«L’inferno esiste ed è già sulla Terra»

Martini e il notturno infernale

di Gianfranco Ravasi

Certo, esiste l’inferno, solo che nessuno sa se vi si trovi qualcuno. Eppure dobbiamo tenerne conto. L’inferno esiste, ed è già sulla Terra. Sono situazioni così disperate da essere giunte a un punto morto: l’inferno si contraddistingue per l’ineluttabilità, la mancanza di una via di uscita, il senso di «eterno» abbandono. Quando penso ai tossicomani, ai malati irrecuperabili e al male che le persone si infliggono a vicenda, penso sempre che l’inferno sia questo. Anche Stalingrado o l’Olocausto sono autentici inferni.

Nella predicazione di Gesù l’inferno è un monito a vivere in modo da non generare mai questo inferno e non precipitarvi mai. Il messaggio fondamentale è che Gesù vuole preservarcene e liberarcene. Dobbiamo stare attenti a non finirvi. E dobbiamo contribuire a impedire che altri vi finiscano. L’inferno è un monito, una minaccia, una realtà. Tuttavia, continuo a essere convinto che alla fine l’amore di Dio sia più forte.

C.M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, 18.

A prima vista il tema che regge il brano scelto sembra essere sorprendente: l’inferno, con tutta la coreografia simbolica, teologica, spirituale, morale, retorica che l’ha accompagnato nei secoli, non è certo uno dei crocevia strategici dell’immenso territorio testuale e orale delineato dal cardinale Carlo Maria Martini in quel ministero della Parola che ha sostenuto quasi tutta la sua biografia. La prospettiva che egli ha costantemente adottato è stata, infatti, positiva, anche quando affrontava il tema del male, seguendo per altro la via tracciata da Cristo stesso. Tuttavia anche Gesù non si sottrae all’aspetto negativo dell’escatologia che è certamente dominata dall’architettura luminosa del Regno di Dio, ma non ignora la Geenna, il «fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli […], il supplizio eterno» (Matteo 25,41.46), lo stridore di denti e così via, secondo le metafore classiche dell’apocalittica a lui contemporanea.

Ovviamente non è ora nostro compito il ricomporre la triade dei «Novissimi» o la struttura teologica e antropologica del giudizio. Vorremmo soltanto offrire alcuni commenti attorno a questo lacerto testuale desunto dalle «conversazioni notturne» gerosolimitane che delineano un ben più ampio orizzonte tematico. Per altro, come si diceva, nel pensiero martiniano sarebbe più il positivo della salvezza e del paradiso a illustrare il rovescio della condanna e della tenebra infernale. A questo proposito acuta è la duplice affermazione di quel grande scrittore cattolico che è stato Georges Bernanos. Egli, infatti, nel suo capolavoro, Diario di un curato di campagna, metteva in bocca al protagonista questa asserzione: «L’inferno, signora, è non amare più». Osservazione ribadita nell’altra sua opera, Il signor Ouine: «Si parla sempre del fuoco dell’inferno, ma nessuno l’ha visto… L’inferno è il freddo», proprio perché assenza di amore. E a lui faceva eco un altro scrittore cattolico francese, Julien Green, quando dichiarava: «Il solo inferno è non essere con Dio». Forse, alla fine, era quello che pensava già un altro grande francese, il poeta Paul Verlaine, quando, in Jadis et naguère concludeva lapidariamente: «L’inferno è l’assenza».

Ma ritorniamo alle parole del Cardinale, dalle quali vogliamo estrarre un trittico di considerazioni che sono visibili in trasparenza alla sua risposta. Essa nasceva da una domanda del suo interlocutore sulla giustizia divina intesa nell’accezione comune, rubricata quasi esclusivamente sotto «l’immagine del Dio castigatore». Eccoci, allora, davanti al primo quadro della nostra trilogia simbolica. È noto che la categoria biblica sedaqah/dikaiosýne, «giustizia/giustificazione», comprende in modo primario la salvezza del giusto e, quindi, è una derivazione dell’amore. Tuttavia è indiscutibile che «le immagini del tribunale e della giustizia» nel senso tradizionale hanno anche una finalità punitiva del male. Non bisogna dimenticare che la simbologia escatologica profetica e apocalittica del «giorno del Signore» – coniata da Amos (5,18-20) – viene incontro all’aspirazione dei fedeli che ci sia «un Dio che fa giustizia sulla terra» (Salmo 58,12).

Lo stesso Gesù riafferma e conferma questa certezza nel grandioso affresco del giudizio finale (Matteo 25,31-46) con la netta distinzione tra pecore e capre, ossia tra eletti e dannati. L’oggetto della verifica giudiziaria del Figlio dell’uomo, come è noto, è la pratica dell’amore nei confronti dell’affamato, dell’assetato, dello straniero, del nudo, del malato, del carcerato. La scelta morale diventa così la cartina di tornasole secondo le esigenze etiche, variamente declinate nelle differenti concezioni religiose. Per esempio, per il testo capitale dell’induismo, la Bhagavadgita, «tre sono le porte dell’inferno: la lussuria, l’ira e l’avarizia». Certo, molteplici sono i tentativi di Dio per impedire alla creatura umana libera di varcare quelle porte, oltre le quali c’è solo «il fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi angeli», per usare la metafora classica biblica adottata dallo stesso Cristo.

Martini sottolinea che la conversione che funge da parafulmine alla giusta giustizia divina è «essere giusti l’uno verso l’altro, venirsi incontro a vicenda e proteggere e aiutare i deboli», nella linea del citato passo matteano. Dio, infatti, suggestivamente dichiarava nel libro del profeta Ezechiele: «Non provo piacere per la morte del malvagio, ma piuttosto che desista dalla sua condotta e viva… Io non godo della morte di chi muore» (18,23.32). Significativo, al riguardo, è il delizioso apologo che costituisce il libro di Giona. Costui incarna l’atteggiamento esclusivamente punitivo della giustizia divina e incolpa il Signore per la sua eccessiva «umanità» e generosità nei confronti del tradizionale nemico di Israele, l’Assiria: «Lo sapevo che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore, che ti lasci troppo impietosire dopo aver minacciato il giudizio» (Giona 4,2).

Ma, si domanda il Cardinale, «una volta sprecate tutte le nostre possibilità [di conversione] in questa vita, Dio può ancora escogitare qualcosa?». E qui entriamo nella seconda tavola, quella centrale del nostro dittico ideale: «Certo, esiste l’inferno, solo che nessuno sa se vi si trovi qualcuno. Eppure dobbiamo tenerne conto». Merita un cenno preliminare la questione dibattuta tra i teologi sia sull’esistenza dell’inferno e dei suoi abitanti, sia sull’estrema offerta divina alla persona umana per un’opzione radicale definitiva per il bene che cancelli le scelte negative pregresse. Che Dio «escogiti qualcosa» nel momento ultimo dell’agonia quando siamo su quel crinale che s’affaccia sull’eterno e lo sguardo della nostra anima è illuminato da quella luce trascendente, così da essere in grado di compiere una decisione radicale definitiva, è stato sostenuto da alcuni teologi, come Roger Troisfontaines nel suo Je ne meurs pas.

La riflessione più nota sull’esistenza e la funzione dell’inferno è, però, quella legata a una figura capitale della teologia del Novecento, Hans Urs von Balthasar: nel quinto volume conclusivo della sua Teo-Drammatica, egli affrontava «la tragedia escatologica» all’interno dell’atto finale (Endspiel) del dramma della storia. Desidero, al riguardo, dare una testimonianza personale rievocando un incontro con Martini avvenuto, credo, nel 2001. Stavo, allora, preparando un saggio per Mondadori che sarebbe apparso nel 2003 sotto il titolo Breve storia dell’anima. Il Cardinale, prendendo spunto da questa mia comunicazione, aveva portato l’accento proprio sulla tesi balthasariana che era stata banalizzata ed equivocata con l’asserto giornalistico «l’inferno esiste, ma è vuoto». In realtà, il famoso teologo tentava un’ardua sintesi o almeno un incrocio tra due tesi contrastanti della tradizione, e di quello parlammo nel dialogo.

Da un lato, c’è infatti la concezione «infernalista» che procede da Agostino, attraversa Tommaso d’Aquino, entra pienamente nella Riforma con Calvino e approda alla manualistica anche cattolica, all’omiletica e alla catechetica, con tutto il suo apparato parenetico di angoscia e disperazione. Come affermava Lutero nel suo scritto sul Matrimonio, «dove Dio ha costruito una chiesa, il diavolo costruisce anche lui una cappella», immagine che era stata così sviluppata dallo scrittore inglese Daniel Defoe (famoso per il suo Robinson Crusoe) nel poema satirico Il vero inglese: «Dovunque Dio erige una chiesa, / sempre il demonio innalza una cappella; e se vai a vedere, troverai / che dal secondo ci sono più fedeli». È indubbio che l’iconografia teologica e artistica «infernale» attinge all’immaginario e ai temi biblici a cui sopra accennavamo. Essi avevano nello sheol, gli «inferi» anticotestamentari generalisti per designare l’oltrevita, e la più specifica Geenna, la valle della incinerazione dei rifiuti di Gerusalemme, gli emblemi maggiori.

D’altro lato, era stata presente – soprattutto nella teologia orientale – la dottrina dell’apokatástasis, un hapax di Atti 3,21, che vede l’escatologia come una «restaurazione/reintegrazione/ricostruzione» dell’armonia primigenia della creazione e, quindi, una sorta di ricreazione/riconciliazione universale. La base biblica, oltre al passo di Atti incastonato all’interno di un discorso kerygmatico di san Pietro, sarebbe da individuare nel Vangelo di Giovanni e in san Paolo (per esempio, Romani 8 o il «Dio tutto in tutti» di 1 Corinzi 15,28), e quindi nella figura del Cristo post-pasquale (Colossesi 3,11; Efesini 4,6). In sintesi, gli «infernalisti» insistono sulla giustizia divina col duplice esito sopra descritto punitivo e salvifico (inferno e paradiso); i seguaci dell’apocatastasi puntano maggiormente sulla misericordia divina che conduce all’esito finale di una riconciliazione universale. Seguendo von Balthasar, il Cardinale era convinto, sulla scia anche di santa Teresa di Lisieux (e per il teologo svizzero della mistica Adrienne von Speyr), che si dovessero tenere in contrappunto armonico entrambe le tesi: pur non separando giustizia e misericordia, si dovrebbe comunque lasciar sempre aperto un varco alla «speranza universale» salvifica.

È ciò che si intuisce anche in filigrana alla pagina di Martini. Siamo, quindi, condotti alla necessità di definire appieno la categoria «inferno», partendo da una fondamentale premessa che formuliamo con un paragrafo desunto da una risposta, datata 24 aprile 2011, che era stata pubblicata nella rubrica «Lettere al Cardinale» del «Corriere della Sera»:

Lo sbaglio che di solito facciamo quando parliamo di ciò che sta oltre la vita terrena è quello di immaginare che le cose continuino, salva qualche modifica, quasi come ora. Essendo immersi nello spazio e nel tempo, noi non possiamo produrre modelli altri che quelli che noi possediamo. Un altro errore consiste nello smarrimento dell’escatologia universale, per la quale la salvezza dell’uno esigerà la salvezza dell’altro. Non abbiamo abbastanza fede per considerare quel capolavoro che Dio compirà, quando «al Figlio sarà sottomessa ogni cosa» e «Dio sarà tutto in tutti» (1 Corinzi 15,28). Dio vuole la salvezza di tutti in un unico corpo e prepara il suo Regno affinché tutti siamo una cosa sola nella pienezza dell’individualità e nell’unità con Lui e tra noi.

La fatica concettuale è quella di spogliarci – quando si tratta di eternità che è in sé un’unità istantanea perfetta, l’«attimo» faustiano – dalle nostre categorie spazio-temporali. È ciò che sottolineava Martini nel suo discorso Scendiamo a Cafarnao. Rafforzare le speranze. Resistere al male nell’Europa d’oggi, pronunciato il 17 ottobre 1989 a conclusione del Simposio dei Vescovi europei dedicato alla sfida sui temi della nascita e della morte, sfida rivolta all’evangelizzazione dalla cultura contemporanea: «Occorreranno molti sforzi per inculturare le verità che ci vengono dalla tradizione nel continuo mutare dei tempi, dei linguaggi, dei simboli. In che modo dobbiamo parlare dell’immortalità e della risurrezione, del purgatorio, del giudizio finale e dell’inferno?». Interrogativi inquietanti, se si pensa all’immanentismo attualmente dominante che si abbevera solo a modelli di natura tecnico-scientifica.

Per questo, nelle sue Meditazioni sul testo degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio, edite nel 2011 sotto il titolo Mettere ordine nella propria vita, egli sottolineava la possibilità di «fare la meditazione sull’inferno insistendo meno sugli elementi visivi, cosmologici, e di più su quelli antropologici: l’angoscia, la solitudine, la frustrazione, la disperazione. Sentimenti che ciascuno conosce e che sono il contrario del disegno di Dio per l’uomo, che è felicità, pienezza, ordine, pace, armonia». Non bisogna, perciò, cancellare la componente «infernale», sia nella catechesi, sia nella riflessione personale (come insegnava sant’Ignazio nella Meditazione sull’inferno degli Esercizi), «pur se dobbiamo darle una forma più moderna, perché rappresenta lo sbocco reale del rifiuto di lasciarsi amare da Dio e trasformare nel Figlio; rappresenta il non esito dell’opera della creazione e redenzione, il disordine che inserendosi nel cuore dell’uomo lo strazia interiormente».

Limpida è la sintesi conclusiva che Martini aveva offerto nella sua lettera per il biennio pastorale 1992-1994, Sto alla porta:

L’inferno è la condizione insopportabilmente dolorosa della separazione da Cristo, dell’esclusione eterna dal dialogo dell’amore divino; possibilità tragica e però necessaria se si vuol prendere sul serio la libertà che Dio ha dato all’uomo di accettarlo o di rifiutarlo. L’inferno, in quanto possibilità radicale, evidenzia la dignità suprema della vita umana, il valore sommo della vigilanza e la tragicità del male; proprio per questo e in tutto questo evidenzia l’amore del Dio che creandoci senza di noi non ci salverà senza di noi. Egli, infatti, che ci ha amato quando ancora eravamo peccatori, rimarrà separato da noi solo se noi ci ostineremo nell’essere separati da lui.

Apriamo a questo punto il terzo e ultimo quadro del nostro trittico. Esso è solo un corollario di quello centrale. Si è ribadito che i «Novissimi» inferno-purgatorio-paradiso sono categorie trascendenti e non spazio-temporali. Esse hanno una sorgente fondamentale nella libertà umana. È ciò che il Cardinale ha affermato nettamente sempre nelle considerazioni sugli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio:

L’uomo che ha disprezzato i riferimenti sostanziali della sua vita, di amore fiducioso a Dio Padre, di rispetto per il prossimo e di armonia con le cose, che si è impuntato in questi tre rifiuti fondamentali, rimane tagliato fuori da ogni realizzazione. Dio lo ama e continua ad amarlo misericordiosamente, ma egli respinge ogni legame con le persone e con le cose.

Era ciò che appariva anche nel Compendio del catechismo della Chiesa cattolica (2005) sia pure col linguaggio tradizionale: «Dio, pur volendo “che tutti abbiano modo di pentirsi” (2 Pietro 3,9), tuttavia, avendo creato l’uomo libero e responsabile, rispetta le sue decisioni. Pertanto è l’uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l’amore misericordioso di Dio» (n. 213). Ora, proprio i due aspetti – sia della trascendenza dell’inferno, che supera lo spazio e il tempo, lo ingloba, lo innerva e lo trasfigura, sia della libertà umana – lasciano aperto un profilo a cui il Cardinale si dedica con un coinvolgimento appassionato. È ciò che possiamo definire come «l’inferno qui e ora», presenza drammaticamente «eterna» nella contingenza della storia. Ribadiamo le parole di Martini nel dialogo gerosolimitano:

L’inferno esiste, ed è già sulla Terra. Sono situazioni così disperate da essere giunte a un punto morto: l’inferno si contraddistingue per l’ineluttabilità, la mancanza di una via di uscita, il senso di «eterno» abbandono. Quando penso ai tossicomani, ai malati irrecuperabili e al male che le persone si infliggono a vicenda, penso sempre che l’inferno sia questo. Anche Stalingrado o l’Olocausto sono autentici inferni.

È questo un tema caro anche alla cultura di tutti i tempi, a partire già del poeta latino Lucrezio che nel suo De rerum natura osservava: «In realtà quei supplizi che dicono ci siano nel profondo Acheronte [mitico fiume infernale], li abbiamo qui tutti sulla terra» (III, 978-9). Lapidario era il teologo ortodosso russo Pavel Evdokimov che risaliva alla radice stessa della colpa: «L’uomo può sempre dire: Non sia fatta la tua volontà! Questa libertà dà origine all’inferno». E se una seria meditazione sull’inferno è ormai esorcizzata da una società amorale, immorale, superficiale come l’attuale, essa non si accorge che in verità crea un inferno speculare nel mondo in cui l’umanità impazza. Come ironicamente scriveva un agnostico, Ennio Flaiano, «da quando l’uomo non crede più all’inferno, ha trasformato la sua vita in qualcosa che somiglia all’inferno».

In ultima analisi, dunque, è vero quello che annotava nei suoi Principi di psicologia (1890) il filosofo statunitense William James: «L’inferno di cui parla la teologia non è peggiore di quello che creiamo a noi stessi in questo mondo». Prendendo sul serio la nostra libertà, Dio ci concede di essere arbitri del nostro destino e, quindi, anche di approdare già ora a un porto di tenebra, antitetico rispetto a quello che egli avrebbe desiderato e riservato per noi. Ecco perché il cardinale Martini conclude la sua risposta «notturna» così:

Nella predicazione di Gesù l’inferno è un monito a vivere in modo da non generare mai questo inferno e non precipitarvi mai. Il messaggio fondamentale è che Gesù vuole preservarcene e liberarcene. Dobbiamo stare attenti a non finirvi. E dobbiamo contribuire a impedire che altri vi finiscano. L’inferno è un monito, una minaccia, una realtà. Tuttavia, continuo a essere convinto che alla fine l’amore di Dio sia più forte.

L’ultima frase è molto significativa. Tutte le volte che Martini ha trattato il tema dell’inferno – a quanto abbiamo potuto verificare – non ha mai chiuso il sipario finale sull’oscurità infernale. Anche quando parlava degli «inferni nel cuore degli uomini», operanti nella storia, ribadiva che essi «sono ancora e sempre sotto la misericordia divina e quindi capaci di riaprirsi, di ricevere, di riaccogliere» (così nel citato commento agli Esercizi di sant’Ignazio). Dio, infatti, cerca sempre con la sua grazia di sostenere la nostra fragile libertà, di cancellare il nostro male, di redimerci: per questo nella Bibbia è ben più importante e decisivo l’annunzio della salvezza rispetto a quello della condanna, contrariamente a una certa prassi moralistica del passato.

Ai vescovi europei, in quel discorso che abbiamo sopra evocato, proponeva con passione questa visione finale:

Per quanto riguarda poi il tema della vita eterna e della drammatica possibilità dell’uomo di non realizzare il fine della sua esistenza, è stata sottolineata l’importanza di annunciare la pienezza della vita con Dio in Cristo a partire dalla comunione con Dio in questa vita. Solo quando tale comunione è già sentita qui come bene autentico e primario, la promessa che essa non verrà mai meno fa sussultare di gioia indicibile il credente (cfr. 1 Pietro 1,8).

Non per nulla l’ultima riga della risposta che è stata alla base di questa nostra riflessione – «continuo a essere convinto che alla fine l’amore di Dio sia più forte» – contiene in un certo senso l’eco sia del messaggio finale del Cantico dei cantici: «Forte come la Morte è l’Amore, tenace come lo Sheol è la Passione [letteralmente “la Gelosia” attributo stesso di Dio]» (8,6), sia dell’annuncio dell’apostolo Paolo: «Sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 8,38-39).