In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l’uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell’uomo […]. Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito» dovrà ancora dire: «Il mio peccato mi sta sempre dinanzi».
C.M. Martini, La Scuola della Parola, Bompiani, Milano 2018, 341.
Era diventata ormai una sorta di consuetudine. Quando arrivava l’ora dell’appuntamento fissato in una delle sale incontri dell’Aloisianum di Gallarate, salivo al terzo piano, bussavo alla camera di padre Martini, per avvisarlo. «Siamo pronti, Padre. Sono arrivati tutti, anche quelli da più lontano. L’aspettiamo.» Allora, lui mi riceveva, mi faceva accomodare per qualche momento nella poltroncina accanto alla sua e mi chiedeva di raccontargli le tappe importanti del cammino dell’ultimo periodo, a partire dall’ultima volta che ci si era incontrati. «C’è qualcosa di particolarmente importante, qualcosa di cui devo tenere conto nell’incontrarvi?» C’era sempre più di qualcosa. Provavo a dirgli brevemente, sia per non stancarlo, sia per non sottrarre tempo prezioso all’incontro con tutto il gruppo. Padre Martini seguiva con attenzione e con cura i nostri passi: lo avevo informato fin da quando la prospettiva concreta di un gruppo che vedesse camminare insieme alcune vittime e familiari delle vittime con alcuni dei responsabili dei gruppi armati degli anni Settanta e inizio Ottanta (i cosiddetti «Anni di piombo») si stava aprendo, stava prendendo contorni concreti e praticabili. «Tienimi informato», mi aveva detto, salutandomi di fronte alla solenne cornice delle cime del Sassolungo e del Sassopiatto, nella casa di Selva di Val Gardena. Ero andato a trovarlo per potergli parlare, giusto poche ore prima che ripartisse per Gerusalemme.
Quel pomeriggio a Gallarate, mentre lo accompagnavo verso l’ascensore camminando accanto a lui e adattandomi al suo passo via via più spezzato e incerto, lo avvertivo, come sempre, attentissimo a quello che gli stavo dicendo ma anche pensieroso. Arriva l’ascensore per il piano terra. Nel breve tratto della discesa mi guarda e, interrompendo un breve ma intenso silenzio, mi chiede: «Ma tu, quegli anni… il tempo del terrorismo, l’hai capito? Io confesso che più ci penso più mi è difficile capire… che cosa è accaduto veramente, che cosa ci ha portato lì?».
Il dolore delle vittime, le ferite profonde che avevano lacerato il Paese, le vite di tanti giovani dietro le gabbie a ingrossare le fila nei bracci speciali delle carceri: di questo dolore diffuso, pervasivo, padre Martini aveva sentito di doversi fare carico fin dal suo ingresso come vescovo nella diocesi di Milano. Molti giovani che venivano dalla partecipazione ai gruppi armati avevano trovato in lui un punto di riferimento, discreto ma forte e credibile. «Loro rimasero colpiti dai gesti di attenzione del cardinale dentro il penitenziario – ricordava don Luigi Melesi1 – e soprattutto dal fatto che rispose alla loro lettera. Un altro dettaglio che li indusse a vedere in Martini l’interlocutore giusto […] furono le parole ascoltate attraverso la radio durante una delle sue famose “Lectio” […] dedicate al Salmo penitenziale del Miserere.»
Nel percorso di quelle Lectio c’è già l’eco della domanda nell’ascensore. Una domanda che esprime la passione e il coraggio di chi sa di dover attraversare notti profonde e convivere con un buio ostinato se vuole arrivare a capire qualcosa. Diceva, commentando il versetto 8 del Salmo 51: «Cerchiamo di riflettere innanzitutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter poi comprendere meglio quelle che precedono. Nel testo ebraico l’espressione “Tu vuoi la sincerità del cuore” è più difficile: “Tu ami la verità nell’oscuro”, cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l’uomo è perduto nei meandri della sua coscienza».2
Immerso nella brutalità della battaglia, nella spietatezza della violenza, Witt – uno dei soldati della compagnia di fucilieri «Charlie», impegnata nella conquista di Guadalcanal, la maggiore delle isole Salomone (Oceania) – ci fa leggere con i suoi occhi e con i suoi pensieri non solo (non tanto) quello che sta accadendo ma quello che sta vivendo. Ci fa sentire le domande impregnate di buio che non possono non arrivare ai nostri orecchi (attraversando gli occhi). È il racconto per immagini e pensieri in cui ci immerge il regista Terrence Malick nel suo film La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998), ispirato all’omonimo romanzo di James Jones. 1942; c’è da conquistare una collina, un punto strategico occupato e presidiato dai giapponesi: di là si controlla un vasto tratto di Oceano Pacifico ed è un vantaggio che non può essere lasciato al nemico. Per il tenente colonnello Toll, poi, è la «battaglia della vita», la «grande occasione» di segnalarsi che gli è sempre mancata fino a quel momento.
Le sanguinose fasi dell’attacco dei marine, i movimenti e le attese, le strategie, la tensione e le vicende che seguono sono narrate attraverso gli sguardi dei diversi protagonisti e rivisitate attraverso le loro voci interiori. Arrivati all’assalto finale della base giapponese, varcata la cortina di nebbia che prelude al corpo a corpo col nemico, seguiamo i soldati americani nella distruzione delle ultime, esigue, resistenze dei giapponesi, uomini che ci appaiono, ora, sorprendentemente fragili e indifesi rispetto al lungo tempo del racconto dell’assalto (oltre un’ora) dove sono stati soltanto dei bunker, delle feritoie e delle mitragliatrici inesorabili. Ecco, allora, mentre, vinta ogni residua resistenza, i soldati americani penetrano nel cuore della base giapponese, l’immagine rallenta nettamente, scorre, attonita, sui visi grotteschi, sugli sguardi sperduti e istupiditi, svuotati di dignità. Il silenzio fa tacere ogni suono, ogni minimo rumore. In questo modo, il dolore e la sua assurdità gridano più forte. Ma quello che fa più rumore è la sequenza di domande, la voce fuori campo del soldato Edward P. Train, i suoi pensieri sul «grande male»:
Questo Grande Male. Da dove viene? Come ha fatto a contaminare il mondo? Da quale seme, da quale radice si è sviluppato? Chi è l’artefice di tutto questo? Chi ci sta uccidendo? Chi ci sta derubando della vita e della luce prendendosi beffa di noi, mostrandoci quello che avremmo potuto conoscere? La nostra rovina è di sollievo alla terra? Aiuta l’erba a crescere, il sole a splendere? Questa ombra oscura anche te? Tu hai mai attraversato questo buio?3
Questo male, questo buio, ce l’hai dentro anche tu? Dove trovare una parola che lo illumini? Può essere sufficiente il chiedere o anche quel chiedere finisce di farci smarrire nei labirintici meandri della nostra coscienza?
Il cammino che sta di fronte alle persone che hanno commesso un «grande male» sembra inevitabilmente attraversare queste oscurità, lo spessore di domande senza scampo, inaggirabili. A loro volta, le vittime rimandano come un’eco le stesse domande: «Come ha fatto questo male a prendere anche te, come hai potuto? Come hai potuto alzarti una mattina per andare a uccidere mio padre? Chi ci ha rubato la luce per riconoscerci gli uni gli altri: per riconoscere le nostre storie, le nostre vite, per vederle nella verità oltre le etichette, i ruoli, le divise?».
Credo che la nuda e disarmante domanda di padre Martini nell’ascensore portasse con sé tutto questo intimo e lacerante domandare. Lacerante anche perché capace – «costretto» – all’ascolto di entrambe le voci, quella delle vittime e quella dei responsabili. Vicino a entrambi, accogliendo pienamente la sfida della delicatissima «equiprossimità», uno dei fondamenti di un percorso di restorative justice, la capacità, cioè, di essere accanto e vicino a entrambe le parti e di superare la (comprensibile) logica contrappositiva ed escludente: se stai vicino a me non puoi stare vicino anche a lei, a lui, a loro. Soltanto nella qualità di questo ascolto al confine delle vite e delle loro storie è possibile cogliere la lacerazione che viene da una testimonianza come quella riportata sotto, di chi vorrebbe scuotersi di dosso il buio che l’appesantisce ma non riesce ad andare oltre «l’impossibilità della con-passione», per la sofferenza inflitta agli altri e per il tradimento del proprio sé e dei suoi desideri più veri:
Volevi portare la vita e hai portato la morte. Volevi difendere la dignità della vita e sei finito a spalleggiare l’oscenità della morte. Volevi eliminare l’immiserimento dei sentimenti e pensieri quotidiani e hai portato quotidiana desolazione nei cuori. Allora il carico che devi affrontare non è solo quello di avere tradito la vita, ma anche quello ancora più pesante di avere tradito te stesso.
Nella troppo umana vigliaccheria o, nel migliore dei casi, nell’autoindulgenza necessaria a sopravvivere, è ancora possibile scendere a patti con il primo tradimento. Ancora vi si possono trovare spazi di razionalizzazione, cioè di oggettivazione che allontana da sé, di pietose circonvoluzioni delle parole. C’è una colpa e c’è una pena, c’è un rimorso. Ma, pur provando sincera con-passione per le persone che il tradimento della vita ha fatto soffrire, il dolore pieno e diretto, lo strappo della mancanza, tocca carne altrui.
Così non può essere con il tradimento di sé. Lì la con-passione non funziona perché da sentimento nobile diverrebbe vigliacco, essendo rivolto verso di sé. Ed è questa la condanna più grave. Non il carcere, e neanche la pena aggiuntiva dell’ostracismo sociale, cui si può opporre la propria dignità umana, non cancellabile dalla colpa. Ma la condanna all’impossibilità di con-passione, di lenimento alcuno per lo strappo della mancanza del sé che è stato tradito, soppresso.4
Oppure, la drammatica, avvilente, consapevolezza di essere divenuti «simmetrici», di avere, cioè, assunto la violenza che si voleva combattere e di essere diventati noi stessi «figli» di quella violenza:
Noi pensavamo che la violenza dello Stato e la violenza della rivoluzione fossero distinte. In realtà, se scegli il terreno della violenza, diventi simmetrico a chi ha il monopolio della violenza, nel caso specifico lo Stato. Non fai altro che riprodurre ciò che tu vorresti combattere. È un discorso di simmetria: pensi di essere il nemico di quell’altro, in realtà ne stai diventando il figlio.5
C’è una via della sapienza di cui parla il Salmo 51, il Miserere. Una via impervia e, al contempo, affascinante, attraente. Una via, direbbe il libro di Giobbe, che «è più alta del cielo: che ci puoi fare? Più profonda degli inferi: che ne sai? La sua misura è più lunga della terra e più larga del mare» (Giobbe 11,8-9). Eppure, una via percorribile, rintracciabile nei labirinti della propria storia concreta, anche negli attraversamenti di buio che appaiono più impenetrabili e indecifrabili. Non è solo, non è tanto, il frutto di uno sforzo o di una allenata buona volontà. È una via alla conoscenza ma quella conoscenza non è solo, non è tanto, un sapere. È una via di senso, la scoperta di un senso possibile. E lo si scopre insieme. È l’altro, l’altro «difficile», il compagno di strada che permette di andare lontano in questa ricerca. La verità – quella che conduce all’incontro profondo con l’altro, anche l’Altro con la «a» maiuscola – è intimamente dialogica. Il Salmo 51 la presenta come un dono di insegnamento «nel segreto», nella discrezione e nella tenacia del quotidiano cercare e domandare: «Tu mi insegni sapienza nel segreto». Nel ciclo di Lectio del 1983-84 Martini così commentava questo versetto:
Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della mia coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato a essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia […]
e proseguiva, sottolineando che
la verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell’anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all’autenticità di quello che io, veramente, sono.6
Sembra dunque possibile, in questa ricerca, passare dalla lacerazione consumata nel proprio intimo, inevitabilmente isolato, solo con se stesso e con il proprio passato incessantemente scandagliato (tela di Penelope o fatica di Sisifo, comunque senza fine), popolato da mostri, dove, infine, «il peccato sta sempre dinanzi», alla scoperta di una via trovata nel dialogo che rompe con l’autismo del cuore e l’illusione di potercela (o dovercela) fare comunque da soli. In altre parole, dalla logica del naufrago a quella del viandante, secondo la felice intuizione di una delle persone che hanno percorso il cammino narrato ne Il libro dell’incontro: «Il pentimento accede gradualmente a una precisa logica. Non è più, solo, la dinamica del naufrago, ma piuttosto la logica del viandante: consapevole del cammino fatto, delle strade sbagliate e fuorvianti che ha percorso, capace di mettersi in discussione fino in fondo, di chiedere e anche di mendicare accoglienza e risposte, consapevole del desiderio e degli ideali che, in modi ora netti ora confusi, ancora lo muovono».7
Quando c’è una morte da attraversare non ci sono scorciatoie. Ogni sentiero che si può percorrere incontra quel punto inevitabile di non-ritorno. Un punto che affaccia sull’abisso: l’abisso della perdita irreparabile, l’abisso della colpa, l’abisso che accomuna vittime e responsabili e che potrebbe condensarsi nella domanda (di entrambi), «Come vivere ancora?». Se ascoltiamo i vissuti che emergono dalle testimonianze delle persone del gruppo ci rendiamo conto della profondità vertiginosa di quell’abisso: «È osceno che noi siamo ancora vivi, mentre altri sono morti» oppure «Ci sono molti paradossi da attraversare. L’oscenità non è nell’aver preso parola, ma nell’aver preso parola al posto della tua vittima. Lei doveva parlare, non io, che sono meno…».8 Oppure, il senso angosciante di un vuoto inspiegabile: «Proprio quella terribile, devastante e angosciante foto… Quella immagine che purtroppo per oltre trent’anni ho avuto come unico ricordo di mio padre. Quello era divenuto il mostro che caratterizzava le mie notti di adolescente. Quello era il mostro che mi impediva di crescere normalmente come un ragazzo comune. Quello era il mostro che mi dilaniava dentro, mi lacerava, mi faceva odiare con infinita rabbia gli assassini di mio padre e i loro compagni… Sinceramente vi ho odiato con tutto me stesso».9
Ancora, la consapevolezza amara di un’esistenza bloccata, paralizzata: «Mia madre non è mai riuscita a parlarmi di mio padre, neanche nella vita quotidiana. Mia madre è una linea interrotta e anche la mia vita nasce interrotta. Il dolore ha come fermato la sua vita, bloccato il tempo da quando era ragazza».10
Non ci sono scorciatoie.
Il cammino che forse è possibile fare neppure per un attimo può immaginare di poter minimizzare vissuti e nodi dolorosi come questi. È un paziente, delicatissimo, lavoro quello di sciogliere i nodi. Forse assomiglia per certi aspetti a quello di un artificiere che ha tra le mani congegni intricati ed esplosivi. Maneggiare con cura potrebbe non bastare. Padre Martini, con la sua domanda nell’ascensore, mi comunicava di avere ben presente questa delicatezza estrema. Del resto, nel suo domandare, non era tanto in questione il desiderio di capire le ragioni storiche e le dinamiche sociali – già oggetto di molteplici attenzioni, studi accurati e analisi – quanto, piuttosto, i vissuti delle persone, la dinamica delle scelte, l’elaborazione del loro dolore «del sangue versato» tra «le pieghe dell’anima». Il cammino fatto finora insieme agli amici del gruppo permette di dire che, se c’è una via per capire, se c’è comprensione profonda di quegli anni e di quel dolore, questa via passa attraverso l’incontro e il reciproco riconoscimento. Agnese Moro ne è testimone, il suo cammino solido e intenso:
Prima di mettermi a scrivere la lettera per voi ex ho voluto ritornare per un momento all’origine di tutto questo. Volevo essere certa di non aver dimenticato, di non aver annacquato il passato e quello che è successo a mio padre. Così ho riletto il referto della sua autopsia, perché è quel corpo – sono quei corpi – l’unico fatto inequivocabile, e, in maniera scarna e definitiva, la nostra realtà. Ho riletto, e pensato tanto ai quindici minuti che gli sono rimasti da vivere dopo i vostri spari, o che gli sono serviti per morire. Leggendo mi sono chiesta che cosa fosse successo in quei minuti; se avete aspettato che morisse per trasportarlo, o se è morto «cullato» dal movimento della macchina. Ho ricordato anche la feritina a mezzaluna, lì dove gli mancava un pezzetto di pollice portato via da una pallottola, ma anche il suo volto assolutamente sereno. Ho pensato a qualche altra cosa che mi ha ferita, come l’inutile cattiveria di averci privato delle sue parole di addio per dodici anni, anni nei quali nelle nostre vite è successo di tutto. Dopo queste letture e dopo questi ricordi sono stata davvero sicura di non aver annacquato nulla; che il mio cammino verso di voi – come il vostro verso di noi – è stato fatto senza semplificare, e senza mettere niente tra parentesi.11
Nessuna scorciatoia. Nessuna parentesi. Nessuna semplificazione. Il volto dell’altro racconta e testimonia ciò che altrove o in altra maniera non potrebbe essere detto. Quando Martini nella Lectio sul Miserere sottolinea la via del dialogo, dell’incontro con Dio come via di luce e di senso, non esprime questo passaggio in termini di facile soluzione, quasi Dio fosse la risposta rassicurante del Deus ex machina, la soluzione quasi magica a un’angoscia che non trova pace. È piuttosto la via del trovarsi nudi, disarmati, davanti al volto dell’altro. Perché il dialogo con Dio, nella prospettiva del Salmo 51, è esattamente quello dell’incontro con l’altro «difficile»: Dio, infatti, nel Miserere, non è giudice ma parte lesa. Commenta Martini: «È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell’uomo: l’uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano…».12
È il Dio identificato, fin dall’inizio, con ogni parte lesa: con la voce di Abele, diventato la sua voce, voce che non può più gridare se non attraverso di lui e chiede verità e riconoscimento. Dio è dunque totalmente identificato con la voce del debole, di Abele ma proprio per questo,
intervenendo come voce dei sangui di Abele e totalmente identificato con la vita strappata alla vittima, unica voce possibile del debole eliminato, Dio è, allo stesso tempo, totalmente identificato nella cura di Caino, nella necessaria custodia della sua vita, una vita che dovrà riguadagnare l’umanità, che non potrà più essere scevra dalla consapevolezza del delitto commesso, nella continua e crescente elaborazione della sua colpa. Noi facciamo fatica a immaginare (e a vivere) questa capacità di stare contemporaneamente vicini a entrambi: o si è da una parte o si è dall’altra. Dio fa qualcosa di paradossale (solo l’amore, forte e lucido, può sostenere paradossi come questo): per essere pienamente in ascolto di Abele interroga anche Caino e per fare piena giustizia dei sangui di Abele si prende cura di Caino e della sua discendenza. Guardando a Dio, tornando ad alzare verso di Lui lo sguardo, Caino potrà reincontrare il volto di Abele, ascoltare quella voce muta, senza più sottrarsi alle sue responsabilità. Ma l’incontro con quel volto, denudato dal dolore che ha attraversato, gli permetterà di scoprirlo in modo nuovo: un volto divenuto finalmente simile al suo, che non lo inchioderà a un fatto passato ma, in un reciproco riconoscimento incondizionato, saprà dischiudergli un dopo da vivere.13
1 F. Rizzi, Così Martini disarmò i terroristi, in «Avvenire», 31 agosto 2017, 18.
2 C.M. Martini, La Scuola della Parola, Bompiani, Milano 2018, 338.
3 T. Malick, The Thin Red Line (La sottile linea rossa), USA 1998.
4 G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato, Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, il Saggiatore, Milano 2015. Questo brano e quelli che seguono sono tratti dalla sezione «Voci», 111.
5 Ivi, 83.
6 C.M. Martini, La Scuola della Parola, cit., 339.
7 G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato, Il libro dell’incontro, cit., 144.
8 Ivi, 112-113.
9 Ivi, 155.
10 Ivi, 180.
11 Ivi, 161.
12 C.M. Martini, La Scuola della parola, cit., 347.
13 G. Bertagna, «Caino e Abele. Vie possibili di una fraternità fragile», in Nessuno tocchi Caino, La pena di morte nel mondo. Rapporto 2014, Reality Book, Roma 2014, XXIV.