Non c’è vita di preghiera autentica che […] non passi in qualche maniera per queste situazioni di prova, che sant’Ignazio chiama di «desolazione spirituale».
Vediamo com’è redatta la Regola quarta degli Esercizi:
Chiamo desolazione spirituale tutto ciò che si oppone alla terza regola, cioè: oscuramento dell’anima, turbamento interno, movimento per cose infime e terrene, inquietudine di varie agitazioni e tentazioni che muovono a diffidenza, senza speranza, senza amore, quando l’anima si sente tutta pigra, tiepida, triste e come separata dal suo Creatore e Signore [317].
Ecco una descrizione, con pochissime parole, ma molto plastica, molto concreta, di quei movimenti che sorgono in noi nello stato di desolazione. Si tratta dell’anima accecata, avvolta dal buio, l’anima di una creatura che non sa più dove andare: ma che sto facendo? perché faccio questo? perché vado avanti in questa preghiera arida? che cosa ottengo, che cosa me ne viene? È un’anima turbata.
C.M. Martini, Il sole dentro, Piemme, Milano 2016, 55-58.
Così Carlo Maria Martini nell’agosto 1975 parlava alle carmelitane scalze del monastero di Piacenza in un corso di Esercizi incentrato sul tema della lotta spirituale. Il testo biblico di riferimento, scelto non a caso essendo uno dei più ampiamente citati nella Regola carmelitana, era la conclusione della Lettera agli Efesini (6,10ss.). Per l’allora rettore dell’Istituto Biblico la Lettera agli Efesini è forse «la più contemplativa del Nuovo Testamento, quella in cui si penetra con profondità inaudita nel mistero di Cristo».37 È significativo che proprio questa lettera si concluda con una riflessione sulla lotta spirituale, quasi a dire che non c’è contemplazione né conoscenza approfondita del mistero di Cristo che non passi attraverso un’esperienza di conflitto e di rottura. È una lotta che impegna tutte le risorse dell’animo umano e porta la persona fino all’estremo limite delle sue capacità. In questo senso, è tanto rischiosa quanto necessaria, poiché – come scrive santa Teresa di Gesù – «Dio non si dà del tutto fino a quando noi non ci diamo del tutto a Lui».38
Benché non ci sia praticamente autore spirituale che non parli di questo passaggio oscuro nella vita di preghiera, quando ci si trova a doverlo affrontare esso non manca di provocare reazioni di profondo turbamento, di paura e scoraggiamento con conseguenti tentazioni di fuga. Se non si riesce a resistere pazientemente nella lotta interiore attingendo forza nel Signore (Efesini 6,10), la preghiera – dice Martini – «rimane un gioco, un’avventura spirituale» che non arriva a toccare Dio, anzi a «sbattere» contro la roccia della realtà di Dio (immagine familiare a un amante della montagna come lui). È un ammonimento che da un lato riprende una tradizione millenaria intorno alla crescita spirituale, dall’altro mette in guardia da un pericolo attualissimo, che minaccia in modo particolare le generazioni più giovani.
Nella nota intervista che rilasciò nel 2007 a Georg Sporschill, il cardinale Martini rispondendo a una domanda riguardo a ciò che più lo preoccupa nei giovani disse: «Ciò che mi preoccupa è la mancanza di coraggio […] Alla gioventù e alla Chiesa vorrei dire questo: abbiate coraggio! Rischiate qualcosa! Rischiate la vostra vita».39 In effetti, la scarsa fiducia in se stessi, il timore di sbagliare, la ricerca di soddisfazioni immediate e sicure rischiano di limitare le potenzialità delle giovani generazioni e di rinchiuderle in un cerchio molto ristretto, all’interno del quale si pretende di avere tutto sotto controllo. Ma in questo modo, ovviamente, non si progredisce a nessun livello e in nessuna direzione, se non forse in quella puramente tecnica, volta a sviluppare sempre di più le capacità di controllo sulla realtà, nell’illusione che di essa si possa sapere e prevedere tutto. Ciò mette a rischio la storicità stessa dell’uomo, la sua dimensione morale e spirituale, strettamente interconnesse fra loro. Martini, da buon gesuita, impegnato in una seria ricerca di Dio, sapeva fin troppo bene che ogni discorso autentico sulla vita spirituale ha profonde conseguenze sul cuore dell’uomo, sul centro interiore da cui partono le decisioni fondamentali, che ne determinano il posto nella storia. Prima ancora che in opzioni di tipo politico e sociale, è nel profondo del cuore dell’uomo che si radica la sua libertà e con essa la sua identità più vera. Per questo la prima cosa da fare è custodire il cuore «perché da esso sgorga la vita» (Proverbi 4,23).
La lotta spirituale non è un tema che interessa solo una ristretta élite di monache e monaci, ma tutti i credenti o, per meglio dire, tutti coloro che si prendono cura della propria e altrui umanità. La lotta è implicita nella dualità, nel fatto di esistere non in un’identità uguale a se stessa, ma in una relazione con l’altro. Fuggire la lotta significa in realtà fuggire l’alterità, cosa che sta puntualmente succedendo nella nostra società digitale, secondo le analisi di vari pensatori.40 Nella relazione con Dio, come in ogni relazione interpersonale, esiste una soglia da varcare. Se si rimane al di qua di essa, si rimane con se stessi e con le proprie idee su di sé e su Dio (è grosso modo il punto del percorso che Teresa di Gesù, nel Castello interiore, colloca tra le Terze e le Quarte Mansioni). Varcare la soglia significa aprirsi a un orizzonte nuovo, a un punto di vista diverso. Si potrebbe descrivere il passaggio come un cambiamento di prospettiva: dal vedere all’essere visti, dal pensarsi al lasciarsi pensare. Nel linguaggio tradizionale della teologia spirituale questo passaggio dall’attività alla passività era descritto come ingresso nella vita mistica. Oggi forse potremmo più semplicemente descriverlo come perdita del controllo e abbandono all’altro non compreso, non visto, ma accettato nella sua benevola oscurità. Non si tratta di un processo facile né naturale. L’oscurità normalmente non è sentita come benevola, ma come minacciosa, infida, inquietante. Al nostro ego piacerebbe poter comprendere l’altro senza margini d’ombra o di incertezza. Ma in tal modo non avrebbe più a che fare con l’altro, ma con una proiezione di se stesso. Parlando di Dio, questa proiezione si chiama «idolo»: un’immagine fatta da mani d’uomo che non parla e non ascolta, ma solo riflette il volto di chi l’ha costruito.
La reazione naturale di fronte all’altro, scoperto nella sua diversità e non disponibilità, è regolarmente quella descritta da sant’Ignazio nel testo citato da Martini: diffidenza, tristezza, separazione. Ci si sente estranei fino al punto da dubitare dell’esistenza dell’altro o perlomeno di una concreta relazione con lui. Stare con l’altro, resistendo in questo deserto di estraneità, in questo «lago d’indifferenza» (Montale), che è diventato il proprio cuore, è l’unica strada per avanzare. Giustamente ci si può chiedere perché deve essere proprio così, perché non esistono altri e più agevoli cammini. Il fatto è che l’unico modo per vincere questa battaglia è perderla. Bisogna sperimentare la sconfitta per ricevere in dono la vittoria. Ogni altra via, che portasse l’uomo a possedere la relazione come sua conquista, lo lascerebbe nella condizione dell’uomo vecchio, che confida nelle sue capacità. Sant’Ignazio indica tra i motivi della desolazione spirituale proprio questo: «Per darci vera nozione e conoscenza, affinché sentiamo intimamente che […] tutto è dono e grazia di Dio nostro Signore; e affinché non poniamo nido in casa altrui, elevando il nostro intelletto in qualche superbia o vanagloria, attribuendo a noi stessi la devozione o le altre parti della consolazione spirituale» (322).
Noi non possiamo conoscere la nostra più profonda verità, che è l’incapacità di salvarci da noi stessi, né la più sublime verità di Dio, che è la sua gratuita misericordia, senza passare attraverso l’esperienza di una reale e sonora sconfitta. Non si tratta, infatti, di un sapere a livello teorico, di una fede intellettuale nella dottrina della grazia. Bisogna sperimentare la sconfitta, perché è questa che ci trasforma dall’interno e dilata il nostro essere all’accoglienza della grazia. Ciò avviene analogicamente in ogni autentica esperienza di amore, se anche Bob Dylan poteva scrivere: «Il mio amore sa che non c’è successo come il fallimento, e che il fallimento non è affatto un successo».41
Se è vero che il dono di Dio (o Dio come dono) passa attraverso l’esperienza della separazione e del nascondimento di Dio, non è altrettanto vero, secondo Martini, che qualsiasi situazione di assenza di Dio possa essere interpretata come una notte dello spirito, che preannuncia l’aurora dell’incontro. Non sono mancati i filosofi e teologi, a partire da Hegel e dal suo Venerdì Santo speculativo, che hanno visto nella situazione dell’ateismo e della secolarizzazione moderna l’occasione per un progresso nella conoscenza di Dio, che ci consente di superare le forme religiose naturali e ci apre alla manifestazione del vero volto di Dio. Per Martini questo discorso rischia di essere equivoco. Il suo distinguo è tanto più importante e autorevole, in quanto proviene da un pastore che si è segnalato per una particolare apertura al dialogo coi non credenti e diversamente credenti. In effetti, la distinzione e non sovrapposizione delle voci è proprio la condizione per un autentico e proficuo dialogo. In realtà, come scrive Martini, «quella del nostro tempo non è una prova di fede – la prova di chi ha la fede – bensì è una condizione di non fede, di vuoto della fede, di carenza di fede. Non dunque un momento di purificazione progressiva propria di chi sale verso il monte Carmelo, ma un momento di decadenza progressiva di chi scende verso gli inferi dell’assenza di Dio».42 C’è una differenza abissale tra la passione, il fuoco di chi cerca Dio e per questo si ritrova nel deserto e nell’oscurità, e la freddezza di chi vive nell’indifferenza, in quella estraneità riguardo alla questione di Dio propria dell’ateismo pratico molto più che dell’ateismo teorico.
Più passa il tempo, più la storia conferma la verità di questo insegnamento di Martini. L’oblio di Dio, la perdita del rapporto con Lui non conducono affatto a una purificazione in senso evangelico della fede, ma piuttosto ci rinchiudono in un anonimo spazio in cui il solo protagonista è il piccolo io dell’uomo che gira intorno ai suoi bisogni da soddisfare e alla ricerca di un benessere che continuamente gli sfugge. Il senso della prova della fede di santa Teresa di Gesù Bambino, per Martini, non è la giustificazione teologica della modernità secolarizzata, ma la compassione per un’umanità che si è persa in un «tunnel oscuro», senza fede, senza amore, senza speranza. C’è un dolore tanto più profondo, quanto meno consapevole in questa condizione dell’uomo lontano da Dio, che suscita compassione nel credente. È la misericordia del Gesù dei Vangeli che tocca il lebbroso, la peccatrice, il pubblicano e si siede alla loro tavola. Mangia il loro pane, ma così facendo li attrae a sé, li invita a seguire la sua strada e a mangiare il pane che è il suo corpo offerto per la vita del mondo. L’assenza di Dio sulla croce è l’assenza che viene da un eccesso di amore per il fratello. Non è l’assenza della lontananza, ma quella che si sperimenta in una vicinanza così stretta da non vedere, né sentire, né comprendere più né se stesso, né l’altro, poiché nella lotta si è diventati una cosa sola, trasformati l’uno nell’altro.
37 C.M. Martini, Il sole dentro, cit., 15.
38 Teresa di Gesù, Cammino di perfezione, 28, 12.
39 C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, 62-63.
40 Basti citare gli scritti di Byung-Chul Han, Nello sciame e L’espulsione dell’altro.
41 B. Dylan, Love Minus Zero/No Limit.
42 C.M. Martini, «Maria e la notte della fede del nostro tempo», in C.M. Martini, G. Gaucher, O. Clément, J.-M. Lustiger, Nel dramma della incredulità con Teresa di Lisieux, Àncora, Milano 1997, 99.