Milano, le pesti, Martini, la croce e il bicchiere di santa Teresa d’Avila

di Marco Garzonio

La libertà dell’uomo che ha peccato, quando incontra la croce di Gesù, non è distrutta o esonerata dai suoi compiti, bensì viene restituita a se stessa. Le viene data la possibilità gioiosa di scoprire il disegno di Dio, di scoprire se stessa in quanto chiamata a esprimere questo disegno, di aderire a questo disegno con stupore, con gratitudine, con obbedienza, con generosità. Questa è la conversione cristiana. Anch’essa è una prova della serietà con cui Dio ci ama, fino a volerci e a costituirci suoi collaboratori nella libertà e nella operosità.

C.M. Martini, In visita con San Carlo, Centro Ambrosiano, Milano 1985, 33.

Spaesato vengo da te, in Duomo;

amico di chi si fa domande

presti ascolto generoso, incoraggi prospezioni,

i punti di vista rovesci, dischiudi inedite visioni.

Aiutami a capire, arcivescovo Martini,

a ritrovare il filo nella caligine dei giorni

di questa pandemia; dimmi, ti prego,

se è solo un virus che ci ha colto

colpevolmente impreparati,

ma rimedieremo presto a leggerezze,

interessi inconfessati,

tagli dissennati nella pubblica salute,

riequilibreremo il potere dei privati,

prevenzione e cure a tutti torneremo a dare.

Alleggeriscimi dal dubbio, mio Cardinale,

che un’altra sia l’infezione

subdola, perversa, invalidante,

nei recessi dei cuori penetrata

dal Covid-19 solo mascherata;

dissipa il timore che l’anima nostra è contaminata,

che siamo ormai facile preda

di qualunque epidemia,

privi di difese immunitarie,

esposti ai germi patogeni

di egoistici disegni, ingiustizie,

onfalometriche visioni,

che l’indifferenza ci ha corrotti,

che la predazione di beni naturali

ha inoculato in noi un veleno,

che le disuguaglianze hanno ucciso i sogni.

In questo Duomo a te levo la supplica:

condividi un’illuminata, solidale, affettiva vicinanza

verso i bisogni miei e dei fratelli.

L’amore di Dio del tempo è intelligenza:

tu ce l’hai insegnato; tu l’hai praticato

con spirituale continua maestranza;

fatti allora intercessore d’un’identica speranza.

I

Intima Effatà! anche allo sguardo, arcivescovo Martini:

fa’ capire se la cecità è del momento,

velo misericordioso di un Dio

che nel pericolo protegge occhi fragili e indifesi

capaci poi di risanarsi da ogni miopia,

vivere una buona resilienza,

mantenere vitale confidenza

con la chiamata originaria

a fare sempre nuova la divina, comune Creazione.

Di’ se invece siamo diventati

un popolo di non vedenti,

afflitti da palpebre cispose che deforman conoscenza,

confusi dall’ignoranza della storia

e inebriati da vertigine di onnipotenza

vorticosamente avvitata su se stessa,

impegnati a consumare gli spiccioli residuali

dell’esistenza nostra e della terra intera,

che l’Architetto del mondo collocò

nell’orbita del Sole

e noi ce la mettiamo tutta

per farne il pianeta della sera.

II

L’altare del crocifisso di san Carlo

è tua dimora ormai, arcivescovo Martini.

Il sacro legno che per le strade di Milano

guidò canti di riconoscenza alla fine della peste

del millecinquecentosettantasei/settantasette

ispirò al grande Carlo tuo predecessore

il Memoriale ai milanesi. Voleva il santo

che riprendendo vita, affetti, occupazioni

avessero contezza «di tante migliaia di poveri»,

delle «botteghe che erano chiuse»,

«i commerci banditi di ogni parte»,

«la solitudine delle chiese», «l’abbandono delle case»,

«lo stupore di tutti, le menti confuse,

i rimorsi delle coscienze

e l’altre communi miserie e amaritudini».

Corsi e ricorsi dell’umana sofferenza:

sembrano riferite a noi del Covid

le illuminanti ammonizioni di san Carlo.

La forza della debolezza che ha la Croce

taglia di netto in due la storia,

senza compromessi, senza confusioni!

Il crocifisso grida alto e chiaro

che non si può dal Golgota tornare uguali:

tutto s’è compiuto

perché dei cuori sia trasformazione,

per diventar migliori,

o per le cose peggiori offrir di noi: l’inferno.

La cittadinanza della Croce, Cardinale mio,

è stato il mistico pensiero del tuo agire;

«Fidatevi di lei – era il tuo dire senza bisogno di
discorsi –

confidate nella Croce che ci ha dato il nome di
cristiani

e la speranza che da essa si sprigiona;

diamo ogni giorno la testimonianza:

piccolo gregge siamo,

non più maggioranza in un Paese

che ci presenta il conto delle nostre incoerenze;

granello di senape ci ritroviamo, sale della terra,

lievito che dischiude zolle dure e resistenti».

Per questo anche tu portasti il crocifisso di san Carlo

per le vie e le piazze di Milano;

invocavi l’aiuto del Santo tuo predecessore

per battere le pestilenze dell’anima oltreché del corpo:

correva l’anno millenovecentoottantaquattro,

era di Venerdì Santo.

Da allora Milano non fu più la stessa.

III

Piccolo aspirante Cireneo abituo gli occhi

alla penombra del Duomo, aspetto;

confido che l’Albero della Parola

da te a Milano trapiantato e qui accudito,

vegliato giorno dopo giorno con amore

lasci cadere foglie di luce

che aiutino a cambiare la visione

in chi s’inginocchia, le raccoglie,

d’ogni stilla fa tesoro:

lì c’è Sapienza, signora nella Creazione,

che gioiosa attende da noi condivisione.

Chiedo alla Sapienza, che col Grande Architetto

giocando ha costruito l’universo intero

e di ciascuno ha plasmato la storia dagli inizi,

perché in Duomo ti è stata data solenne sepoltura.

Che cosa dice a me e alla città futura,

ai fedeli, a chi non crede, persino a chi ti ignora,

il divino intendimento di scolpire ai piedi dell’altare

i versi del Salmo centodiciannove:

Lampada per i miei passi è la tua Parola,

luce sul mio cammino.

All’ultimo, quando t’hanno chiesto

dove volevi che la terra accogliesse le tue spoglie

di te ti sei dimenticato, il capo umile hai chinato,

all’afasia del Parkinson con un cenno hai rimediato:

«Nel Duomo, dove se stesso trova

chi a Milano è nato e chi la fortuna prova.

Qui, nella casa comune di ogni milanese

da morto avrò la vita nuova,

a chi viene ricorderò con gioia:

esultate, Cristo è risorto!».

Docile ti sei arreso, allo Spirito hai ceduto,

alla sottile voce di silenzio abbandonato

ti sei lasciato qui seppellire;

non concede scampo l’amore di un Dio totalizzante

che neppure nella tomba ti concede pace,

che rispondenza esige da chi gli è diletto

tanto la passione per il Figlio suo travolge.

La Croce non si può solo contemplare,

al legno bisogna farsi anche inchiodare.

IV

Qui c’era bisogno di te, mio Cardinale,

ci volevano di te la storia, la fede ed il sapere.

Qui, nella Ninive dei giorni nostri

(l’hai chiamata così questa maledetta, benedetta città)

non nella valle di Giosafat

è l’ultima stazione del tuo itinerarium crucis.

Nel celeste sogno della Gerusalemme amata,

dove la tomba ti eri apparecchiata,

la memoria in un sepolcro si sarebbe consumata.

Altri dall’inizio erano invece i divini intendimenti:

reggere la Chiesa che fu di Ambrogio e poi di Carlo,

diventare punto di riferimento universale,

perché di sotto le braci d’una città efficiente

ma di senso dimentica e smarrita

il fuoco dello Spirito tornasse a scoppiettare

e alla tua morte da un tizzone martiniano

la fiamma divampasse, incendiasse il presente

e di lì attecchisse germi di futuro:

se Cristo sino alla fine del mondo è in agonia

ci vuol chi testimoni che Lui è la vera, naturale via,

che non c’è morte senza che Resurrezione sia.

La sequela di Cristo non è andar dietro ad un modello:

è cristificazione! La sola imitazione

per secoli raccomandata,

di per sé non è trasformazione.

La conversione del cuore da Gesù annunciata

te l’avevano instillata antiche ascetiche letture:

«Sul Crocifisso fissate il vostro sguardo

e vi diventerà facile ogni cosa!».

V

Ti sentisti a casa nella ruvida Milano:

entrando in punta dei piedi, con il Vangelo in mano,

diventasti una lettera di Cristo all’uomo d’oggi.

Per redigerla hai intinto la penna nella peste

vissuta dal Santo tuo predecessore.

La forza di san Carlo ti fu d’ispirazione,

supplemento di speranza e determinazione

per guardare in faccia le pesti

che infettavano Milano ai giorni del tuo arrivo;

le chiamasti per nome: solitudini, violenza, corruzione,

Idre feroci che le teste gli mozzi

e ricrescono sfrontate, mutevoli nei tratti,

più insidiose, cattive, virulente.

Hai voluto parlare con suppliche, parole, riflessioni

forgiate da san Carlo per arrivare ai milanesi

che allora dopo due anni di lutti e distruzione

non avevano imparato la lezione

e baldanzosi s’eran nella vita ributtati

come niente fosse stato;

hai azzardato un paragone

tra gli esiti di tempi bui e lontani

e moderne opacità, inerzie, povere visioni

in politica, economia, sin nelle istituzioni;

falsa pace delle coscienze

hai battezzato il compiacersi delle proprie virtù

che distingue i milanesi

restii a levar lo sguardo oltre il proprio naso;

la passione ti ha acceso del tuo predecessore santo

che si era illuso di un ravvedimento collettivo

nell’ammirare la città rialzar la testa fiera

dopo i lazzaretti stracolmi, i morti a migliaia,

i patimenti, le miserie, il crollo dell’occupazione

in opifici, commerci, arti, botteghe;

identificato ti sei nel Santo che Milano spronava

a non ubriacarsi per la ritrovata salute corporale,

a farsi persuasa che tanta Infezione

avrebbe dovuto provocare la rivoluzione

nei cuori, nei costumi, nella religione,

a non esser cieca, a non lasciarsi travolgere dal fare,

a tenere gli occhi fissi sulla Croce

perché quel legno è segno di contraddizione,

spartiacque tra chi da essa trae forza,

impulso e grazia per cambiare

e chi invece l’animo suo non muta

e si prepara ad una nuova ineludibile caduta.

VI

All’ombra di san Carlo hai tracciato la parabola

tra antiche e nuove pestilenze,

la strada hai prospetta

perché dopo ogni crollo Milano alzi la testa:

fermarsi, ridestare l’assopita pietà, pregare,

riflettere, con voci plurali canti intonare

nella metropoli laica e complessa,

proclamare il desiderio d’Assoluto

che nella città secolare comunque alligna,

recuperare momenti di sosta, di silenzio e ascolto,

reinventare spazi di meditazione.

«Bisogna che Dio sia Dio perché l’uomo uomo sia»,

dicesti; l’uomo che esiste perché una Parola d’Amore

al proscenio con dolcezza l’ha chiamato.

Ma per scoprire che lui non è all’origine della sua vita

l’uomo ha bisogno di ministri di Dio credibili,

di una Chiesa che non resti ferma,

di esempi vivi, convincenti, professi di libertà cristiana,

che è poi la libertà da Cristo con la Croce proclamata:

il Venerdì Santo e gli Apostoli in fuga la davano per
persa,

ma tra l’interminabile Sabato e la domenica di Pasqua

nel Sepolcro vuoto si è definitivamente ritrovata;

grazie alle donne con giubilo è stata al mondo rivelata;

da allora la Croce si staglia sopra il mondo,

con la sua luce lo attraversa,

attira un’umanità frammentata, spersa.

VII

Il legno della Croce è un albero forte, resistente.

Ha un rizoma robusto, nodoso, senza tempo,

alimentato da tenere radici

che s’inseguono per recessi ascosi,

inesplorati, misteriosi. Dal seno del sottosuolo di
Milano

succhiano un’acqua fresca

che giù dalle Alpi corre per gole, morene,

fiumi, torrentelli, laghi, fossi, rogge, Navigli,

inzuppa pianure, ingravida una falda possente e
generosa,

rende le fondamenta del Duomo abbarbicate al suolo.

Alla maniera del tuo amato Mosè

della qualità delle acque maestro diventasti

arcivescovo Martini; hai sperimentato che l’acqua

non è mai uguale a se stessa:

rinfresca, toglie arsura, purifica e rigenera

quanto nel suo corso le succede d’incontrare,

ma per mano d’uomo l’acqua può cambiare

e i suoi effetti rivoltare; contaminata,

da sorgente di vita veleno diventare,

germi di morte nella natura e nelle persone inoculare.

Acque di Milano, acque mutevoli, acque conturbanti:

acque limpide, gorgoglianti, nutrienti,

di variegate creature brulicanti,

come i gamberi che Bonvesin vantava;

acque operose, fonti d’energia,

di gioioso ordinato flusso verso il mare,

acque di marcite, coltivazioni, campi,

di polle, cascine, abbazie, acque di terra

acque di eternità abitate. Ma anche…

acque sospese, acque insicure:

acque di opposta consistenza, acque perniciose,

acque inquinate, torbide, nere, limacciose:

muy negrissime santa Teresa inorridita le avrebbe
battezzate,

acque d’ingiustizie, scandali, malversazioni,

mafiose infiltrazioni, acque imputridite
dall’indifferenza.

VIII

Acque esterne e acque interiori, acque indistinte,

acque che miscelano gli umori, mio Cardinale,

acque di superficie, acque del profondo,

acque di Milano e del contado, acque personali,

acque pubbliche che la comunità può risanare,

acque che ciascuno ha la responsabilità di depurare

per rendere grazie del dono della vita cui appartiene

prima ancora che per doverosa civile ecologia;

acque che il pavimento del Duomo hanno per amico:

filtrano sotto l’altare di san Carlo

e dell’albero della Croce sono alimento;

acque alle quali, ci hai insegnato,

la Croce toglie ogni scoria:

assorbe, distilla, rende acque chiare:

della città e di chi l’ama, di chi cade

e di chi ad alzarsi torna

il Crocifisso ogni volta daccapo fa la storia.

Te lo ha suggerito Teresa, ospite gradito

ad Avila nel suo intimo castello

in spirituale esercizio concentrato;

tesoro hai fatto dell’insegnamento dispensato

dalla mistica Maestra di preghiera;

hai praticato sapienza

pastorale alla scoperta dell’incoerenza

tra la vita e i momenti d’orazione,

perché al tremendo divario

tra il fiat di Dio per ciò che è bello e buono

e all’umana incongruenza riparazione venisse
contrapposta.

Questo è pensare e immaginare Dio, questo è pregare,

disporci ad ascoltare la Parola,

guardare il Figlio Crocifisso

che morendo e risorgendo rinnovato ha l’Alleanza.

Nel vuoto totale del silenzio ritmano palpiti,

sibilano respiri, echeggiano suoni, sgorgano forme,

si articolano fonemi che la Parola in parole rende,

ad esse dà vita, sostanza, senso, relazione,

pulsa e fluisce in sommesso eloquio

la necessità di ringraziare

per le stupefacenti meraviglie dell’amore

che il Creatore nel cosmo ha seminato;

allora, contagiato, l’uomo prende coraggio,

inizia a poetare, a plasmare la materia, le cose a
nominare,

dice con parole affetti ed emozioni;

si congiungono le mani, si articolano le frasi,

il cuore asseconda il corpo,

regge lo sguardo, suscita l’intelligenza;

pregare è lode corale e tenera riconoscenza personale

per l’apprendistato che coniuga il divino con l’umano:

l’orazione ricrea se stessi e il mondo intero.

IX

Nell’ombra di una stanza l’acqua nel bicchiere

appare limpida, pura, trasparente,

ma se la guardi in controluce

da un raggio di sole attraversata

diviene un liquido d’impurità pervaso, opaco.

Bicchiere, icona del cristiano

trapassato dal raggio della Croce:

questa apre gli occhi, toglie allo sguardo torbidezza,

allegrezza dà per la liberazione dal tremendo peccato

che è l’umana, pervicace presunzione.

La metafora del bicchiere a Teresa d’Avila appartiene;

un riferimento per te la santa,

insieme al centotrentotto dei Salmi prediletto

che dice: «Signore, tu mi scruti e mi conosci».

L’introspezione cittadinanza piena

nel tuo ministero ha avuto;

oggi ai piedi del crocefisso di san Carlo

nel colloquio interiore,

inseguito dall’insaturo desiderio di ricerca,

dall’implacabile inquietudine

amica sempre e che temo non sarà mai doma,

mi placo in disposizione orante, sosto.

Hai esortato Cardinale mio:

«Non stancatevi mai di far domande».

Io dal Duomo mi porto via preziosa indicazione:

interrogarsi su che cosa ci dicono gli eventi,

sui comodi che hanno messo in discussione,

su ciò che abbiamo noi la responsabilità di fare

perché le cose possano cambiare,

per contrastare chi agisce iniquamente,

per rendere giustizia a miseri ed oppressi,

per rimettere al centro della cura la persona,

per gridare dai tetti che ci si salva tutti insieme

e comportarsi poi con esigente coerenza

senza pretendere che tocchi ad altri incominciare:

questo è il vaccino, questo ci fa fratelli,

questo rende immuni dalla tentazione

di tornare indietro, di cercare d’essere

così com’eravamo, questo fuga la nostalgia

d’essere come gli ebrei che contestavano Mosè

che volevano in Egitto ritornare,

chinare il capo sotto il faraone

avendo in cambio un piatto di carne garantito

e da schiavi tirar sera,

invece di continuare nell’impresa,

di uscire dall’Egitto che in noi è sempre,

affrontare il deserto, rischiare la speranza, la
liberazione.

X

Dal Covid-19 e da ogni pestilenza

migliori o peggiori se ne esce:

uguali non si può restare.

In Duomo me lo avete detto entrambi Carli miei:

il Borromeo, da santo, e tu Martini che chissà

se qualcuno avrà mai il coraggio di proporre sugli
altari.

Per riscattarsi e non rimanere identici a se stessi

la via è sognare: per sé, ma non da soli.

Questo è lo straordinario, impegnativo paradosso:

il sogno di una Milano riscattata dalla Croce,

che depura le acque della città,

quelle di chi la abita, le acque di chi la agogna,

quelle di chi ne ode echi incoraggianti e accorre

disposto ad ogni sacrificio.

Lo scrisse san Carlo «avemo avuta bella occasione

da questa peste, d’andar filosofando Christianamente,

e investigando le vie nostre passate, e la volontà di Dio

intorno a noi, e da qui pigliar regola e indirizzo

a tutta nostra vita». E tu Carlo Maria Martini

l’hai promesso al tuo predecessore,

col cammino penitente per le strade cittadine

invocando il Dio soccorritore contro ogni nuova
pestilenza.

Tu, mio Cardinale, hai domandato che l’Eucarestia

«col linguaggio della vita rinnovato dalla carità

dica a tutti che non di solo pane vive l’uomo;

che la nostra vita aspira ad andar oltre se stessa,

verso il misterioso richiamo del tuo amore,

che ciò che conta non è il possesso,

il dominio sugli altri, ma l’obbedienza al tuo disegno».

Aggiungo sotto voce: Gesù crocefisso, mio e nostro
Signore,

tieni lucida la mente di Milano, ribollente il cuore,

integro e libero il desiderio di sognare.