«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,34)

La «notte oscura» nell’esperienza del cardinale Martini

di Giovanni Giudici

Ora cerco di lasciarmi aiutare da Cristo, che si fa lui il suo senso e che io leggo in una cifra molto semplice, nelle tre parole pronunciate sulla croce. La prima è: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Esaminata nel suo rigore filologico, è una parola che significa delusione, amarezza, disperazione, lontananza, perdita di senso. Tuttavia è parola che convive con una seconda: «Nelle tue mani, Padre, affido il mio spirito». Non si sa come possa convivere, però di fatto convive. E convive, anzi, con una terza parola: «Oggi sarai con me in paradiso». Cioè, tu interessi tanto a me quanto io a me.

Il collegamento delle tre espressioni – il senso della delusione, l’affidamento illimitato, l’attenzione all’altro che soffre – rappresenta l’ideale a cui guardo. Il guardarlo mi dà senso e mi dà fiducia che, se tale ideale che dà senso è possibile, potrà esserlo anche per me.

C.M. Martini, Cattedra dei non credenti, Rusconi, Milano 1992, 89.

Un’abbazia posta nella Svizzera interna era stata scelta come luogo adatto per incontrarsi tra vescovi e vivere qualche giorno di preghiera e confronto sui temi della vita della Chiesa. Chi chiamava all’incontro era il cardinale Danneels. Egli, primate del Belgio, aveva parlato al papa, Benedetto XVI, dell’iniziativa, aveva ricevuto un incoraggiamento, e così per alcuni anni si svolgeva un incontro di quattro giorni che radunava una decina di vescovi.

Il cardinale Martini era stato sempre invitato, e partecipava mettendo in comune la sua esperienza pastorale e la sua conoscenza della vita della Chiesa, sia quella presente in Europa, sia quella che aveva incontrato più volte in occasione di predicazione di Esercizi Spirituali in Paesi dell’Asia o dell’Africa. Gli incontri erano spazio per la preghiera comune e per un confronto su temi scelti di volta in volta; riflessioni sui laici, sulla struttura della Chiesa e altro ancora.

Dal 16 al 20 aprile 2012 si tenne l’ultimo incontro a cui partecipò il cardinale Martini. Come nelle occasioni precedenti, estese anche a me l’invito. Il fisico del già arcivescovo di Milano era molto provato dalla malattia che lo segnava da alcuni anni. Si recò in Svizzera, partendo da Gallarate in ambulanza, perché non poteva viaggiare in una macchina normale. Nei momenti di incontro e di confronto anch’egli prendeva la parola. Talvolta era difficile comprendere appieno che cosa intendeva comunicare al gruppo. Data la presenza di alcuni vescovi del centro o del Nord d’Europa egli, nel tentativo di farsi capire, comunicava in tedesco, invece di esprimersi in italiano.

È in questa circostanza che scambiai una parola inattesa e per me assai coinvolgente con il cardinale Martini. Per intendere meglio quell’avvenimento, desidero dare la mia testimonianza di ciò che mi colpì e poi del cammino mio personale che percorsi a partire da tale esperienza. In un corridoio dell’abbazia, camminavo accanto al lettino su cui stava il Cardinale, supino. Conversavamo tra noi due con quella libertà e confidenza che si ha dopo tanti anni di lavoro insieme e di vita comune. A un certo punto, il Cardinale mi mormorò: «Dio si è dimenticato di me». Questa parola è stata per me come un fulmine a ciel sereno. E si può capire il mio sconcerto. Avevo ascoltato tante volte la lettura di fede che il Cardinale ci proponeva, sia riguardo alla Parola che sapeva commentare con incomparabile ricchezza e profondità, sia riguardo ai fatti di cronaca, o alle condizioni della società in cui si viveva. Alla luce del giudizio di fede, una parola ci veniva sempre comunicata dal cardinale Martini. Erano riflessioni capaci di illuminare con la luce della Parola aspetti anche complessi e oscuri della vita sociale. Dagli interventi sulla Parola, dagli sguardi sulla nostra contemporaneità, quanta serenità e quanto coraggio ne derivava a noi credenti che ascoltavamo il vescovo.

La frase del Cardinale fu per me tanto inattesa e dolorosa da oscurare per un istante la mia vista. Un’ansia penosa mi colpì. Ecco, quest’uomo che aveva contribuito con le sue riflessioni a rendere più viva la mia fede, esprimeva ora una frase che sembrava mettere in discussione le sue e le mie certezze. Mi venne in mente di dire una parola, che potesse dare consolazione e coraggio. Ma tanta era stata la sorpresa per ciò che avevo udito, che non trovai di meglio che affermare: «Ma no, Eminenza. Lei sa bene che Dio non si dimentica di nessuno di noi». Ho poi ripensato a lungo a proposito della parola mormoratami dall’arcivescovo emerito. Mi sono domandato come può avvenire che un’espressione tanto forte e tanto inaspettata venga pronunciata da un uomo che è stato riferimento autorevole e illuminante per la vita di fede di molte persone. Poco alla volta, mi è parso di trovare una risposta che non solo mi ha tolto l’inquietudine per un’espressione così inattesa, ma mi ha anche permesso di entrare in profondità nella sofferenza, vissuta con amore e fede, di un uomo intelligente e sensibile che sperimenta di giorno in giorno il venir meno delle forze, l’impossibilità di comunicare per farsi intendere dall’interlocutore, l’incapacità di possedere appieno i gesti più quotidiani che un uomo pone: portarsi il cibo alla bocca, bere, esprimere con chiarezza i suoi pensieri.

In quell’aprile del 2012 Carlo Maria Martini soffriva da anni di una forma di malattia che riduceva di giorno in giorno la sua capacità di gestire in autonomia la sua persona. Poi venne anche la difficoltà sempre maggiore a comunicare. Ci fu, successivamente, anche il tempo in cui divenne difficile interpretare i suoni delle parole con le quali il Cardinale intendeva comunicare. Non era raro purtroppo che gli si chiedesse di ripetere ciò che aveva detto e ancora non si capiva. Allora Martini taceva. Erano momenti di disagio per l’interlocutore, ma certo anche di sofferenza per il Cardinale. Egli avvertiva che la malattia impediva la comunicazione, chiudeva l’accesso a un incontro personale. Furono questi i giorni nei quali, al congedo da una visita, egli abbracciava chi era venuto a trovarlo.

La persona che in quel lungo corridoio dell’abbazia aveva mormorato «Dio si è dimenticato di me» era maestro di fede, aveva operato con grande coraggio e dedizione per la vita buona delle persone e a sostegno di chi operava per una società più giusta e autenticamente solidale. Più volte, nei suoi interventi, egli aveva affrontato anche il tema del morire alla vita terrena e, a proposito della conclusione della vita, si era espresso con grande realismo. Per esempio, in occasione della sua ultima celebrazione da cardinale arcivescovo per la festa di Maria Assunta in cielo, nell’agosto del 2002, egli parlò con semplicità e immediatezza del morire:

La morte ci fa sempre paura, perché rompe violentemente ogni progetto di vita quaggiù. Per questo la paura della morte non sarà mai esorcizzata del tutto, perché ci è naturale come il sangue e la vita. Ma la speranza certa di contemplare Maria nel cielo e di stare per sempre con Gesù è forza dello Spirito di vita che ci permette di guardare a ogni fine e a ogni distacco, anche a quello unico, come si guarda a un passaggio arduo in una parete di roccia dopo il quale intravvediamo la gioia della vetta. (Omelia nella solennità dell’Assunta, 15 agosto 2002)

Sempre sul tema del morire, ci consente di entrare nel pensiero di Martini la rilettura che egli fa a proposito di «Pensiero alla morte». Sul senso della vita, scritto da Paolo VI. L’arcivescovo emerito di Milano rilegge il famoso testo del suo illustre predecessore sulla cattedra ambrosiana, Giovanni Battista Montini. Si tratta, come avverte Martini, di una riflessione che assume anche un carattere di vissuto personale, sul limitare della vita, il dolore del passaggio per la porta stretta finale, l’incontro con Dio.

Al termine di questa rilettura del testo di Montini, mentre rimaniamo pieni di ammirazione per il suo pensiero sincero e alto, non possiamo non istituire qualche paragone con la situazione di noi che lo leggiamo oggi, in particolare con la mia situazione di arcivescovo emerito e ottantunenne. È vero che il peso del governo di una Chiesa locale, pur se grande, non può paragonarsi a quello portato da Paolo VI nella sua qualifica di Sommo Pontefice. Pur tuttavia la lettura di questo testo suggerisce similitudini e differenze che vale la pena di recensire. Paolo VI scrisse queste pagine alcuni anni prima della sua morte, mentre si trovava ancora fortemente impegnato nel molteplice servizio della Chiesa. Io rifletto su queste cose con la tranquillità di chi non ha più impegni ufficiali e può prepararsi alla morte. Ringrazio Dio di avermi dato, dopo gli anni impegnati al servizio della Chiesa di Milano, un tempo relativamente lungo (ormai quasi sei anni) per pensare all’anima mia. Di fatto mi trovo più vicino alla morte di quanto non si trovasse Montini quando scrisse queste pagine. Sono davanti alla prospettiva di una chiusura prossima dell’esistenza e quindi mi pare di sentire in maniera ancora più forte tutta la grandezza e l’oscurità di quel momento. In questa luce mi pare di notare che Montini ha avuto una maggiore intuizione della bellezza del mondo. Perciò può rammaricarsi di non averlo conosciuto abbastanza e di non averlo studiato a fondo. Io non sento tali rammarichi. Sì questo mondo è bello, ma ci sono anche tante bruttezze e brutture e perciò non mi appare tanto straordinario né attraente.

Poi il cardinale Martini riflette sul tema del morire, con quella chiave di lettura che anche altrove ha usato. E afferma:

Mi impressiona la qualità della sua [di Paolo VI] fede, tranquilla e abbandonata a Dio. Mi sento in questo senso assai carente. Io, per esempio, mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire.

Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito. Invece Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nella oscurità, che fa sempre un po’ paura. Mi sono rappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle «uscite di sicurezza». Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Questa fiducia traspare da tutto il testo di Montini.

Ciò che ci attende dopo la morte è un mistero, che richiede da parte nostra un affidamento totale. Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo a occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani. La grande fede di Montini gli permetteva di perdersi in Dio con l’animo di un fanciullo. Ispirati dal suo esempio desideriamo anche noi godere di quella pace interiore che vince ogni ansietà e si affida a Dio con tutto il cuore.72

Vediamo qui dunque come l’arcivescovo, a somiglianza di ogni donna o uomo, ha considerato con realismo la propria esistenza, e non si è sottratto al confronto con il morire, anzi lo ha messo a tema e ne ha tratto quella bella intuizione che descrive nella pagina che abbiamo riletto. Solo nel morire, egli dice, la creatura umana fa il passo decisivo di consegnarsi al Padre senza condizioni, senza tutte quelle remore e incertezze che frenano o impoveriscono il dono di sé, che è la meta alta e consolante della nostra vita di creature.

Sul tema della vita e della morte, si possono leggere taluni brani nei quali il cardinale Martini consegna la sua riflessione sulla morte e la sua persuasione a riguardo della vita. Questi pensieri sono contenuti in lettere scritte ai suoi familiari; si tratta di espressioni nelle quali vediamo la sensibilità nei confronti dell’esistenza, in tutto il suo svolgimento, e l’appassionata gratitudine nei confronti della vita.

Leggiamo un brano della lettera indirizzata ai suoi familiari e datata 30 luglio 1959. Padre Martini è in un viaggio di studio in Terra Santa e scrive:

Dovevo raccontarvi quello che mi accadde il 22 luglio scorso, durante l’escursione in Samaria. […] in quel giorno stavamo visitando, tra le altre cose, gli scavi di El Gib, a nord di Gerusalemme. Io mi trovavo su una trincea di sassi alta parecchi metri, costruita dagli scavatori a lato di una cisterna vasta e profonda, senza acqua, che risale al tempo degli antichi ebrei. Improvvisamente la trincea di sassi cominciò a franare: i sassi cadevano dentro la cisterna con grande fragore, e anch’io ero trascinato verso l’orlo della cisterna senza avere alcun punto fisso a cui aggrapparmi. I miei compagni poco lontani e gli arabi accorsi al rumore mi vedevano precipitare nella cisterna. Nel franare l’orologio mi si è sfilato dal braccio e la macchina fotografica era stata strappata fuori dalla custodia. Finalmente riuscii a fermarmi poco sopra l’orlo della cisterna. E allora alcuni arabi si calarono giù e riuscirono a porgermi la mano e a farmi risalire. Tutto si svolse nello spazio di mezzo minuto o poco più. Bilancio: per me nessuna conseguenza, se non qualche graffiatura alle braccia e alle gambe […] i miei compagni consideravano quasi un miracolo che io non fossi caduto nella cisterna.

Molti anni dopo, e precisamente nel 2002, Martini ritorna su questo episodio:

Durante quel viaggio ho anche vissuto un’esperienza di morte. Un’esperienza semplice, molto banale. Stavamo visitando i pozzi di El Gib (l’antica Gabaon), il luogo del sogno di Salomone, sogno nel quale chiede al Signore il dono della sapienza. Intorno ai grandi, profondi pozzi in muratura […] era ammucchiato il materiale proveniente dagli scavi e, per fotografare un pozzo, occorreva salirvi sopra e sporgersi. Ci mettemmo in fila (una trentina di persone) e, quando venne il mio turno di scattare la foto, la montagnola di sabbia e sassi cominciò a franare, forse perché troppo calpestata; così cominciai a scivolare giù insieme alla sabbia. Mi vedevo ormai morto sommerso, ma improvvisamente mi venne un pensiero, che considero una vera grazia dal momento che non si è ripetuto: come è bello morire in questa terra. E mi sentivo tranquillo, sereno, contento di ciò che stava accadendo.

Credo anche che questa assoluta tranquillità mi abbia salvato: infatti, essendo in pace, mentre precipitavo infilavo istintivamente le mani nella massa di sabbia mischiata a sassi, e riuscii a fermarmi un attimo prima di cadere sul fondo. Questa esperienza di morte vicina, coniugata con la precedente esperienza di vita, è rimasta impressa nel mio cuore. Per quanto ricordo è stato questo il primo momento in cui ho fortemente avvertito le mie radici esistenziali legate a quella terra, a quei luoghi.73

L’esperienza di vita cui il Cardinale accenna nella riflessione che abbiamo letto è da lui stesso narrata nel brano sopra riportato: è la narrazione di un episodio di esperienza di vita, durante un viaggio in Terra Santa. Ecco come Carlo Maria Martini lo ricorda molti anni dopo:

Arrivando a Gerusalemme da Amman la sera del 12 luglio [1959], mi resi conto che il giorno dopo ricorreva il settimo anniversario della mia prima messa e, nonostante l’ora tarda, riuscii a ottenere di poter celebrare, la mattina seguente, l’eucarestia al Santo Sepolcro. Mi alzai verso le 3.30 e mi avviai camminando lungo i vicoli deserti della città per raggiungere la basilica. Di quella messa ricordo soltanto che ebbi una sensazione fortissima di «vita», di ciò che significa «vita»: pregando e celebrando da solo sulla pietra del Sepolcro, con pochissime persone che assistevano di fuori, mi pareva di cogliere in una maniera straordinariamente lucida che la vita è il tema nodale di tutte le religioni, è l’anelito dell’umanità, che in quel luogo si concentrava ogni speranza, ogni certezza, tutta la fiducia di vita. Difficile descrivere l’esperienza che ho vissuto, l’intuizione che ho avuto di una vita che non finisce mai, che scoppia, deborda, abbraccia l’universo; la sensazione che tutte le religioni si giocano sul tema della vita per sempre, della risurrezione e che quindi, a partire da qui, tutto doveva essere compreso e giudicato.74

Come si comprende da questa testimonianza del Cardinale, espressa molti decenni dopo il fatto, in lui l’esperienza del vivere, la percezione dello straordinario significato della vita umana è limpida e profondamente vissuta. Dunque la parola che tanto mi aveva impressionato: «Dio si è dimenticato di me», ha preso nella mia coscienza un significato nuovo. Mi è parso di scorgere nell’esperienza che il cardinale Martini viveva in quel momento, e che aveva espresso con quella parola, il vivere quella personale fatica spirituale che viene chiamata «notte oscura»; di questa fatica nel sentirsi lontano da Dio ci parlano le persone che sono chiamate a una purificazione piena. Accosto dunque la parola del Cardinale al senso dell’abbandono da parte di Dio che ha avvertito Teresa di Lisieux, quando si sentiva partecipe della mensa dei peccatori e le pareva di essere abbandonata da Dio negli ultimi giorni della sua vita. Anche Madre Teresa di Calcutta ci testimonia di aver vissuto una sorta di lontananza da Dio, una impossibilità di incontrarlo se non nel povero morente, solo, sulla pubblica strada delle città.

La sofferenza che ho colto in quel giorno attraverso la frase di Martini ricordava dunque le sue riflessioni quando, parlando della morte, ci insegnava che il significato del morire poteva essere cercato nella resa piena e definitiva della creatura umana all’amore di Dio. Dunque, quella espressione che mi aveva tanto colpito era il segno di una notte oscura che il Cardinale viveva, costretto da una malattia che diminuiva poco alla volta la sua possibilità di vivere in autonomia e di comunicare, mentre si preparavano per lui la luce e la gioia piena dell’incontro con il Signore.

72 C.M. Martini, Paolo VI «uomo spirituale», Istituto Paolo VI – Studium, Brescia-Roma 2008, 173s.

73 C.M. Martini, Verso Gerusalemme, Mondadori, Milano 2002, 27s.

74 Ivi, 26s.