Partiamo dalla testimonianza di una giovane ragazza ebrea, Etty Hillesum, morta ad Auschwitz nel 1943, all’età di ventinove anni. Una ragazza straordinaria.
Dapprima incredula, misticamente viene a conoscere Dio, a inginocchiarsi, a pregare, così che ottiene di vivere l’esperienza della Shoah (dalle crescenti vessazioni fino alla partenza per Auschwitz) con una serenità, una pace, un’umiltà, una capacità di perdono che sono incredibili.
Da parte di alcuni rabbini americani, come riconoscimento per il contributo che ho cercato di dare al dialogo ebraico-cristiano, ho ricevuto in regalo una Menorah di bronzo, alta un metro e trenta, opera di uno scultore gerosolimitano. Questo dono, se lo vedrete nel Museo del Biblico, spira quella stessa aura di compassione, di pietà, di speranza, che appare dal diario della Hillesum; espressione di una vita vissuta praticamente in un inferno.
All’inizio degli orrori della Shoah, quando fra gli ebrei olandesi regnavano la confusione e il terrore riguardo alla loro sorte, il giorno 11 luglio 1942 (quel giorno era Shabbat) Etty Hillesum scrive nel suo diario (E. HILLESUM, Diario (1942-1943), a cura di J.G. Gaarlandt, Adelphi, Milano 2004): «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio».
C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Mondadori, Milano 2009, 144s.
Carlo Maria Martini mostra di essere stato colpito dal contrasto, testimoniato dal diario di Etty Hillesum, tra «una vita vissuta praticamente all’inferno», in una «situazione apparentemente chiusa e oscura», e l’illuminazione che la trasforma, permettendole di «descrivere serenamente le persecuzioni naziste contro gli ebrei». La «notte oscura» e la «lotta terribile» di Giacobbe vengono ritrovate da Martini nella vicenda di Etty Hillesum14 in quanto premesse della «profondissima intimità con Dio» che la porta ad affermare la necessità di «aiutare Dio». Se avesse potuto leggere la lettera a Julius Spier del luglio 1942, contemporanea al brano di diario citato, avrebbe trovato la frase in cui Etty Hillesum invita a «perdonare Dio»:
Questo momento storico, così come lo stiamo vivendo adesso, io ho la forza di sostenerlo, di portarlo tutto sulle spalle senza crollare sotto il suo peso, e posso perfino perdonare Dio, che le cose vadano come devono andare. Il fatto è che si ha tanto amore in sé da riuscire a perdonare Dio!15
Spesso desideriamo che le persone dal cuore e dalla mente molto grandi che ci hanno lasciato fossero ancora vive per aiutarci a pensare cose difficili. Ciò accade con Martini che, ben sapendo che l’idea di «aiutare Dio» poteva destare qualche «sospetto» nelle «menti formate in teologia», aveva accolto il suo significato come un «volere di più» da parte di Dio rispetto a una solidarietà intesa come comunità di intenti tra gli appartenenti a un gruppo. L’aiuto concreto, l’interessarsi degli altri, l’averli a cuore sono ciò che rende effettivamente presente Dio nel mondo. Avendo accettato il significato radicale della «storia misteriosa» di Etty Hillesum, che cosa avrebbe pensato del «perdonare Dio»?
In un dialogo immaginario con Martini provo a commentare la frase che non ha potuto leggere portando allo scoperto le domande che traspaiono dal suo stupore di fronte alla vicenda della «ragazza straordinaria».16
«Aiutare Dio» per Etty Hillesum corrisponde all’idea che solo una trasformazione interiore può condurre a vincere il male. Il diario è il documento di un lavoro su di sé, compiuto nelle condizioni estreme della persecuzione antiebraica in Olanda, che passa attraverso molte cose: raccogliersi in un «angolino», tenere una corrispondenza, stare con gli altri, andando di qua e di là nel campo di Westerbork, senza fare niente di speciale, ascoltando, sedendosi accanto, mettendo una mano sulla spalla, cercare di comprendere gli avvenimenti politici che insanguinano l’Europa, infine dialogare con Dio e pregare. Dall’esperienza di Etty Hillesum nascono molte difficili domande. Che cosa fu la sua «gioia» (partì dal campo di Westerbork, in cui aveva scelto volontariamente di restare, diretta ad Auschwitz «cantando», come risulta da una cartolina gettata dal treno e raccolta da un’amica)? Che cosa fu il suo rifiuto di aumentare anche solo di un grammo la quantità di odio che la circondava per non rendere ancora più inospitale il mondo? Come fu possibile «descrivere serenamente» l’orrore?
In un altro scritto, Martini paragona la «storia misteriosa» di Etty Hillesum alla vicenda di Giacobbe, al «coinvolgimento misterioso» che gli permise di «riconoscere la divina presenza nei momenti più drammatici» della vita e di «non sottrarsi mai alla lotta con Dio». Martini dice di essere stato colpito dal fatto che nel primo incontro Julius Spier, il terapeuta a cui Etty Hillesum fu molto legata, volle sostenere una lotta fisica con lei.17 Sulla traccia di queste forti intuizioni, tradurrò il mistero a cui Martini allude nel paradosso di Etty Hillesum: la tenacia di amare nonostante tutto, l’accettazione paziente della sofferenza che assumono valore di conoscenza della realtà, di trasformazione del sentire e del pensare.
Nella sua ultima opera, Il paradosso della morale, Vladimir Jankélévitch definisce il paradosso «la contraddizione professata»,18 una contraddizione che non è suscettibile di conciliazione, ma può essere messa in movimento vivendola, assumendo su di sé gli opposti. Il paradosso di Etty Hillesum ha messo in difficoltà i suoi lettori. Tzvetan Todorov ha osservato che in lei c’è resa, ma non resistenza, se vogliamo usare i termini di Bonhoeffer, ossia rinuncia alla lotta concreta per l’abolizione del male.19 Altri come Giancarlo Gaeta, la pensano diversamente.20 Resta il fatto che la giovane donna scomparsa ad Auschwitz nella sua breve esistenza ci ha messo di fronte alla collisione di amori, inquietudini, progetti per il futuro, con avvenimenti storici che miravano, e lei lo sapeva bene, al «totale annientamento» del popolo ebraico a cui apparteneva.21 Al tempo stesso, ci ha mostrato come, ospitando tutto ciò che accadeva in lei stessa e la storia faceva accadere a lei e agli altri e diventando, secondo la sua espressione, «campo di battaglia» dei problemi del suo tempo,22 il suo spazio interiore si sia ampliato fino ad accogliere il dolore dell’umanità e a preservare Dio dall’oltraggio compiuto dagli esseri umani nei confronti del dono ricevuto nel momento in cui furono creati a «sua immagine e somiglianza».
Il cammino di Etty Hillesum si riassume nello straordinario ampliamento del suo spazio interiore e lo ripercorro brevemente. Etty Hillesum giunge a Dio, come lei stessa riconosce, attraverso l’esperienza dell’amore per Julius Spier: è lui che fa da trampolino e libera le sue forze per l’incontro con Dio. Dio è il nome per tutto ciò che lei leggeva nell’universo, è il nome che dà all’anima degli altri, anche quando è avvizzita o nascosta, è il nome che dà a se stessa, quando si ascolta dentro. Dio è sopportare tutto e trovare la vita bella e piena di significato.
Hineinhorchen, vorrei trovare una buona traduzione olandese di questa parola. In fondo la mia vita è un ininterrotto ascoltar dentro me stessa, gli altri, Dio. E quando dico che ascolto dentro, in realtà è Dio che ascolta dentro di me. La parte più essenziale e profonda di me che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio.23
Dio diventa l’interlocutore quasi esclusivo solo nelle parti finali del diario. Lo diventa nella forma di un tu a cui Etty Hillesum si rivolge nel suo dialogo interiore. Preghiera e raccoglimento sono le forme del rapporto con Dio. La «ragazza che non sapeva inginocchiarsi» ha infatti imparato a pregare.24
Il lavoro per liberarsi dall’ingombro del sé, da tutto ciò che ristagna interiormente mostra infine il suo obiettivo, non soffocare quell’altro da sé che parla al fondo della sua anima. Un gesto in cui il corpo accompagna semplicemente lo spirito – due mani giunte e un ginocchio piegato – rappresenta la volontà di non cacciare Dio dal proprio territorio, di ospitarlo e di farlo sentire a casa, di trattarlo bene.25 Dio è la spaziosa pianura, la vastità che Etty Hillesum sente di avere dentro di sé. La preghiera, la ricerca, l’inginocchiarsi riassumono l’istante in cui ogni distrazione e dissipazione di sé hanno fine.
Per molto tempo Dio coincide con la richiesta di raggiungere unità e pienezza interiore, salda energia spirituale, e di trovare il proprio centro. In seguito, Etty Hillesum chiede aiuto a Dio, e mostra che nel suo rapporto con Dio è essenziale la fiducia nella sua bontà, l’abbandono alla sua volontà, accettare tutto come se venisse dalle sue mani. Si sente tra le braccia della vita e tra le braccia di Dio.26 Questa dimensione di tenerezza, di protezione e di rifugio, diventa anche desiderio di aiutare Dio al cospetto dei terribili avvenimenti che porteranno molti a dubitare del suo amore per gli uomini e a interrogarsi sulla sua bontà infinita. Per Etty Hillesum Dio non è responsabile del male commesso dagli uomini. Ecco perché bisogna «aiutarlo»,27 «salvarne» l’esistenza nel mondo, «dissotterrarlo» dall’animo delle persone.
Dio dunque non è soccorso, consolazione o semplicemente messa in relazione con il mistero. In Dio si compie piuttosto l’aspetto più sconvolgente dell’esperienza di Etty Hillesum. Dio è il culmine di un cammino spirituale e di vita, in cui la capacità empatica di sentire gli altri, di aprire la propria esperienza a ciò che vivono gli altri, si nutre e si completa con l’attesa e la prefigurazione del futuro (di un’Europa che non soccomba alla sua agonia) fino al senso ultimo del tutto. «Aiutare Dio» è un ultimo, sublime modo di essere ospite, amica, è l’estrema possibilità di pensare diversamente la catastrofe, di pensare oltre ciò che è stato distrutto.
Etty Hillesum sperimenta così l’estrema possibilità di «perdonare Dio». Dobbiamo chiederci: che cosa deve essere perdonato a Dio? Forse ha ragione Martini quando nel brano di diario dell’11 e 12 luglio 1942 legge un tono «provocatorio», quasi di rimprovero («Tu non puoi aiutare noi, ma […] siamo noi a dover aiutare Te»)? Il pensiero di Etty Hillesum è libero da preoccupazioni dogmatiche ed è arrischiato, ma in esso non c’è nessuna sfida. Non ha senso pensare che a Dio, che perdona tutto su questa Terra, deve essere perdonato l’imperdonabile, il folle progetto che alcuni individui hanno concepito di distruggere il fondamento della condizione umana, la relazione reciproca e l’interdipendenza che lega gli esseri che abitano lo stesso mondo. In realtà, nel punto in cui si perdona Dio, umano e divino, finito e infinito rivelano la loro incommensurabile alterità.
Il frammento della lettera a Julius Spier è paradossale nel senso ricordato prima. Chi scrive, una giovane donna, si prende sulle spalle il «peso» di «questo momento storico» e «perdona» Dio nel senso di non inchiodarlo al macigno della domanda che molti si sono posti: Dio è morto ad Auschwitz? Il diario e le lettere di Etty Hillesum sono imperniati sulla convinzione che al male non si risponde con il male, ma con un «dono in eccesso», secondo l’etimologia di per-donare. La contraddizione insolubile tra l’amore e l’odio, il bene e il male, la speranza e la violenza distruttiva può diventare così parte dell’esperienza vissuta. Etty Hillesum vuole preservare l’essenza di Dio, che è amore, misericordia, ossia la massima antitesi di ciò che sta avvenendo davanti ai suoi occhi. Azzardando questo pensiero, Etty Hillesum ritrova Dio nel fondo della tragedia e del fragile cuore umano, non nell’alto dei cieli, nel pieno della sua onnipotenza e sovranità, ma nella lotta ingaggiata in ognuno contro ciò che a lui si oppone.
Un cammino che raggiunge un punto limite – il treno per Auschwitz e l’idea di «perdonare Dio» – provoca un’ultima domanda: come fu possibile esercitare la «pazienza» che Etty Hillesum aveva appreso dall’amato poeta Rilke, e divenne ben presto mettersi nelle mani di Dio, riuscendo a non dimenticare, in mezzo alle atrocità e al filo spinato, il cielo, la bellezza e l’amicizia, a conservare una grande fiducia e rispetto per l’umanità ridotta all’«ultima camicia», come diceva, e persino un certo umorismo?
Il mistero a cui allude Martini invita anche chi guarda il paradosso di Etty Hillesum a rispettare lo spazio enigmatico del suo destino. Non sappiamo quali sarebbero state le sue scelte se fosse sopravvissuta, e trasformarla in un’eroina sarebbe in fondo allontanarla da noi, che viviamo in condizioni tanto diverse. Il tratto di cammino che lei ha percorso con tanta intensità ha le caratteristiche di una battaglia (parola che ricorre spesso nel diario), condotta però con la semplicità di un cammino di educazione allo studio, all’amore, all’amicizia, in una parola, preparandosi a vivere la vita come qualsiasi giovane donna della sua età. Arriva così al punto in cui tutto può avere inizio: la scrittura (desiderava diventare scrittrice), la fede, la vita quotidiana. In quel punto, tuttavia, prima di realizzare opere, azioni, Etty Hillesum vorrà semplicemente essere «un balsamo per molte ferite», e portarsi dentro le persone «come boccioli […] che lascio sbocciare» o «come ulcere finché si aprano e suppurino (la signora Bierenhack)».28
In questa luce, la serenità che pervade molte pagine del diario non appare più tanto inspiegabile. L’atteggiamento assunto di fronte alla persecuzione fu fin dall’inizio il rifiuto di cercare una via di salvezza. Etty Hillesum decise di lavorare presso il Consiglio ebraico di Amsterdam, di cui denunciò gli intrighi e le complicità con i nazisti, e andò nel campo di Westerbork, che serviva da tappa di smistamento prima di Auschwitz, rifiutando le opportunità di nascondersi e di fuggire che erano a portata di mano di molti ebrei con buone relazioni sociali. Non si trattò della rinuncia a resistere, a indignarsi, a giudicare. Etty Hillesum rifiutò di combattere la persecuzione nella forma della rivolta, dell’odio, del disprezzo, della scelta di campo, ideologica o combattente. Decise di non prendere iniziative contro il destino della deportazione, di stare nel lager e da lì guardare alla persecuzione e allo sterminio, mettendo al centro le questioni fondamentali dell’esistenza: l’umanità, il dolore, la morte, la vita, il futuro.
Quando parla di «resa», paragonandosi a un «rocchetto di filo che viene lentamente srotolato», Etty Hillesum si riferisce a un «gesto che si apre sempre più e si protende sempre oltre, con il quale mi impegno a concedermi a tutto ciò che viene».29 Questo atteggiamento non ha nulla di un destino accettato passivamente. Offrendosi come «campo di battaglia», l’essere colpita dagli avvenimenti si trasforma in energia di vita e il «concedersi a tutto ciò che viene» diventa la possibilità di essere buoni senza preoccuparsi del Bene, ossia, nel caso concreto, della vittoria sulla persecuzione antiebraica.
Ma stanotte io vestirò tutti i bambini piccoli e tenterò di calmare le madri e questo lo definisco «aiutare», potrei quasi maledirmi da sola: sappiamo bene che abbandoneremo le persone indifese e malate del campo alla fame, al caldo e al freddo, alla vulnerabilità e alla distruzione, eppure le vestiamo noi stessi e le accompagniamo ai nudi carri bestiame, e se non sono in grado di camminare le portiamo sulle barelle. Ma che cosa succede qui, che misteri sono questi, in quale meccanismo funesto siamo impigliati? Non possiamo liquidare il problema dicendo che siamo tutti dei vili. E poi, non siamo così cattivi. Ci troviamo di fronte a interrogativi più profondi…30
È vero che pensarla in questo modo vuol dire sentirsi come «un palo ritto in un mare infuriato, fra le onde che lo battono da ogni parte».31 Ciò significa tuttavia non fidare eroicamente nelle proprie forze, ma combattere qualcosa dentro di sé, facendosi attraversare dalla sofferenza che gli uomini infliggono a sé e agli altri. E implica infine esercitare una vigilanza severa sui propri sentimenti e insieme umanizzare la sofferenza, toglierle l’aspetto puramente fisico e materiale, che disumanizza, e reintegrarla nella condizione umana.
Uno spazio enigmatico, si è detto, circonda il suo destino. Non si tratta però di uno spazio vuoto, privo di parole e di pensiero. Le pagine del suo diario sono piene di attesa, di pazienza, e non di impazienza e in esse domina la dimensione dell’oltre, della trascendenza. Sta qui la chiave per capire il significato della sua accettazione della realtà del lager.
Certo che non è così semplice, e forse meno che mai per noi ebrei; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del Dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora sarà troppo poco. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza, oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze che diventano quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di risposte chiarificatrici su questi avvenimenti inspiegabili, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti.
Per questo mi sembrava così pericoloso sentir ripetere: «Non vogliamo pensare, non vogliamo sentire, la cosa migliore è diventare insensibili a tutta questa miseria».
Come se il dolore – in qualunque forma ci tocchi incontrarlo – non facesse veramente parte dell’esistenza umana.32
14 Cfr. C.M. Martini, Giacobbe. Il sogno di un uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2017, 112-115 (1a ed. 1989).
15 E. Hillesum, Lettere. Edizione integrale 1941-1943, tr. it. di C. Passanti, T. Montone e A. Vigliani, Adelphi, Milano 2013, 28 (lettera a Julius Spier del luglio 1942). Questa lettera non è contenuta nella precedente edizione italiana delle lettere (Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990) che come quella del Diario (Adelphi, Milano 1986) offriva una selezione degli scritti di Etty Hillesum.
16 Per una visione generale della figura di Etty Hillesum, rinvio al mio saggio «Etty Hillesum 1914-1943», in L. Boella, Le imperdonabili. Milena Jesenská, Etty Hillesum, Marina Cvetaeva, Ingeborg Bachmann, Cristina Campo, Mimesis, Milano 2013 (ed. rivista e ampliata), 71-103.
17 Cfr. supra, nota 15.
18 V. Jankélévitch, Il paradosso della morale, Orthotes, Nocera Inferiore (Sa) 2020, 132.
19 T. Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei Gulag e dei campi di sterminio?, Garzanti, Milano 1992, 211-214; 216-222.
20 G. Gaeta, Il privilegio di giudicare. Scritti su Etty Hillesum, Apeiron, Guidonia 2016.
21 E. Hillesum, Diario 1941-1943. Edizione integrale, Adelphi, Milano 2012, 787 (3 ottobre 1942).
22 Ivi, 112-113 (14 giugno 1941).
23 Ivi, 756-757 (17 settembre 1942). Vedi anche ivi, 721-722 (15 luglio 1942).
24 Ivi, 793-794 (10 ottobre 1942).
25 Ivi, 714 (12 luglio 1942).
26 Ivi, 756.
27 Ivi, 707 (11 luglio 1942); 713s. (12 luglio 1942).
28 Ivi, 796s. (13 ottobre 1942). Si tratta dell’ultima pagina del diario.
29 Ivi, 716 (14 luglio 1942).
30 E. Hillesum, Lettere, cit., 137 (lettera a Han Wegerif e altri del 24 agosto 1943).
31 E. Hillesum, Diario, cit., 145 (13 agosto 1941).
32 E. Hillesum, Lettere, cit., 57. Si tratta della lettera del dicembre 1942 a «due sorelle dell’Aia», pubblicata dalla Resistenza olandese nel 1943. In essa si trova un ampio resoconto della situazione nel campo di Westerbork.