Stiamo vivendo, all’inizio del nuovo millennio, una gravissima crisi dell’umanità. Le persone di buona volontà sono poste di fronte a una tragica sfida, una sfida che si ripresenta purtroppo a intervalli quasi regolari nel cammino della civiltà. Una sfida che l’umanità ha vissuto anche in tempi recenti – dieci anni fa all’epoca della guerra del Golfo – e in decenni precedenti in momenti trepidi della tensione internazionale, come al tempo di Giovanni XXIII e della crisi di Cuba. Emerge cioè la domanda drammatica: come riuscire a spegnere con decisione e fermezza ogni focolaio di terrorismo omicida senza nel tempo stesso moltiplicare e ingigantire le reazioni a catena della violenza e dell’odio? Il papa, nell’udienza di mercoledì scorso, dopo aver espresso profondo dolore per gli attacchi terroristici che hanno insanguinato l’America e la sua partecipazione al lutto di tante famiglie, e dopo aver espresso la sua «indignata condanna» di «così inqualificabile orrore», ha riaffermato «che mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell’umanità». Ha proclamato che «se anche la forza delle tenebre sembra prevalere, il credente sa che il male e la morte non hanno l’ultima parola».
C.M. Martini, Anche nel buio della notte risplende la luce della fede, in Idem, Ricominciare dalla Parola, EDB, Bologna 2002, 330s.
Martini avrebbe voluto fare il giornalista. Una volta gli dissi che saremmo stati onorati, come categoria professionale, di averlo tra i colleghi. Con un’avvertenza: il danno che tale scelta avrebbe procurato alla Chiesa (e non solo) sarebbe stato irreparabile. E imperdonabile. Poco tempo dopo la sua morte, la sorella Maris, che andai a trovare nella loro casa di famiglia a Torino, mi fece vedere il giornalino di classe, ben impaginato e scritto a mano con il quale Carluccio, a modo suo, mostrava che quella passione giornalistica l’aveva maturata in tenerissima età. In quelle quattro pagine, Martini aveva scritto testo, titoli e curato le illustrazioni. Aveva fatto anche il direttore. Maris ne parla anche in L’infanzia di un cardinale, piccolo e prezioso libro di ricordi e di immagini familiari.
Fino a poche settimane prima della morte il Cardinale è stato un collaboratore assiduo e puntuale del «Corriere della Sera». La sua rubrica assomigliava a una semina mensile. Molto attesa. Sempre generosa di riflessioni e di consigli. Rivolti soprattutto a chi la fede non l’aveva e forse nemmeno la cercava. Ai nostri occhi laici quella semina aveva un tratto miracoloso. Forse per contrasto. La professione incoraggia un certo disincanto che, non raramente, scivola nel cinismo. I granelli di senapa, ammesso di essere in grado di produrli, sono spesso sterili, inutili, se non avvelenati. Chi usa tante parole rischia di perderne il significato. Le butta là. Come le giornate scivolavano facilmente, spesso restando anonime, anche gli articoli, i titoli, le fotografie sembrano disperdersi in un istante. Scomparire di colpo in archivi sterminati, oggi peraltro non più materiali. La memoria è così labile da essere spazzata via come polvere al vento.
Non ho alcun titolo – e non ne avrei neanche lontanamente l’autorevolezza intellettuale – per tentare una sintesi delle tante eredità lasciate dall’arcivescovo di Milano. Ma se dovessi provare a farlo direi che la sua è stata una profonda testimonianza di spiritualità in una società che smarriva materialmente il senso della vita. Così limpida e sorprendente da resistere all’usura del tempo. Non c’è risvolto dell’attualità che non possa essere approfondito grazie alla saggezza del pensiero martiniano. Ma lui era il padre che non abbiamo avuto. L’amico che avremmo desiderato. Il confessore sulla spalla del quale avremmo voluto abbandonare la nostra testa – riprendo un’immagine di Giovanni Papini – nei momenti di dolore o di disperazione. Martini non c’è più ma rimane moltissimo di lui. La semina continua.
Qualche anno fa lessi uno straordinario lavoro di ricerca di Alberto Guasco (Martini. Gli anni della formazione 1927-1962). Il Cardinale non ci teneva molto che si parlasse della sua giovinezza, della sua carriera come sacerdote e biblista. Riservatezza torinese mischiata a un certo distacco accademico (quello che ci aveva ingannato sulla sua capacità di comunicare, al momento della nomina ad arcivescovo di Milano nel 1980). E poi ogni principe della Chiesa è come se non avesse avuto un’infanzia, una giovinezza. Quasi che la porpora o semplicemente la tonaca le cancellasse. Del resto della vita di Gesù fino ai trent’anni poco si sa e poco è stato scritto. Non a caso i diari giovanili di Martini erano stati distrutti. L’autore del libro, però, non fece altro che applicare, con ignaziano discernimento, il metodo di studio e lavoro del Cardinale, improntato al rigoroso esame delle carte e delle testimonianze. La domanda che si pose Gabriel Ispérian («Chi è stato veramente il cardinale Martini?») ricevette una risposta ulteriore che ne esaltava – se mai ce ne fosse ancora bisogno – la statura storica e spirituale. Martini ricevette un’educazione all’onestà mentale. In questa frase, peraltro ricordata dallo stesso Cardinale, c’è tutto. È quasi un manifesto educativo. Perché non ci sono schemi, ideologie. C’è un cuore aperto. Aperto all’incontro con la fede ma non chiuso alla ragione. Martini fu un ragazzo fortunato perché cresciuto nel grembo della migliore borghesia piemontese. Del resto fu il brano della Bibbia sul giovane ricco ad avvicinarlo alla Chiesa. Se avesse avuto una famiglia diversa, più povera, se non avesse avuto la fortuna di un corso di studi così privilegiato sarebbe diventato il Martini di cui abbiamo nostalgia? Non lo sappiamo ma di certo gli studi all’Istituto sociale dei gesuiti lo misero in una condizione nella quale il vantaggio di censo veniva di fatto annullato. «Ricevevo una educazione seria, austera e insieme molto libera.» In un percorso di studi che lo protesse in qualche modo dalle ingerenze del regime. Il padre restò «peggio che interdetto» alla notizia che avrebbe scelto di diventare gesuita. E costante fu la premura, negli anni successivi, per dimostrare la bontà della sua irresistibile tentazione. «Il Signore dia loro rassegnazione e conforto.»
Perché ho scelto questo riferimento al Martini giovane? Per una semplice ragione. I fatti che ci colpiscono e sorprendono ci danno tremori di paura o brividi di gioia, ci ringiovaniscono di colpo. Di fronte alle tragedie riemergono timori infantili. Ci si sente sperduti e scossi come in quei frangenti della nostra infanzia o adolescenza nei quali pensavamo di non farcela, di non avere la forza di capire ancora prima di trovare quella di reagire. È accaduto per la pandemia che ci ha riportato indietro alle tante precauzioni – ai nostri occhi eccessive e noiose – dei nostri genitori ossessionati dal tifo, dal tetano, dalle molte malattie infantili. Allora il progresso non sembrava averle cancellate. Eravamo consci della nostra fragilità. Quella consapevolezza che si è semplicemente perduta e dissolta nella nostra presunzione di aver sconfitto le epidemie della storia. E quando ci siamo trovati a dover convivere con un virus sconosciuto e mortale, siamo tornati tutti improvvisamente bambini, inseguiti dalle voci familiari che ci intimavano di stare attenti a ogni cosa. Ma non ci dicevano di rinunciare a vivere. Tutt’altro.
Con tutto quello che è accaduto in questi anni, il ricordo dell’11 settembre 2001 si è allontanato nel tempo. Si è storicizzato troppo presto. Come se appartenesse a un altro secolo. Quando ci ritrovammo sperduti e in preda a paure infantili, in quel lontano martedì, le parole dell’arcivescovo ci apparvero rassicuranti come quelle di un genitore davanti ai pericoli della vita. Era come se il Cardinale avesse consegnato a noi giornalisti una provvidenziale lanterna in grado di illuminare di saggezza e verità momenti intrisi di morte, dolore, rabbia. «Vedere la morte e contemplare la vita è il binomio che accompagna il viaggio a Gerusalemme» scrive Marco Garzonio nel suo libro (Con Martini in Terra Santa) in cui si incammina, con il Cardinale, nel suo ritorno (purtroppo durato poco) nel luogo simbolo delle religioni monoteiste. Ecco Martini, nel giorno in cui l’Occidente si sentì sperduto e sotto attacco, vittima di una violenza mossa anche dalla fede mista al sentimento dell’odio, incoraggiò a non arrendersi al male e a guardare alla vita. Nella raccolta Le cattedre dei non credenti (prefazione di papa Francesco), nel capitolo sul senso del dolore, Martini riprende una lucida riflessione di Pierangelo Sequeri dal titolo «Perché il male?». La domanda-chiave di quell’11 settembre e delle purtroppo frequenti, negli anni successivi, azioni terroristiche che hanno insanguinato strade, scuole, luoghi di culto. Martini scrive che l’attenzione a chi soffre è l’ideale cui guarda. «Il guardarlo mi dà fiducia.» Poi cita un brano, tratto da una lettera di Dietrich Bonhoeffer, scritta nel 1944. Termina così: «Vivere partendo dalla Risurrezione, questo significa Pasqua». Nel 2020 la Pasqua è stata quasi sospesa. Senza fedeli. Le prossime saranno ancora più intense e vissute. Anche per ricordare meglio chi non c’è più. Ma resta con noi.