Darsi priorità e ordinare il ritmo della giornata

Uno scandaglio della propria interiorità

di Benedetta Tobagi

Credo che ogni persona laica, se vuole arrivare a una certa unità di vita, così da imprimere alla sua esistenza un dinamismo autentico, debba darsi delle priorità e ordinare il ritmo della giornata e della settimana secondo determinanti valori. Un valore da privilegiare sarà sempre quello del silenzio, del raccoglimento, della riflessione. Non è però facile dare una regola valida per tutti. Ad alcuni aiuta molto tenere un diario per riordinare le idee, rivedere e ripensare gli avvenimenti. Ci sono pure delle tecniche meditative che possono offrire una certa utilità, anche se personalmente ritengo che per l’uomo occidentale sia meglio approfondire la nostra tradizione di autoconoscenza, che si rifà a Socrate. Infine suggerirei, a tutti coloro che sono particolarmente impegnati, di trovare dei momenti e dei tempi di distacco: non vacanze dispendiose, affannose, stressanti, bensì giornate di solitudine a contatto con la natura o con l’arte.

C.M. Martini con A. Elkann, Cambiare il cuore, Fabbri, Milano 1993, 108s.

Mi pare che l’esperienza del lungo confinamento a causa della pandemia vissuta nella primavera del 2020 (e chissà che non ci tocchi di nuovo, in un prossimo futuro) dia un’attualità e un significato nuovi a questa riflessione del cardinale Martini di quasi trent’anni fa.

Per molti di coloro che non sono stati toccati direttamente dalla malattia, l’isolamento forzato è stato un sollievo, un dono inatteso (vissuto a tratti con senso di colpa, quando le sirene delle ambulanze rompevano la quiete anomala delle strade cittadine, o semplicemente al pensiero della sofferenza che si moltiplicava tutto intorno). Ha spezzato ritmi di vita innaturalmente frenetici, offrendo l’occasione di sperimentare – di nuovo o per la prima volta – una forma di distacco dalle pressioni del mondo esterno e, spesso, il silenzio.

Per altri, il blocco forzato e l’incontro con la propria solitudine sono stati una prova dura, e il lockdown si è trasformato in una girandola di appuntamenti virtuali e abbuffate di serie televisive, per riempire affannosamente il vuoto.

In entrambi i casi, credo che in questo tempo molti abbiano sperimentato l’importanza di «darsi delle priorità e ordinare il ritmo della giornata», costruendo una propria routine, per mantenere la salute fisica e soprattutto mentale. E quanto sia difficile rispettare questo ritmo e quest’ordine, contrastando le innumerevoli tentazioni di dispersione sempre presenti, moltiplicate a dismisura dalla tecnologia.

La tecnologia, oltre a dilagare nel tempo della vita privata, ha colonizzato pratiche antiche come quella di tenere un diario, che Martini consigliava in questa pagina, cambiandone la natura in modo radicale. L’unica forma di diario diffusa oggi è quella che riempie pagine, bacheche, account dei social media, i luoghi in cui si registra attraverso foto e brevi frammenti la trama della vita quotidiana. Cosa stiamo facendo, quel che abbiamo cucinato, il libro sul comodino, la cena fuori con gli amici, la visita di un uccello sul davanzale… ogni aspetto del quotidiano si proietta su questo schermo pubblico. Un modo di non essere soli. Oppure, nei casi migliori, blog, canali, gruppi e pagine pubbliche diventano il mezzo per condividere con gli altri qualcosa di sentito o di utile, da un «saper fare» a un vissuto in cui qualcun altro potrebbe riconoscersi, trovare conforto (anche in circostanze drammatiche), consiglio o semplicemente leggerezza. Sull’introspezione prevale la condivisione. E comunque l’introspezione, quando c’è, è finalizzata a forme di condivisione.

Talvolta (più spesso, in verità) vi è invece una profonda perversione dell’intento originario della forma-diario. Allo scandaglio intimo della propria interiorità si sostituisce la costruzione ed esibizione pubblica della propria immagine, per esistere nello sguardo degli altri suscitando, a seconda, ammirazione, apprezzamento, compassione. Una versione selezionata e artefatta (anche letteralmente, attraverso l’uso costante di filtri e fotoritocchi delle immagini) di sé e della propria esistenza. Qualcosa di malsano per chi lo fa, per l’insicurezza e i complessi che rivela e insieme alimenta nei soggetti più vulnerabili e – come ci raccontano alcuni casi drammatici di cronaca – potenzialmente rischioso perché, in un clima segnato dal risentimento sociale, getta benzina sull’acredine degli invidiosi. Ben venga dunque l’invito di Martini a tornare a cimentarsi con la scrittura di un diario vero, segreto, per «rivedere e ripensare gli avvenimenti», ma anche per godere di uno spazio di libertà senza giudizi, per osservare se stessi e le proprie fragilità. Mettere nero su bianco rabbia, paura, ansie, pensieri indicibili aiuta a ridimensionarli e allentarne la morsa: provare per credere.

Tra le altre vie di raccoglimento consigliate ai laici, fa sorridere il modo in cui il gesuita, uso alla disciplina degli Esercizi Spirituali, conceda con qualche malcelata diffidenza «una certa utilità» alle «tecniche meditative», un mondo evidentemente alieno, per Martini, che tuttavia offre, soprattutto ai non credenti, la possibilità di sperimentare e ritagliarsi uno spazio affine a quello che per i credenti è la preghiera.

Esiste un’affascinante convergenza secolare di percorsi spirituali attorno alla meditazione, in particolare al crocevia tra cristianesimo e buddismo. Nel mondo cristiano, le pratiche meditative hanno le loro radici nell’esperienza e nei testi dei monaci esicasti (dal greco hesychia, ovvero «calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione») a cominciare da Evagrio Pontico, nel IV secolo. I suoi scritti propongono un’analisi delle passioni umane, ottenuta attraverso l’introspezione e l’auto-osservazione, che ha squarci di assoluta modernità, in particolare le pagine sull’accidia, il «demone meridiano»: una malattia dell’anima fatta di pigrizia spirituale, tristezza, perdita di senso, assenza di speranza, un morbo da cui nessuno è immune, e oggi ha diffusione epidemica.

L’antica «preghiera del cuore» del monachesimo d’Oriente, molto popolare tra gli ortodossi, ha numerose affinità con la pratica della meditazione di un mantra. Nella seconda metà del XX secolo, la convergenza tra cristianesimo e tecniche orientali di consapevolezza e meditazione è stata divulgata a milioni di persone dal gesuita indiano Anthony De Mello. Questi scriveva «in un contesto multi-religioso per aiutare i seguaci di altre religioni, agnostici e atei nella loro ricerca spirituale», spiega l’esergo del suo libretto Sàdhana. Un cammino verso Dio, che introduce ai fondamenti delle tecniche meditative per imparare a pregare attingendo alle «ricchezze del silenzio». Presso il monastero di Camaldoli, nelle foreste casentinesi, da decenni coesistono e si intrecciano pratiche meditative e studio della Bibbia, yoga e lectio divine, insieme alla costante apertura ai non credenti cara a Martini.

La meditazione gode oggi di una straordinaria popolarità in Occidente, in particolare in forma di mindfulness, un termine traducibile grossomodo con «consapevolezza», con cui si designa un insieme di pratiche volte a prendere coscienza del proprio corpo, delle emozioni e dei pensieri a partire dalla concentrazione sul respiro e l’attenzione alle sensazioni. La mindfulness si sta diffondendo sempre più come strumento di provata efficacia per contrastare lo stress, l’insonnia, i disturbi dell’alimentazione. Libri, podcast, corsi, seminari pongono l’accento sui suoi effetti in termini di benessere individuale ed efficacia personale. La meditazione nelle sue varie forme oggi finisce spesso nel calderone dell’ossessione collettiva per il wellness, ovvero quello stato di benessere, di salute fisica e mentale che è attualmente uno dei beni di consumo più ambiti tra gli occidentali benestanti, nonché un eccezionale strumento di marketing.

Nonostante questo, credo che, in generale, la crescente popolarità delle tecniche meditative sia una buona cosa: in un mondo sopraffatto dal rumore, insegna a coltivare il silenzio e il raccoglimento in se stessi; suggerisce modi di affrontare il disagio senza ottundersi oppure medicalizzarlo. Laddove momenti di meditazione sono stati introdotti nelle scuole, con i bambini, i risultati sono stati sorprendenti. Lo stesso è avvenuto nelle carceri o in situazioni disagiate, come hanno documentato gli studi sulla pratica della meditazione trascendentale di Maharishi.

Tuttavia, nel discorso pubblico si avverte una nota stonata, qualcosa di artificioso.

Leggendo Martini, mi è venuto da pensare che nella «moda» della meditazione, sebbene non sia stata snaturata come la forma-diario, viene spesso a mancare il riferimento a qualcosa di essenziale. Da una parte, nell’enfasi sugli effetti positivi, si tende spesso a tacere il fatto che nel silenzio della pratica affiorano anche il malessere e i sentimenti negativi, e occorre saperli guardare e sopportare, senza scappare. Non è una ricetta miracolosa, ma una via possibile per imparare a stare al mondo in modo diverso. Mi chiedo quante persone se ne allontanino, quando scoprono che non è la «pillola magica» contro l’infelicità; quante persone riescano a portarsi a casa e a coltivare in mezzo alle frustrazioni della vita quotidiana ciò che apprendono e assaporano in un seminario, oppure in una vacanza-ritiro.

Più importante ancora, mi pare che spesso non si sottolinei abbastanza come il traguardo ultimo di queste pratiche non sia soltanto il proprio benessere, o il «successo» materiale. Coltivare l’auto-osservazione, la consapevolezza e il silenzio aiuta a entrare in contatto con se stessi, e insieme a trascendere, a sentirsi parte di qualcosa d’immensamente più grande. Come altri percorsi di miglioramento di sé, dovrebbe condurci a essere nel mondo in modo diverso, per gli altri, oltre che per noi stessi.

Il filosofo ebreo Martin Buber l’ha detto in modo lapidario in un libretto splendido ispirato all’insegnamento dell’ebraismo chassidico, Il cammino dell’uomo. Nella prima parte, Buber richiama alla risolutezza, per scoprire e poi abbracciare la propria unica e irripetibile unicità (una riflessione con cui l’invito di Martini a un’«unità di vita» che imprima all’esistenza un «dinamismo autentico», che risuona nelle righe da cui siamo partiti, ha moltissime assonanze). «Ogni uomo deve ritornare a se stesso» scrive Buber «abbracciare il suo cammino particolare, […] portare a unità il proprio essere», e poi sapersi dimenticare di se stesso, e pensare al mondo. Cominciare da sé, perché non c’è nessun altro posto da cui possa cominciare un mutamento radicale e autentico del mondo, «ma non finire con se stessi; prendersi come punti di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé».

Non a caso, credo, accanto a questi suggerimenti per la costruzione di una «regola» individuale per i laici, Martini proponeva una riflessione sulla massima con cui si conclude il Candido di Voltaire: «Bisogna coltivare il proprio giardino». Il giardino infatti è metafora del saper dare buoni frutti a partire dal diventare ciò che si è, dall’unica e irripetibile singolarità del proprio terreno. Ma non è, né deve essere, il ripiegamento nel privato. «Il giardino che è dato a ciascuno di noi si colloca nel giardino del mondo», diceva il Cardinale, porzione del mondo visibile e potenzialmente accessibile agli altri, di cui ci prendiamo cura come contributo al miglioramento dell’insieme, «cosicché ciò che noi facciamo» – la nostra «fioritura» – «possa dare senso alla vita degli altri».