La parabola contiene quello che si potrebbe chiamare un «abbozzo di antropologia pastorale» […] Quest’uomo è indicato nella parabola dal terreno su cui si semina, dalle diverse configurazioni e situazioni di questo terreno, dalla capacità di questo terreno di accogliere il seme e di farlo germogliare, fino alla maturazione completa. Il terreno è l’uomo, è l’umanità, sono i singoli uomini, è ciascuno di noi. Noi siamo terra in attesa del seme, terra ricca di potenzialità e di succhi vitali, terra irrorata da piogge e irrigata da fiumi, terra lombarda arricchita nella sua storia da molteplici doni del Signore.
C.M. Martini, Cento parole di Comunione. Lettera alla diocesi nell’anniversario dell’ingresso [Milano, 10 febbraio 1987], in Idem, Interiorità e futuro, EDB, Bologna 1988, 95-103: 96s.
Il ricchissimo magistero di Martini, testimoniato nei ventitré volumi della raccolta dei suoi discorsi, aveva un «roveto ardente» che si sprigionava dall’incontro vivo tra coscienza e Parola. È una polarità che lo attraversa dall’inizio alla fine, perché la coscienza è quella dell’uomo moderno nel ventaglio delle sue relazioni e la Parola è quella che viene incontro all’uomo facendosi carne e storia. Ecco il roveto ardente che il vescovo di Milano pone al centro della sua ricezione del Vaticano II. Tutto il magistero di Martini può essere riassunto in questo intento: favorire il «meraviglioso scambio» (admirabile commercium) tra la coscienza e la Parola, tra il terreno dell’umano e il seme della Parola. È l’incontro in cui coscienza e Parola, terreno e seme, devono perdere qualcosa per arricchirsi reciprocamente: il terreno perché deve essere dissodato e diserbato per accogliere il seme; il seme perché deve morire nel terreno della coscienza per far germogliare in esso lo stelo e il frutto.
È possibile avvicinarsi a questo roveto, che arde in modo inesauribile, accostandosi a un testo, certamente di pugno di Martini, in cui al settimo anno della sua permanenza a Milano prendeva sul serio una domanda provocante che gli era stata posta: se lei dovesse dire in cento parole i principi fondamentali che sottostanno al cammino pastorale che sta proponendo alla nostra Chiesa, come si esprimerebbe? Il vescovo di Milano risponde da par suo con una lettera breve, lineare, emozionante, per così dire un vero Martini d’annata! Per onorare la fatidica domanda dopo il primo settennio di presenza nella diocesi ambrosiana, il Cardinale di Milano commenta le cento parole della parabola del seminatore. Di qui il titolo dell’intervento: Cento parole di comunione. Eccone l’attacco emozionante: «La parabola contiene quello che si potrebbe chiamare un “abbozzo di antropologia pastorale” […] Quest’uomo è indicato nella parabola dal terreno su cui si semina, dalle diverse configurazioni e situazioni di questo terreno, dalla capacità di questo terreno di accogliere il seme e di farlo germogliare, fino alla maturazione completa. Il terreno è l’uomo, è l’umanità, sono i singoli uomini, è ciascuno di noi. Noi siamo terra in attesa del seme, terra ricca di potenzialità e di succhi vitali, terra irrorata da piogge e irrigata da fiumi, terra lombarda arricchita nella sua storia da molteplici doni del Signore». Notiamo la descrizione tutt’altro che passiva della coscienza: la sua ricettività è dotata di potenzialità, di succhi vitali, di piogge benefiche e di fiumi irrigui, di identità lombarda arricchita da molti doni. La coscienza riceve la Parola, concorrendovi con tutta la vita dell’anima, determinata dalla lingua e dalla sua storia culturale. Sappiamo con quanta cura e quanto amore Martini, un torinese trapiantato a Roma, ha voluto e saputo immergersi nella cultura lombarda, con un ascolto della sua ermeneutica dell’umano e della sua pragmatica della vita. Questa è la prima cifra che l’arcivescovo ha introdotto nell’indaffarato e produttivo corpo della cultura lombarda e, in particolare, milanese. Anzi, è stata la sorpresa che ha messo in crisi l’obeso corpo ecclesiastico della «diocesi più grande del mondo» e ha fatto drizzare le antenne del mondo culturale di Milano. Che così è diventato un centro gravitazionale di attenzioni e di scambi. Tutti quelli che passavano da Milano volevano incontrare il successore di Ambrogio e Carlo, per saggiare quasi sul campo come la fecondazione del terreno che Martini aveva iniziato producesse frutto.
Di quest’opera di dissodamento del terreno, di ascolto della coscienza, di risveglio del desiderio sono documento insuperabile la Scuola della Parola e la Cattedra dei non credenti. Proviamo a prendere in mano un testo dei suoi Esercizi Spirituali o un volume che raccoglieva gli interventi alla «Cattedra»: sarà facile notare come lo scandaglio della coscienza, dei suoi stati emozionali, dei meandri del sentire, delle affezioni del corpo, dei disturbi delle relazioni, delle povertà sociali venisse non solo prima di ogni ideologia o teoria, ma fosse anche il magnete con cui il Vescovo guidava a leggere la propria e l’altrui esperienza dell’umano. Il terreno dell’umano è potenzialmente credente, ma perché lo diventi realmente ha da essere dissodato e liberato dalle sterpaglie e dai rovi che soffocano la sua potenza auditiva. Perché per credere si può partire dai bisogni, ma poi occorre risvegliare il desiderio.
È l’aspetto «moderno» che proviene dalla sua appartenenza alla scuola gesuitica. Basti leggere questo passaggio della lettera sul senso autentico della «libertà di credere»: «Accogliere la Parola significa credere. L’uomo si realizza nel credere, così come il terreno si realizza nel ricevere il seme. Traducendo in termini pastorali: l’uomo è fatto per accogliere la Parola, l’uomo è capace di accogliere la Parola, l’uomo fruttifica in misura della sua accoglienza della Parola della sua fede. Non si può forzare l’uomo al bene, è vano piegare la sua libertà con mezzi esterni: è soltanto dall’abbondante seminagione della Parola che è possibile sperare il frutto. D’altra parte non esiste nessuna persona che sia per natura del tutto impenetrabile alla Parola. Né esistono casi veramente “irrecuperabili”, fin quando si rimane nel terreno della vita». Resta indimenticabile il suo appello: «Non si può forzare l’uomo al bene, è vano piegare la sua libertà con mezzi esterni: è soltanto dall’abbondante seminagione della Parola che è possibile sperare il frutto». Solo la semina senza calcolo della Parola, che s’intreccia con le balbettanti e fragili parole umane, può fecondare la coscienza, come Martini ha detto in uno slogan fulminante: «La coscienza è un muscolo che va allenato!». Martini è stato un allenatore della coscienza moderna nel momento drammatico della fine del Novecento.
Alla fiducia nella capacità dell’uomo di accogliere la Parola corrisponde la consegna al primato della Parola. Martini intende questo primato come il corpo della Parola e il corpo del Sacramento, secondo la concezione biblica della rivelazione fatta di «gesti e parole intimamente connessi» (Dei Verbum 2). Sentiamo nel biglietto da visita delle cento parole di Martini come entra in scena il Seminatore che semina la Parola:
Il vero protagonista di tutta la storia del campo è la Parola. La Parola seminata, la Parola calpestata, la Parola soffocata, la Parola dissipata, la Parola accolta e che mette radici nel terreno per poi germinare fino a produrre il cento per uno. Questa Parola non è semplicemente qualcosa di estrinseco, di aggiunto all’uomo, qualcosa di cui l’uomo possa fare anche a meno. Terreno e seme sono stati creati l’uno per l’altro. Non ha senso pensare al seme senza una sua relazione con il terreno. E quest’ultimo senza il seme è deserto inabitabile. Fuori della metafora: l’uomo così come noi lo conosciamo, se taglia ogni sua relazione con la Parola diviene steppa arida, torre di Babele.36
La fiducia nel primato della Parola è stata il Leitmotiv del magistero e del ministero di Martini. Non la Parola ridotta solo a dottrina o a una costellazione di idee teologiche e di valori morali, ma tutto questo inserito nella relazione della Parola alla vicenda dell’uomo. Il vescovo di Milano sottolinea anzitutto il secondo motivo: «Difendere il rapporto dell’uomo con la Parola è dunque difendere semplicemente l’uomo, i suoi spazi di espressività e di relazione autentica, i suoi orizzonti di senso». Questo è l’orizzonte sconfinato che ci aiuta a comprendere l’attualità di Martini. Per difendere l’umanità delle donne e degli uomini del suo tempo egli è diventato l’indomito cavaliere della Parola: più il Vescovo sembrava concentrato su di essa, ancor meglio si faceva ascoltare nelle lande deserte dell’uomo contemporaneo. Per Martini non si tratta dunque di un uomo splendidamente isolato, ma di tutta la storia degli uomini: «La Parola è per il terreno. La sua efficacia si manifesta non in astratto, ma nel suscitare, interpretare, purificare, salvare la vicenda storica della libertà umana. La Parola incontra e incrocia le aspirazioni dell’uomo, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale». Come il seme è fatto per il terreno e il terreno resta arido senza il seme, così la Parola senza la coscienza diventa seme secco e dissipato, mentre la coscienza senza la Parola diventa deserto inabitabile e torre di Babele.
Questo è possibile perché Martini professa una forte teologia della Parola: «Essere cristiano vuol dire avere riconosciuto il primato e la principalità di questa Parola». Siamo al cuore della spiritualità martiniana: il primato e la principalità della Parola. Martini rivendica la piena cattolicità della sua teologia della Parola, una volta che essa non sia intesa solo in modo verbale o scritturale, ma intrecciata in modo inseparabile con il Sacramento e la Chiesa. Se il legame della Parola (gestis verbisque) alla persona di Gesù preserva il magistero di Martini da ogni biblicismo letteralista, la presenza di Gesù nella parola proclamata e nel sacramento celebrato incorpora Gesù nella vita della Chiesa, respingendo ogni retorica del rimando a Gesù senza vincolo alla Scrittura. Più ancora salva da un rinvio formale e sterilizzato a Gesù, senza fare i conti con la sua storia. Per questo Martini alla fine del suo periodo inaugurale a Milano conclude in modo lapidario: «L’ignoranza delle Scritture infatti è ignoranza di Cristo (cfr. Dei Verbum 25). Non è dunque possibile ricevere Gesù Cristo e lasciarlo farsi uomo nella terra del nostro cuore senza fare continuamente riferimento alla sua Parola e alle parole ispirate che parlano di lui».
Nell’ultima parte del suo biglietto da visita, Martini apre lo sguardo al campo del mondo al quale la Parola non solo è diretta, ma senza il quale non può attecchire, fecondare, germinare e far crescere le opere e i giorni degli uomini. Il Cardinale di Milano è stato un insonne ascoltatore dei linguaggi delle persone del proprio tempo, proprio perché il suo orecchio era educato all’interminabile ascolto dei linguaggi della Scrittura. L’incontro con lui era affascinante, in quanto ciascuno si sentiva accolto e ascoltato nella sua singolarità. Egli è stato un curioso e appassionato lettore dei «segni dei tempi», come mostrano i numerosissimi interventi in ogni campo del sapere e dell’operare. Soprattutto ha sentito la responsabilità di essere punto di riferimento per la vita della città in anni oscuri e drammatici, contrassegnati dal terribile stillicidio del terrorismo. Quando egli arrivò a Milano il ’68 ormai aveva esaurito la sua spinta critica e già apparivano all’orizzonte i bagliori funerei dell’ideologia che avrebbe portato al tramonto della modernità. Ha fatto a tempo a sperimentare, nella seconda parte del suo ministero dopo il crollo del muro di Berlino, il sorgere di una nuova sensibilità privatistica, che correva il rischio di un impoverimento sentimentale non solo della fede, ma anche della vita sociale.
Per questo sono notevoli le ultime due lettere del settennio inaugurale del ministero milanese di Martini (Partenza da Emmaus e Farsi Prossimo) dove con sguardo profetico aveva anticipato la Chiesa «in uscita» di papa Francesco. Egli è stato protagonista a Basilea nel 1989 sul tema della «salvaguardia del creato», precorrendo la sensibilità della Laudato si’. Ma ascoltiamo come questo allargamento dell’orizzonte della Chiesa al mondo è contenuto nella sua forza propulsiva già nella nostra lettera: «La parabola del seminatore è sempre stata interpretata in senso antropologico: si tratta della storia della Parola seminata nei cuori degli uomini. Ogni persona reagisce a suo modo, secondo le diverse vicende indicate simbolicamente nella strada, nelle spine, nella terra sassosa, nella terra buona. L’uomo viene giudicato secondo il suo modo di rispondere alla Parola. La parabola può tuttavia esser letta anche pensando alla umanità che diventa Chiesa. Non è un’altra lettura, ma è la stessa lettura antropologica allargata in chiave ecclesiologica, secondo una continuità ben nota al Nuovo Testamento». Martini è pienamente cosciente che al momento interiore in cui il seme germina nella coscienza corrisponde il momento propulsivo del fruttificare della Parola nella vita della città e del mondo. La vicenda del seme nel terreno, la drammatica della Parola seminata, calpestata, soffocata, dissipata, accolta ha a che fare col processo di fruttificazione, di maturazione e di mietitura della vita del mondo.
Concludo con l’ultima intervista di Martini apparsa sul «Corriere della Sera» del 3 settembre 2012, tre giorni dopo la sua morte. Il testo è la trascrizione di un colloquio con Georg Sporschill avvenuto l’8 agosto di quell’anno. Martini decise che l’intervista venisse pubblicata solo dopo la sua morte. È una sorta di drammatico grido, da consegnare ai posteri: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza». Il grido sul ritardo della Chiesa di fronte al mondo moderno non va inteso superficialmente come un giudizio liquidatorio, ma è una provocazione a ritornare sempre da capo all’incontro incandescente tra coscienza e Parola. Ecco, il roveto ardente di Martini!
36 C.M. Martini, Cento parole di comunione, cit., 98s.