Il sentimento più spontaneo e originario suscitato dalla rappresentazione della morte è la paura, l’angoscia, l’orrore. La morte è un male: sarebbe del tutto anomalo e improbabile un atteggiamento di indifferenza o di apatia nei suoi confronti. Non è però il male assoluto, la minaccia radicale per la vita umana, o meglio per la sua verità e la realizzazione del suo senso. Al contrario, essa ne rivela alcuni tratti essenziali che, per altro, siamo sempre fortemente tentati di rimuovere dalla coscienza: cioè il carattere insuperabilmente finito e limitato della nostra esistenza terrena, la condizione creaturale propria di chi non possiede in se stesso il fondamento e la ragione della vita.
Proprio la morte, dunque, può aiutare a riconoscere nella vita un bene non automaticamente posseduto, bensì ricevuto da un «Altro», un dono da accogliere con gratitudine, da spendere con generosità, da restituire con riconoscente fiducia.
C.M. Martini, «Vivere e morire di Aids oggi», Intervento al convegno su Aids e assistenza domiciliare – Milano, 6 marzo 1993, in Per una Chiesa che serve, EDB, Bologna 1994, 119-122.
Anche l’esperienza della pandemia che ha scosso l’intera umanità per molti mesi non ha tolto attualità alle parole pronunciate dal cardinale Martini sulla morte, peraltro formulate nel contesto dell’epidemia dell’HIV. Da una parte infatti il Covid-19 ha fatto emergere con prepotenza la vulnerabilità e la fragilità della nostra condizione umana, accendendo i riflettori sull’evidenza della morte. Dall’altra, tuttavia, rimane forte il rischio di rispondere alla pandemia soltanto sul piano tecnico-organizzativo, cercando di migliorare l’efficienza dei nostri sistemi sanitari e delle tecnologie biomediche. Il rischio è di non apprendere la lezione più profonda che questa esperienza può offrire riguardo al senso dell’esistenza e del convivere umano. Uno snodo centrale per cogliere l’insegnamento che si può trarre da questo tempo difficile e incerto è la riflessione sul limite che sperimentiamo: il morire, che ne è l’espressione più radicale, non è del tutto incompatibile con «la verità e la realizzazione del […] senso» del vivere. L’esperienza della perdita della vita, per quanto dolorosa e sofferta, non è da evitarsi a tutti i costi né da escludere dal percorso necessario per elaborarne il senso, ma anzi ne è parte integrante.
Già riconoscere che la realtà della morte suscita reazioni contrastanti, che oscillano tra la repulsione della paura e l’attrazione del desiderio, è un atteggiamento coraggioso: occorre notevole libertà interiore per ammettere la complessità e l’ambivalenza dei sentimenti che ci abitano. Infatti sembra più facile non pensarci: si tende a fuggire da aspetti della nostra condizione umana che suscitano fastidio e malessere. Eppure, diventarne consapevoli è un passo indispensabile per potersi incamminare sulla via dell’etica, che richiede di dare forma in modo intenzionale e responsabile alla molteplicità di impulsi che agitano il nostro cuore. Solo così essi potranno essere «governati e plasmati per poter ricevere un volto veramente umano», e supereremo lo stadio dell’essere agiti dal coacervo di spinte che ci urgono interiormente per imparare ad agire in modo più consapevole e libero.
Ora, porsi intenzionalmente a confronto con la propria fine terrena, che, pur conosciuta teoricamente, è tuttavia ignorata e rimossa dalle parti più profonde della nostra psiche, significa assumere un nuovo sguardo sull’insieme della propria esistenza. Infatti, «non è soltanto il punto della morte che conta; ma attraverso la morte avviene la definitività compiuta dell’esistenza umana. Il fatto di camminare verso questo punto ricorda il senso definitivo delle nostre azioni. La non rimandabilità indefinita delle scelte, cioè, ci ricorda che in un arco di tempo determinato dobbiamo prendere delle decisioni. La definitività dell’esistenza umana appare nella riflessione sul fatto che l’uomo è obbligato a guardare e tener conto della propria vita come delimitata in un certo spazio».43 In questo senso la morte ha un’incidenza profonda sull’intera vita, perché indica per l’uomo l’ineludibile esigenza di mettere le singole azioni in collegamento con la vita nella sua completezza, anche se proprio questo aspetto implica l’impossibilità di disporre della propria vita fino in fondo. Martini, per far comprendere questo passaggio, anche con l’aiuto della Bibbia, mostra come ci sia un rimando tra il generare e il nascere, in cui gli esseri umani sono portati all’esistenza da un’iniziativa di cui non dispongono, e il morire. Riferendosi ai patriarchi egli nota: «La Lettera agli Ebrei mette l’intera vicenda di Mosè e degli antichi padri sotto il segno della fede (cfr. Ebrei 11), quasi a dire che dell’iniziativa divina di vita si avvede soltanto chi sa leggere la vita e la morte in un certo modo. San Paolo ha esplicitato tale fede nella Lettera ai Romani quando dice: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se viviamo, viviamo per il Signore; se moriamo, moriamo per il Signore” (Romani 14,7). Quando il vivere è così, gli è simile il morire».44 Sono queste le premesse che fanno da sfondo a temi più specifici che Martini ha affrontato riguardo alle scelte che si pongono in prossimità della morte. Un tema su cui Martini torna ripetutamente è quello della responsabilità di come comunicare la verità al malato e accompagnare la persona morente.
Nel delicato momento del transito finale, si tratta di favorire quel tipo di comunicazione «che nelle circostanze valutate nella loro concretezza appare la soluzione più rispondente al maggior interesse globale del paziente, quella che lo fa crescere davvero in umanità e in decisione, tenendo conto sia della sua psicologia, sia del presumibile decorso della malattia, sia di eventuali doveri non ancora compiuti. […] È dovere grave di tutti aiutare il malato a maturare verso decisioni esistenziali forti. Ciò che importa a lui e a noi è che giunga a compiere gesti decisivi di autenticità, che equivalgono almeno implicitamente a una chiarezza esplicita davanti alla morte. Punto di riferimento fondamentale non è una verità astratta, ma piuttosto il far maturare il malato verso chiarezze esistenziali serie, che dicano implicitamente o esplicitamente che ha preso coscienza della sua vita come totalità, la affronta e può compiere quei gesti di riconciliazione e di affetto che sono parte di questa realtà. Così noi avremo aiutato al massimo una persona».45 È importante sottolineare l’insistenza sulla gradualità, che suggerisce la ricerca del bene possibile, procedendo nei confronti dell’ammalato secondo le sue effettive condizioni. Questa stessa attenzione al paziente e alle sue reali capacità ritorna anche quando Martini affronta la controversa questione dei trattamenti da somministrare quando ci si trova nell’impossibilità di guarire la malattia e la morte si avvicina.
Per valutare la proporzionalità dei trattamenti ed evitare quello che spesso si definisce «accanimento terapeutico» – e che oggi si preferisce chiamare «ostinazione irragionevole» – è necessario includere la valutazione che il paziente stesso può compiere. Egli è l’unico a potersi esprimere sulla propria capacità di sostenere quei mezzi terapeutici che i medici gli propongono, in quanto clinicamente appropriati, nella malattia in corso, o quali fra le opzioni terapeutiche disponibili sono per lui più praticabili. Per arrivare a formulare un giudizio su tali questioni il cammino da percorrere implica un progressivo riconoscimento della propria condizione umana. Il riconoscimento del limite della morte contribuisce così a una decisione in cui si riassume l’intero arco dell’esistenza. Quando la proporzionalità viene a mancare, l’astenersi dai trattamenti non è soltanto lecito, ma – come dice papa Francesco46 e ribadisce la Congregazione per la Dottrina della Fede47 – è doveroso, continuando naturalmente ad accompagnare il paziente con le cure palliative. È una grossa responsabilità che appartiene alla persona malata, che va quindi opportunamente sostenuta e accompagnata. Così peraltro afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica (cfr. n. 2278): la parola conclusiva nella decisione è quella dell’ammalato, nella misura in cui è in grado di esprimersi.
Il cardinale Martini aveva distinto in modo lucido come questa limitazione delle cure non ha nulla a che fare con l’eutanasia (e, oggi possiamo aggiungere, con il suicidio assistito). La distinzione richiede una certa precisione, che non sempre si riesce a comunicare con chiarezza. In un suo articolo successivo alla morte di Piergiorgio Welby, il Cardinale lo esplicita in modo molto netto. La rinuncia a terapie sproporzionate, cioè la loro non attivazione o sospensione, non è eutanasia poiché quest’ultima è «un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte».48 Egli evoca così in sintesi i due capisaldi irrinunciabili perché si possa parlare di eutanasia. Da una parte l’intenzione, che qualifica l’agire. Senza questa componente l’atto non può neanche essere considerato come morale, poiché l’atto pienamente umano è solo quello compiuto in modo consapevole, libero, responsabile e pertanto sorretto dall’intenzione: se manca uno di questi elementi l’agire non attiene alla sfera morale. Risulta allora secondario se l’intenzione di abbreviare la vita si realizzi tramite un’azione o tramite un’omissione, tenuto conto che entrambe discendono da una decisione, di intervenire o di astenersi, posta dal soggetto. È questa scelta positivamente attuata, nel suo esprimersi operativo effettivamente capace di abbreviare la vita, che costituisce il secondo caposaldo. Pertanto l’eutanasia e la rinuncia a trattamenti per ragioni legittime possono avere un identico risultato dal punto di vista esteriore, ma possiedono un significato completamente differente sotto il profilo etico. La ferma determinazione che l’eutanasia così precisata è sempre illecita – inclusa quindi la modalità «omissiva», cioè ottenuta sospendendo o non iniziando una terapia proporzionata (o dovuta) – percorre tutto lo svolgimento dell’articolo sopra menzionato.
Notiamo che si rinvia qui implicitamente alla distinzione tra uccidere e lasciar morire, che pure non è una differenza da tutti riconosciuta come moralmente rilevante. Per esempio, nella prospettiva dell’utilitarismo – che valuta l’agire solo in base agli effetti procurati e per questo definita «consequenzialista» – si considerano moralmente equivalenti due ordini di causalità, uno che fa capo all’agire umano e l’altro che dipende dallo spontaneo decorso della malattia. La distinzione è invece, a nostro parere, da considerarsi discriminante. La sospensione del trattamento infatti non provoca la morte, ma interrompe l’intervento contro i fattori che ne costituiscono la causa, riconducibili alla sottostante patologia intesa nel suo complesso. Il che non significa che l’omissione delle terapie non possa configurarsi in talune situazioni come eutanasia, ma questo si dà precisamente qualora la sospensione riguardasse mezzi proporzionati.
Naturalmente questa impostazione si basa su una concezione della vita che il Cardinale ha esplicitato in diverse sedi. Per esempio, in un dialogo con Ignazio Marino aveva affermato: «La prosecuzione della vita umana fisica non è di per sé il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignità umana, dignità che nella visione cristiana e di molte religioni comporta un’apertura alla vita eterna che Dio promette all’uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignità della persona. […] La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non è il valore supremo e assoluto. Nel Vangelo secondo Giovanni Gesù proclama: “Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà» (6,25)”».49 Si tratta peraltro di un’impostazione tradizionale nel pensiero della Chiesa. Già Pio XII affermava: «La vita, la salute, tutta l’attività temporale sono infatti subordinate a fini spirituali».50 E Giovanni Paolo II – dopo aver ricordato che «l’uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della sua esistenza terrena, perché consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio» – ribadiva la «relatività della vita terrena», precisando che essa «non è realtà “ultima”, ma “penultima”».51 Il rispetto per la vita umana non è quindi dovuto a una sacralizzazione della sua dimensione biologica, ma alla relazione d’amore con Dio che la vita testimonia – e rende possibile – e alla sua capacità di anticipare simbolicamente la pienezza della vita eterna, che sola vale incondizionatamente.
In questa linea, che si è progressivamente sviluppata nel pensiero di Martini, si colloca anche il suo personale cammino di avvicinamento alla morte.52 Nel contesto di quello che oggi chiameremmo «pianificazione condivisa delle cure»,53 le sue opzioni si disposero su due versanti, come ho potuto ascoltare dalla viva voce della nipote Giulia che ebbe con lui un colloquio su questo argomento a fine marzo 2012. Da una parte, non potendo ormai più deglutire, ritenne non proporzionata l’assunzione di sostanze nutritive per via artificiale, che avrebbero solo prolungato in modo effimero e penoso il processo del morire; dall’altra, considerò conveniente la somministrazione di farmaci sedativi, in particolare per ridurre la percezione delle difficoltà respiratorie. In questa prospettiva, il Cardinale ha testimoniato con umile convinzione e serena profondità anche alla conclusione della sua vita terrena la familiarità con Dio e l’amicizia con ogni altra creatura. Atteggiamenti maturati nel dialogo con il Signore, anche riportando al Suo cospetto interrogativi scomodi e inquietanti. Tra questi citiamo, per concludere, quello che talvolta appariva nelle meditazioni che ci proponeva, sul perché la morte e la risurrezione di Gesù Cristo non potessero risparmiare agli esseri umani l’esperienza angosciosa del morire. Davanti a questo mistero, una via di risposta percorribile gli sembrava questa: diversamente da ogni altro passaggio vissuto nel corso dell’esistenza terrena, nel transito finale non è possibile ancorarsi a nessuna certezza surrogata e si è così condotti ad affidare incondizionatamente la propria vita al Signore. È il luogo più radicale in cui testimoniare la benevolenza e l’affidabilità con cui Egli si prende cura di ciascuno, accogliendolo con misericordia.
43 C.M. Martini, «Quale verità al malato: chi, come, perché», Relazione al Policlinico di Milano, 14 maggio 1987, in Interiorità e futuro, EDB, Bologna 1987, 124-125.
44 «La morte esemplare di Gesù», Meditazione al convegno diocesano di Torino sul tema: «Stiamo vicini a chi lascia la vita» – Torino, 29 aprile 1988.
45 «Quale verità al malato: chi, come, perché», cit.; cfr. anche «Lo stile di comunicazione tra medico e malato», intervento al convegno L’informativa al paziente. Normativa, etica e prassi, Ospedale San Paolo (Milano), 24 febbraio 1994.
46 Cfr. Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno dell’Associazione Medica Mondiale, sul tema del suicidio assistito (17 novembre 2017).
47 Congregazione per la Dottrina della Fede, Samaritanus bonus (22 settembre 2020), V, 2.
48 C.M. Martini, «Io, Welby e la morte», in «Il Sole 24 Ore – Domenica», 21 gennaio 2007. Riprendiamo qui alcune riflessioni già formulate in C. Casalone, «Decisioni di fine vita. Sul contributo del card. Martini», in Aggiornamenti sociali, 3 (2007), 222-226.
49 C.M. Martini, I. Marino, «Dialogo sulla vita», in «L’Espresso», 27 aprile 2006, 52-61.
50 Pio XII, «Problemi religiosi e morali della rianimazione» (24 novembre 1957), in P. Verspieren (ed.), Biologia, medicina ed etica, Queriniana, Brescia 1990, 432.
51 Giovanni Paolo II, Evangelium vitae (1995), n. 2.
52 Cfr. M. Garzonio, «Il Vescovo, la salute pubblica, la città abitabile», in G. Lambertenghi Deliliers (ed.), Curare la persona. Medicina, sanità, ricerca e bioetica nel pensiero di Carlo Maria Martini, Àncora, Milano 2020, 28s.
53 Cfr. Legge 219/2017, art. 5.