Nei primi secoli della Chiesa, basandosi su quanto dice la Scrittura – ossia che «Dio creò l’uomo a propria immagine e somiglianza» (Genesi 1,26) – si è cercato nell’essere statico dell’uomo e nella sua interiorità una qualche luce d’intelligenza del divino mistero. È nata così la proposta di sant’Agostino di considerare l’intelletto dell’uomo, da cui derivano il concetto e la parola, come un’immagine di qualcosa che pur essendo triplice fosse anche uno.
Non abbiamo nulla da dire su questi tentativi. Mi sembra però che gli sforzi dei teologi di oggi siano più penetranti, dal momento che partono da Gesù e dal suo sacrificio pasquale per entrare nell’intimo di Dio. Gesù ha vissuto tutta la vita e la morte come dedizione e con amore. Un amore che vuole che l’altro sia, anche a costo della propria vita e che per l’altro si sacrifica volentieri. Come non pensare che tutto ciò abbia la sua radice nel Dio-Trinità, concepito quindi non nella sua staticità, ma come dono continuo, come fuoco divorante, come dedizione incondizionata perché anche l’altra persona sia divina. Gesù sulla croce che dona la sua vita per noi non è perciò una pura contingenza storica ma una necessità divina di amore. La croce stessa è radicata nel mistero della Trinità.
C.M. Martini, Colti da stupore. Incontri con Gesù, Mondadori, Milano 2012, 104s.
Anche Carlo Maria Martini, nella sua esperienza intellettuale e spirituale di Dio, parte da quello che potrebbe definirsi l’«esilio della Trinità», così descritto dal suo confratello gesuita, il teologo Karl Rahner: «Se si dovesse sopprimere, come falsa, la dottrina della Trinità, pur dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata… Si può avere il sospetto che, per il catechismo della mente e del cuore (a differenza del catechismo stampato), la rappresentazione dell’incarnazione da parte del cristiano non dovrebbe punto mutare, qualora non vi fosse la Trinità».66 Si deve peraltro riconoscere che nello stesso fondatore della Compagnia di Gesù, sant’Ignazio di Loyola, alla cui spiritualità Martini si forma e da cui costantemente attinge, la Trinità è pressoché assente, almeno sul piano delle menzioni esplicite. Su questo tema decisivo il più che si può cogliere in Ignazio si trova nella Contemplatio ad obtinendum amorem, al termine della quarta settimana degli Esercizi Spirituali (nn. 230-237), dove – in riferimento alla vita divina e alla sua partecipazione alle creature – è detto che tutto in esse è mosso dall’amore: «L’amore consiste nella comunicazione fra le due parti, ossia quando l’amante dà e comunica all’amato quel che possiede o di quel che possiede o può, e così viceversa l’amato all’amante» (Esercizi Spirituali, n. 231). Nella sua chiamata a esistere e nella sua destinazione eterna ogni creatura viene dall’amore e vive grazie alle relazioni d’amore, nelle quali è posta. Di tali relazioni l’essere umano è chiamato a costituire il protagonista mondano, in quanto è creato a immagine e somiglianza del Dio che è Amore, che di queste relazioni eternamente vive nell’unità dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore. È l’amore eterno a unire il Padre e il Figlio in indissolubile unità, tanto quale amore personale donato e ricevuto nella reciprocità dei Due come Terza Persona divina, lo Spirito Santo, quanto a livello essenziale, quello che costituisce la natura divina.
C’è, tuttavia, un motivo che Martini attinge dalla sua formazione ignaziana e che può ritenersi rilevante per la progressiva riscoperta della Trinità nella vita e nel pensiero del grande pastore: quello della «reverentia».67 Ignazio vi accenna nel Principio e fondamento degli Esercizi: «L’uomo è creato per lodare, riverire [hacer reverencia] e servire Dio nostro Signore e salvare così la propria anima». È la memoria grata delle meraviglie di Dio, compiute nel tempo e nello spazio, nell’uomo e in tutte le creature, a indurre al riconoscimento dei doni originari e attuali che il Creatore offre nel creato, chiamando la creatura personale al loro discernimento e alla loro accoglienza, umile e grata. Lo stupore e la meraviglia dinanzi all’evento sempre nuovo dell’amore, che è l’evento dell’essere in ogni creatura, divengono azione di grazie, povertà recettiva del dono, rispetto e delicatezza verso tutto ciò che esiste. Riconoscere praticamente l’essere, contemplato speculativamente nella sua originaria impronta trinitaria, si traduce nell’invito a adorare e accogliere in tutto e in tutti l’evento della donazione trinitaria, tessendo con tutto e con tutti rapporti di comunione e di pace: è questo, peraltro, lo stile con cui Martini si rapportava agli altri e alle cose tutte, come può facilmente ricordare chiunque lo abbia conosciuto. Egli sa che nella grande casa del mondo si affaccia l’eterna dimora del Mistero trinitario di Dio, che tutto avvolge, e in tutto – pur nel necessario discernimento del male che devasta la terra – chiede di essere riconosciuto e amato: è questa convinzione a indurlo alla «riverenza» verso ogni essere umano, quali che siano la sua identità e condizione storica, come a quella verso l’intero mondo creato.
Carlo Maria Martini ha vissuto questa «riverenza» in maniera radicale nei confronti del Dio vivente, ascoltato e amato nella Sua Parola: sta qui la radice ignaziana della sua spiritualità biblica, del suo amore profondo per la Sacra Scrittura e della sua proposta circa il primato da dare all’ascolto della rivelazione divina e alla conseguente «dimensione contemplativa della vita». Tutto nasce dal fare l’esperienza dell’ineffabile vicinanza divina, educandosi a percepire le mozioni interiori con cui lo Spirito guida i credenti, grazie a un costante impegno di unione con Dio. Chi ha conosciuto Martini sa quanto intensa e profonda fosse in lui questa riverenza, al tempo stesso docile e inquieta, luminosa e oscura. Il rispetto adorante dovuto alla divina Presenza nella Parola rivelata – e dunque alla «Dei loquentis persona» (Karl Barth) – era un atteggiamento costante in Lui, la sorgente continua di ispirazione e di luce per il suo discernimento e il suo impegno. Lo stile della «riverenza» verso il divino spiega anche la cura con cui Martini accostava il testo biblico e fa capire perché egli non si fermasse mai a una lettura meramente filologica delle Scritture, ma avvertisse l’urgenza di nutrirsi a molteplici livelli della Parola di vita, affinché essa inondasse della sua luce tutti gli spazi dell’anima. Il grande pastore ha insegnato a perseverare nell’ascolto della Parola di Dio anche quando sembra che essa non ci dica niente: il rispetto riverente verso il Mistero santo aiuterà a comprendere come Dio parli anche nel silenzio. Nell’approccio alla Bibbia Martini valorizza, così, gli insegnamenti del Loyola: come ha osservato Roland Barthes «la lingua che Ignazio vuol costituire è una lingua dell’interrogazione… Gli Esercizi sono il libro della domanda, non della risposta».68 È questo che li rende così moderni, così attuali, ed è questo che ne fa cogliere il centro e il cuore nella fatica del discernimento.
L’esercizio del discernimento non si spinge mai alla forzatura, alla violenza sul testo: Ignazio vuole a tal punto la volontà di Dio, da accettare e amare perfino il Suo silenzio. Come Ignazio, così il suo discepolo: Martini sa interrogarsi e interrogare fino in fondo, non affretta la risposta, non la impone. Sa disporsi all’attesa umile e perseverante della fede: ciò che conta, più ancora che comprendere la volontà di Dio, è mettersi nelle condizioni di comprenderla, perseveranti e attenti nell’ascolto. Non si sbaglierebbe, allora, nell’affermare che il senso dell’intero insegnamento di Martini nei confronti della Sacra Scrittura consista nello sforzo di educare tutti e ciascuno al discernimento della volontà di Dio e, perciò, in una pedagogia della fede che domanda, ascolta e aspetta nell’umile docilità del cuore. Stare «al cospetto di Dio nostro Signore e di tutti i suoi santi per desiderare e conoscere quel che sia più gradito alla sua divina bontà» (Esercizi Spirituali, Seconda settimana): è questo l’atteggiamento fondamentale, che traspare dal magistero del grande pastore al tempo stesso come testimonianza e proposta di vita per porsi autenticamente davanti alle Scritture. Ed è proprio in questo atteggiamento che si coglie l’esperienza sempre più profondamente trinitaria che Martini fa nell’accostarsi alla pagina biblica in ascolto del Dio vivente.
Alla scuola della Scrittura, scrutata con riverenza e intelligenza d’amore in ogni suo frammento, Martini si sforza di raggiungere la Sorgente ultima, unitaria e vivificante, dell’esperienza umana autentica, la sovrabbondante carità del Padre, che nella «sacra pagina» ci offre la libera comunicazione di sé e della vita divina. Nelle parole del Nuovo Testamento, poi, è la Parola eterna che si dice, il Figlio che incarnandosi ha rivelato l’uomo all’uomo nella pienezza della sua vocazione e dei mezzi per portarla a compimento: con l’immagine mutuata dal suo maestro spirituale negli anni romani, padre Michel Ledrus, S.J. (1899-1984), professore di teologia spirituale alla Gregoriana, come da ogni chicco d’uva si spreme il succo, che diventerà mosto e poi, fermentando, «vino che allieta il cuore dell’uomo» (Salmo 104,15), così da ogni parola umana, in cui la Parola eterna si dice, va raccolta la linfa della vita che il Verbo ha portato dall’alto, affinché illumini, rinnovi e conforti il cuore dell’uomo.69 Così Martini tratta ogni singola parola della Scrittura, consapevole che in ognuna di esse è la Parola eterna che ci raggiunge per nutrire in noi la vita vera e piena. Infine, è nello Spirito Santo che ci viene data l’intelligenza delle Scritture, secondo la promessa di Gesù: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Giovanni 14,26). È lo Spirito l’autentico esegeta del Figlio, ed è perciò nella docilità alla Sua azione che va vissuto l’incontro con la Parola eterna, che si è detta nelle parole degli uomini, per essere portato fino in fondo e dare pienamente il suo frutto: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Giovanni 16,13). Perciò Martini si accosta sempre alla Parola di Dio in spirito di preghiera e di invocazione al divino Consolatore…
La convinzione di incontrare nella Parola di Dio la Trinità Santa, che ci fa partecipi della Sua vita divina, ha ispirato nella maniera più profonda il genere di esegesi che Martini, soprattutto da pastore, ha condotto: dalla «narrazione», che il Dio vivente fa di sé nelle pagine della Scrittura, egli raccoglie le forme della narrazione necessaria a parlare di Dio agli uomini e alle donne di ogni tempo, e quindi anche del nostro tempo. Se Dio fosse un morto oggetto, un semplice dato materiale, non ci sarebbe nessuna esigenza di «narrarlo», né alcuna possibilità di farlo. Si narra ciò di cui si è fatta un’esperienza così forte, da sentire il bisogno di farne partecipi altri, pur riconoscendo che ogni parola sarà insufficiente a narrarla, perché quell’esperienza, viva e toccante, ci ha cambiato dentro in maniera sorprendente e profonda. Solo l’amore è diffusivo di sé ed è l’incontro d’amore quello che vuol essere narrato, nel pudore e nella discrezione di tutto ciò che veramente conta, ma anche nell’entusiasmo della bocca che parla per la sovrabbondanza del cuore. È così che sono nati i racconti del Nuovo Testamento e in generale della storia biblica: l’eccedenza e l’intensità di quanto sperimentato nell’intervento divino fra gli uomini e specialmente nell’incontro con Gesù di Nazareth risorto dai morti, si cerca di trasmetterle narrando, perché ogni ragionamento sembra ridurre la bellezza e la ricchezza del vissuto. Ed è così che Martini parla di Dio: la sua bocca parla dalla sovrabbondanza del suo cuore, innamorato dell’Eterno e consegnato nella fede al Signore della vita e della storia.
Se il bisogno di narrare Dio nasce dall’intensità dell’esperienza dell’incontro con Lui, la finalità per cui lo si fa è parimenti motivata dall’amore. Chi narra Dio vuol rendere gli altri partecipi della gioia che Lui ha dato al suo cuore: lo fa per un incontenibile slancio d’amore. È quello che si coglie dietro le parole di Martini, pastore del Suo popolo: naturalmente timido e riservato, egli vince paure istintive e possibili insicurezze perché l’amore del Signore, cui ha dato tutta la sua vita, lo spinge. A motivarlo non ci sono freddi ragionamenti o affermazioni astratte: il grande pastore parla di Dio raccontandone l’amore, così come la Scrittura ci insegna a conoscerlo, per indicare a chiunque vorrà la via dell’accesso al cuore divino, che si è narrato e donato nella storia della salvezza e, al suo culmine, nella vicenda terrena del Figlio. La narrazione non pretende di imporsi, non punta a costringere all’assenso: essa coinvolge e tocca il cuore con la sua modestia, col suo restare aperta al futuro, senza voler tutto concludere o comprendere. Come avviene nei racconti biblici, o nelle storie di santità, o nei «racconti di esperienza» dei testimoni della fede, il narrare ha sempre un carattere pratico e liberante, perché tende alla comunicazione viva dell’esperienza rappresentata. Narrando avviene che il narratore e gli ascoltatori vengano coinvolti nella stessa esperienza narrata: si potrebbe dire che la narrazione è una sorta di «azione linguistica», nella quale la parola si fa efficace per la vita. Ed è precisamente così che Martini se ne serve.
In quanto «storia aperta», il racconto rimanda a un tempo precedente, fatto di attesa e di speranza, e dischiude a un dopo, continuazione nella vita di chi narra e di chi ascolta dell’esperienza narrata. Lo fa capire un suggestivo brano narrativo dell’Apocalisse, che presenta la figura dell’Agnello immolato, ritto in piedi, immagine del Cristo crocifisso e risorto. L’affacciarsi dell’Agnello è preparato dalla grande domanda, sottesa a tutto il libro: «Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?» (5,2). È la domanda circa il senso della storia e della vita di ciascuno e di tutti, l’interrogativo ineludibile del dolore. La constatazione che «nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di osservarlo» (5,3) è dolorosa. Nel contesto di questa tensione drammatica, eco dell’attesa dell’intero creato, ad aprire il libro sigillato entra in scena l’Agnello immolato in piedi, in una narrazione tanto potente e suggestiva, quanto semplice e illuminante (5,1-10). L’Agnello appare sgozzato, porta cioè ancora evidenti i segni della Sua passione, sebbene stia ritto in piedi, a significare la vittoria sulla morte segnata dalla Sua resurrezione: siamo di fronte all’immagine più densa dell’Apocalisse, che sintetizza in forma potente il mistero pasquale come storia della storia, chiave del tempo, cioè, e fonte di giudizio e di salvezza dell’intera vicenda umana e cosmica. È questo Agnello, il Crocifisso Risorto, a cui viene consegnato il libro dal Vegliardo, seduto sul trono, il centro e il cuore della narrazione dell’ultimo libro della Bibbia: ed è il Cristo pasquale, «passus et glorificatus», il centro e il cuore dell’intero messaggio di Carlo Maria Martini al suo popolo e ai tanti che nel mondo sono stati raggiunti dalla densità, semplice, bella e profonda, della Sua parola.
Il Cristo di Martini è quello della fede ecclesiale: il Figlio eterno che, pur essendo di condizione divina, ha fatto suo il nostro dolore sulla Croce, portando Dio ad abitare la nostra morte, per portare noi con la sua resurrezione a partecipare della vita stessa di Dio. E se il grande pastore narra così efficacemente il culmine e la fonte dell’intera fede cristiana, lo fa perché nel narrare mette in gioco la sua persona in tutta la ricchezza delle sue potenzialità, a partire dalla scelta fondamentale che ha dato vita alla Sua vita, l’amore per Cristo e per quanti lo stesso Signore ha voluto affidargli: qui Martini realizza ciò che sant’Agostino dice nel De catechizandis rudibus – splendida e attualissima risposta di un grande pastore alla domanda su come annunciare la fede in Gesù Cristo Dio – quando descrive come sia la forza preveniente dell’amore la sola capace di comunicare la gioia e la grazia, offerte a noi dal racconto delle opere di Dio: «Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando» – «Non c’è invito più grande all’amore che prevenire nell’amore» (4.7). Chi narra Dio a partire dall’amore e unicamente per amore, tocca i cuori, apre le menti, fa sperimentare la dolcezza del consentire e credere alla forza della verità che salva. È quanto Carlo Maria Martini ha fatto e continua a fare attraverso l’intensissima «narratio salutis», rappresentata dai Suoi scritti…
Quale immagine di uomo emerge dalla narrazione trinitaria del cardinal Martini? La prima risposta a questo interrogativo non può che venire da quello che lui stesso è stato: il rinomato Professore di critica testuale (il cui nome compare fra i curatori della revisione dell’edizione critica del Nuovo Testamento del Nestle-Aland), attingendo alla Sacra Scrittura con dovizia inesauribile immagini, temi, considerazioni, non solo getta luce sempre nuova e non di rado sorprendente sulla ricerca di una risposta alle domande più varie e complesse del cuore umano e del presente storico, ma si offre lui stesso come un continuo «cercatore di Dio». Aver ricevuto e accolto il dono della fede non ha fatto di Martini un «arrivato»: è stato anzi questo stesso dono a metterlo in continuo, riverente ascolto del Dio vivente, a fargli intercettare le domande più vere e profonde delle donne e degli uomini del suo tempo, e a coniugare in un’esperienza sempre rinnovata di intelligenza e di fede le due fedeltà, quella al mondo che deve venire e quella al mondo presente, carico delle sue contraddizioni e delle sue attese. Perciò, l’uso che Martini fa della Bibbia non è mai «fondamentalista»: egli non cerca nel testo sacro la proiezione di propri convincimenti o di eventuali pregiudizi, ma si lascia interpellare dalla sua forza intrinseca, entrando con esso in un dialogo vivo, che non ignora né l’urgenza degli interrogativi attuali, né la libera, sovversiva novità della Parola di Dio.
Martini dimostra così la verità dell’intuizione del pensatore ebreo Abraham Heschel, secondo cui la Bibbia non ci offre tanto una «teologia dell’uomo», quanto piuttosto l’«antropologia di Dio»: in essa è possibile trovare il disegno divino sulla storia nel suo insieme, facendosi in tal modo un’idea teologicamente corretta di chi sia l’uomo davanti all’Eterno, di quali siano la sua vocazione più alta e il suo ultimo destino, pur in tutta la complessità dell’esistenza concreta, illuminando di conseguenza le scelte da farsi e i passi da compiere. Al tempo stesso, la Bibbia resta una domanda aperta, che sfida alla ricerca sempre nuova, che schiude orizzonti inesplorati o rinnovati, e induce così a uscire dall’accampamento delle proprie presunte sicurezze per navigare sul grande mare della misericordia divina, verso il porto che sempre ci trascende, eppure sempre ci attrae, della Città celeste, dove Dio sarà tutto in tutti e il mondo intero sarà la patria di Dio. Questa continua ricerca non esclude, naturalmente, che per il cristiano tutto si compia nel nome della Trinità e a gloria di essa: l’esistenza redenta è, anzi, come l’«Amen» della vita, pronunciato in risposta alla doppia confessione trinitaria, quella battesimale – «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» – su cui si fonda l’identità del discepolo, e quella dossologica – «Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo» – in cui si esprime la sua vocazione e missione. Superare l’«esilio della Trinità» significa anche comprendere che nel mistero divino trinitario ci sono date la porta e la via verso l’autentica realizzazione di tutto l’uomo in ogni uomo.
Anche su questo punto resta fondamentale in Martini l’influsso degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, che proprio nel confronto oggettivo ed esigente con i «misteri della vita di Cristo», e dunque con le concretissime narrazioni della vita di Gesù nei Vangeli, conduce l’esercitante al discernimento spirituale e alla decisione del cuore davanti all’alternativa suprema, quella che sant’Agostino ha espresso nella scelta fra «l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio, o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé». Il timore e tremore della nostra possibile mancata risposta davanti al dono e alla chiamata del Signore possono essere superati con l’unica certezza sulla quale è possibile rischiare tutto: la certezza della fede. Martini insiste sul fatto che il Maestro dà ciò che chiede e mai ci prova senza offrirci la via d’uscita: Egli è con noi nell’ora del dolore e ci aiuta a sopportare e offrire le nostre sofferenze. La sua convinzione è ancora una volta quella del Suo maestro Ignazio di Loyola, che ha descritto le varie possibilità dell’umano davanti alla Grazia, indicando un cammino verso la Croce e la Risurrezione in tre gradi di umiltà, di cui il terzo è la meta perfetta a cui tendere in compagnia del Salvatore: «Il primo modo di umiltà […] consiste nell’ubbidire in tutto alla legge di Dio, nostro Signore […] Il secondo è non volere e bramare d’esser ricco piuttosto che povero, onore piuttosto che disonore, di non desiderare una vita lunga piuttosto che breve […] La terza è umiltà perfettissima e si ha quando […] per imitare e somigliare più concretamente a Cristo nostro Signore, io voglia e scelga piuttosto la povertà con Cristo che la ricchezza, gli obbrobri con Cristo che ne è ricolmo piuttosto che gli onori, e il desiderare di essere ritenuto stupido e pazzo per Cristo che per primo fu considerato tale, piuttosto che savio e prudente in questo mondo» (Esercizi Spirituali, nn. 165-167).
Per Ignazio, dunque, il primo grado dell’umiltà è quello dell’obbedire ai comandamenti, osservando la legge: è il compimento del precetto, la legalità. A questo livello, la solitudine è vinta nella sicurezza di obbedire alla legge. Martini non ha mai sminuito il valore di questa prima tappa: le Sue riflessioni sulla giustizia e la legalità e sul grande valore che esse hanno per l’ordinata convivenza umana e il rispetto della vita di ciascuno vanno precisamente in questa direzione. Ma questa non è ancora perfezione! C’è un secondo grado dell’umiltà: è quello di chi si fa indifferente a ricchezza e povertà, cioè di chi è pronto a tutto ciò che Dio voglia da lui. I Mistici definiscono questo grado con un’espressione forte, che intrigava anche Martini: la «resignatio ad infernum», e cioè l’amare Dio fino al punto da essere pronti ad andare all’inferno se Lui lo volesse, amandoLo dunque non per le Sue ricompense, ma con un amore così puro, da volere soltanto quello che Lui possa volere per noi, perfino l’inferno. Martini ammira questo tipo di umiltà, anche se mostra di considerarlo troppo spesso superiore alle concrete capacità del cuore umano: in questo, egli è ben lontano da eccessi mistici, o pretese impossibili, e ha sempre mostrato una grande comprensione per tutta la varietà delle possibili risposte umane all’azione di Dio e alle proposte del Suo amore, mai slegate dal rispetto della libertà della creatura.
C’è però ancora un grado dell’umiltà, il terzo, per molti aspetti il più alto. Sant’Ignazio lo presenta come il seguire e imitare Cristo, umile, crocefisso, abbandonato. È l’umiltà dei folli di Dio, di quelli che non cercano gli applausi delle platee di questo mondo, di quelli che vogliono essere nascosti con Cristo in Dio, pronti ad abitare nella solitudine divina, non per disprezzo del mondo, ma come nel luogo dell’amore. È però anche l’umiltà che – più che come adesione a un ideale alto e magnifico – si concretizza nella relazione d’amore al Verbo incarnato, in quell’amicizia con Gesù, che è il vero cuore della proposta evangelica. Non esiterei a pensare che è questa l’umiltà cui Martini tende e che più di tutto vuole proporre agli altri come via di salvezza, di liberazione e di pace: amare il Signore Gesù lasciandosi amare da Lui, farsi condurre dalla Sua volontà nelle scelte piccole e grandi della vita, imitarlo, nel senso in cui l’«imitatio Christi» non è il copiare un modello, ma l’invocare e accogliere la Sua presenza in noi, questa è la via del cristiano preferita e proposta dal grande pastore. Gesù da modello ed esempio diventa soprattutto amico, fratello, presenza adorabile e liberante al cuore del nostro cuore, Dio vicino a noi e in noi:
Chi sta alla presenza di Dio ha una tale luce interiore da non temere le tenebre – scrive Martini parlando del profeta Elia. Per Elia questo «stare» non consiste in un momento pietistico, cultuale; è tutta la sua vita a essere modellata dal rispetto amoroso a quel Signore che egli ha scelto di servire con tutte le sue forze, con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutto lo spirito. Il suo è un atteggiamento globale di adorazione, di offerta di sé, di riverenza, di dedizione. Ed è, in realtà, l’atteggiamento fondamentale dell’uomo biblico, dell’uomo che vive lo Shemà: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo».70
Da questo stare alla presenza di Dio in Gesù e con Lui deriva l’esperienza più bella e realizzante dell’uomo, reso nuovo in Cristo, capace di amare e di farsi dono a immagine e somiglianza del Dio Trinità d’Amore. È l’esperienza cui Martini si riferisce con queste parole:
Gesù ha vissuto tutta la vita e la morte come dedizione e con amore. Un amore che vuole che l’altro sia, anche a costo della propria vita e che per l’altro si sacrifica volentieri. Come non pensare che tutto ciò abbia la sua radice nel Dio-Trinità, concepito quindi non nella sua staticità, ma come dono continuo, come fuoco divorante, come dedizione incondizionata perché anche l’altra persona sia divina? Gesù sulla croce che dona la sua vita per noi non è perciò una pura contingenza storica, ma una necessità divina di amore. La croce stessa è radicata nel mistero della Trinità. Che cosa significa questo per l’immagine dell’uomo? È quanto viene espresso in modo conciso nell’espressione: «L’uomo trova se stesso nel dono di sé». Corrisponde alla dottrina di sant’Ignazio di Loyola sull’uscita dal proprio interesse e dal vantaggio personale; lo si ritrova, in un modo o nell’altro, nelle dottrine dei santi sulla mortificazione e la rinuncia… C’è dunque una misteriosa corrispondenza tra l’essere intimo di Dio, che è puro dono e volontà di lasciare spazio all’altro, e tutto ciò che qui in terra si può dire sulla carità come pienezza della legge. Per questo più penetriamo il pensiero di Dio, più conosciamo quello dell’uomo e viceversa, in una reciprocità gioiosa che avrà il suo compimento nella vita eterna.71
Per Martini, la Trinità divina è veramente origine, grembo e patria di ogni esistenza, e proprio così modello, luogo e destino di ogni realizzazione dell’essere personale e della giustizia possibile nella storia degli uomini.
66 K. Rahner, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium Salutis, 3, Queriniana, Brescia 1969, 404.
67 Della «reverentia» sono splendida illustrazione le riflessioni con cui si chiudono gli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola: Quarta settimana, Contemplatio ad amorem.
68 R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 1977, anche per le citazioni seguenti.
69 Cfr. M. Ledrus, Appunti di dottrina spirituale, corso «pro manuscripto» edito dalle Monache di Viboldone, Milano 1981, 155: «Dio non parla con povere parole suggerite dalla razionalità umana, sia pure illuminata dalla fede: Egli, con una Parola, dice molte cose, con un “segno” fa capire tutto…».
70 C.M. Martini, Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Centro Ambrosiano-Piemme, Milano-Casale Monferrato (Al) 1990, 46.
71 C.M. Martini, Colti da stupore, Mondadori, Milano 2012, 104s.