insegnamento e stimolassero chiunque a prendersi cura del Mondo e dell’Altro.
Del resto quando ormai oltre trent’anni fa sentii il dovere, dopo decenni di silenzio, di rendere pubblica testimonianza della mia vicenda, la concepii subito proprio come testimonianza di vita. Di vita e non di morte. Sempre ho tenuto a far passare il messaggio che, anche di fronte al dolore e anzi all’orrore, quello che ebbe il suo culmine nella Shoah, noi che non siamo come loro, come gli assassini e gli sterminatori, dobbiamo far sempre prevalere i valori della vita. Mai dimenticare, mai perdonare, ma mai neanche uccidere, né vendicarsi, sempre invece coltivare «virtute e canoscenza».
Sono gli strumenti migliori contro di loro. Gli strumenti adatti per prosciugare i pozzi di ignoranza e incoscienza che alimentano certe aberrazioni, certi modi di pensare e di agire.
Così quando nel 2018 il presidente Sergio Mattarella, in modo del tutto inaspettato, mi ha nominata senatrice a vita della Repubblica ho preso subito molto sul serio la mia nuova responsabilità. Si trattava infatti di una straordinaria opportunità per portare avanti e anzi rafforzare un discorso intrapreso già da anni. Un discorso di informazione e testimonianza soprattutto a ragazze e ragazzi, nelle scuole, nelle università, in Italia e all’estero.
Perché tanti sono ancora oggi i problemi che spingono all’impegno e richiedono attenzione e iniziativa.
Per esempio una cosa che non manca mai di colpirmi molto di questi tempi sono i discorsi dell’odio, che invadono lo spazio pubblico e quello dei social. Mi colpiscono particolarmente perché io l’ho vissuto l’odio, so che vuol dire. Ho vissuto un tempo in cui io dovevo essere odiata, già da quando bambina fui espulsa dalla scuola. Una cosa assurda, aberrante, umiliante. Perché voleva dire essere cacciati dalla comunità civile, dal circolo delle mie amiche e compagne di classe. Nessuno voleva più vedermi, frequentarmi, nessuno mi invitava più. Mi fu negato già a otto anni il diritto che direi naturale di tutti i bambini alla condivisione, all’affetto, al divertimento, soprattutto all’istruzione. E queste non sono solo memorie di un tempo lontano. Ancora oggi nel mondo quei diritti sono negati a milioni di bambini e bambine, per lo più per ragioni di povertà e arretratezza, ma anche per ragioni di discriminazione razziale e religiosa.
Sempre mi batterò contro l’indifferenza a fronte di questi problemi. L’indifferenza, quella per cui tanto patirono gli ebrei al tempo delle persecuzioni razziste del fascismo e del genocidio perpetrato dai nazisti.
L’antidoto è sempre conoscere, approfondire, ragionare con la propria testa, mai girarla dall’altra parte. Prendersi cura, I care, «il contrario del fascista “me ne frego!”», come diceva sempre don Milani.
Mi ricordo che in occasione del mio primo, brevissimo, intervento in Senato dichiarai: «Io sono stata una clandestina con i documenti falsi, io sono stata una richiedente asilo, che mi è stato negato. Io sono stata deportata per la colpa di essere nata». La storia e la memoria rimangono indispensabili per capire e fronteggiare il presente: quello della povertà, della migrazione, della discriminazione, della violenza, delle guerre.
Quando io e mio padre facemmo l’ultimo disperato tentativo di fuggire in Svizzera le guardie di frontiera ci dissero con freddezza e cinismo: «La Svizzera è piccola e la barca è piena!». E ci ributtarono indietro in braccio ai fascisti; segnando il nostro destino.
«La barca è piena!» Anche oggi per molti è una parola d’ordine.
Le situazioni non sono paragonabili; la Shoah e il dramma odierno dei migranti respinti non hanno elementi in comune. Salvo uno: l’indifferenza.
Ricordiamo, quando assistiamo silenziosi alle migliaia di senza nome che annegano nel Mediterraneo, che noi nei campi di sterminio eravamo Stücke («pezzi»), senza nome, solo un numero. Nessuno si occupava di noi, c’era la terribile solitudine dei morituri al cospetto di un mondo insensibile, ignorante, che non volle vedere, non volle capire, non volle intervenire.
Il cardinale Martini mi disse e ha anche scritto di esser stato colpito dalle parole che spesso ripeto ai ragazzi: «Siamo fortissimi!», «Non dite mai non ce la faccio più!». In verità ho sempre inteso dire che proprio la forza che tenne in vita noi sopravvissuti della Shoah negli ultimi mesi della reclusione, ma poi anche negli anni a seguire, è la forza che ogni essere umano ha in sé. Solo in parte forza fisica, perché noi eravamo sfiniti e a un passo dalla morte per denutrizione e spossamento, ma forza morale, religiosa anche, soprattutto voglia di vivere, attaccamento alla vita, speranza di salvezza e ritorno.
Questa forza interiore ognuno di noi deve sempre cercare di tirar fuori, mai disperando e mai abbandonandosi.
Proprio attingendo a queste risorse nascoste riusciremo non solo ad affrontare la vita, ma anche a essere persone migliori, in un mondo migliore e più giusto. Quando oggi, mentre un miliardo e mezzo di persone muore di fame, noi sprechiamo risorse e cibo, lasciamo scadere in frigorifero una cosa che ci piace meno di quell’altra, non pensiamo a questo mondo di affamati che guarda, e magari vede questo nostro scempio, questa nostra distruzione di ricchezza. Ebbene quando questo accade, quando accade questa ingiustizia, questa crudeltà, questa indifferenza allora significa proprio che abbiamo ancora molto da imparare e da fare.
A questo amore per la vita io penso, a questa sensibilità. Non un valore astratto, ma una scelta per la sopravvivenza di milioni di persone e anzi dell’intero nostro pianeta.
Su questo il cardinale Martini era particolarmente attento ed era un altro elemento di grande condivisione fra di noi.
Perché oggi invece predominano altri modelli e altri disvalori. Mi hanno sempre colpito queste serie televisive a puntate che durano venticinque anni, in cui ci sono solo sempre vite di consumo, dove il messaggio che passa è sempre lo stesso: edonismo, consumismo estremo, esteriorità.
E invece nostro dovere è testimoniare che c’è dell’altro, che la vita è altro, che il nostro ruolo deve essere quello non di osservatori passivi e complici, ma di soggetti quanto più possibile consapevoli e attivi.
È il senso di un altro episodio della mia vita che colpì molto il cardinale Martini e che voglio qui richiamare.
Era al termine della Marcia della Morte. Un incubo a tappe durato dal gennaio 1945 fino a inizio maggio di quell’anno.
Era arrivata la primavera in quell’ultimo campo di concentramento. Il suo nome era Malchow, a nord di Berlino. Io che sono molto sensibile ai colori, pur non essendo certo una pittrice, ero stata oppressa, come tutti i miei compagni di sventura, dal colore del lager, che era invece il grigio: grigio il cielo della Polonia, grigie le nostre facce, grigie le divise delle SS…
Per questo fu una scoperta quella primavera che scoppiava là fuori, c’era l’erba, i primi fili d’erba di quel verde tenero, gli alberi, i fiori. Uscivano le foglie e noi sognavamo che quel cancello si aprisse: la libertà dall’altra parte, nel verde, camminare in un prato. La speranza insomma ci sosteneva. Anche allora, anche lì. La speranza che altro fosse ancora possibile, anche dopo l’inferno, anche dopo lo sterminio di milioni di innocenti.
E alla fine successe. Noi non lo sapevamo, ma la guerra stava per finire. I tedeschi la perdevano su due fronti, gli americani di qua, i russi di là.
Un giorno aprirono quel cancello, ma non per liberarci. Pretendevano di iniziare un’altra marcia, con noi che eravamo ancora per miracolo in piedi!
Ma su quella strada all’improvviso successe l’inimmaginabile: noi che non eravamo nulla, eravamo pezzi, eravamo Stücke, vedemmo i nostri persecutori mettersi in mutande… Era il primo di maggio del ’45. I nostri aguzzini ora avevano paura di noi. Di colpo erano loro che temevano noi. Mandavano via i cani – i cani obbedienti abituati alla gamba – si vestivano in borghese, buttavano via le divise.
Noi guardavamo incredule, noi scheletri ancora in piedi, eravamo testimoni in quel momento della storia che cambiava, perché arrivavano i russi da una parte e gli americani dall’altra (lo abbiamo saputo nelle ore seguenti). Anche questa era la prova, la dimostrazione, a suo modo estrema, che sempre è possibile una svolta, è possibile cambiare le cose, prendere scelte, decisioni che possono dare un senso nuovo, inedito, positivo alle nostre vite.
E questo è il senso proprio dell’episodio con cui di solito finisco la mia testimonianza. Vidi un’ombra che camminava vicino a me, mi sfiorava. Lui in verità neanche mi vedeva, ero io però che vedevo lui. Era il comandante dell’ultimo campo, era un SS, un uomo che fino a poche ore prima era stato terribile con le prigioniere: calci, nerbate e disprezzo totale di una razza inferiore che per caso era ancora viva a disturbare. Lui mi toccava praticamente, era di fianco a me, mandò via il cane, si mise in borghese, buttò via l’orgogliosa divisa delle SS e buttò via infine la pistola. La gettò ai miei piedi.
Be’, io non ero più quella bambina che era scesa dal treno, io ero vissuta per lunghi mesi nell’odio e nel sogno della vendetta e in quel momento pensai, dopo tutta la violenza che avevo visto: «Adesso lui è qui in mio potere, raccolgo la pistola e gli sparo». Mi sembrava che il desiderio di ucciderlo fosse il giusto e degno finale di quel male altrui che avevo tanto sofferto fino a quel momento.
Fu però un attimo, una tentazione fortissima come non l’ho mai più avuta nella mia vita. In quell’attimo realizzai anche che io non ero come lui, io non ero come il mio assassino. Io avevo sempre scelto la vita e chi sceglie la vita non può mai togliere la vita a nessuno per nessun motivo. Non ho raccolto quella pistola per fortuna e da quel momento sono stata quella donna libera e quella donna di pace che sono anche adesso.
Questo episodio colpisce sempre il pubblico che mi ascolta e colpì anche il cardinale Martini. Ne colse il valore autentico, dirimente fra noi e loro, fra la nostra idea di civiltà e di umanità e la loro che è esattamente contraria, disumana e nichilista.
Voglio concludere sottolineando il senso di questo idem sentire di fondo con il cardinale Martini, di cui ho sempre ammirato la profondità della cultura e il senso di umanità, l’attenzione all’altro, alle sue ragioni, ai suoi bisogni.
Ma ci tengo a condividere anche un altro mio ricordo di lui: in uno dei nostri incontri gli dissi che mi sentivo spesso inadeguata e confusa; mi guardò e disse: «Non tema nulla, Lei è Lei!». Ho sempre interpretato queste parole più che come un complimento personale, come un invito a tutte le persone a essere se stesse, a dare un senso alla propria vita, ad attingere alle risorse che ciascuno di noi serba dentro di sé e che deve coltivare, ma anche usare nella vita di tutti i giorni, per renderla migliore e degna di essere vissuta.
Anche su questo eravamo d’accordo. Che la nostra sym-pathia possa essere di esempio e di stimolo.