Guardare in faccia le prove

Affidarsi al Signore nel tempo della malattia

di Damiano Modena

«Voi avete perseverato nelle mie prove», non genericamente «nelle prove». L’espressione nelle «mie» prove non si può limitare alle circostanze storiche di Gesù di Nazareth; egli parla di sé come Messia, come colui che riassume l’esistenza di tutto il popolo di Dio, il cammino di questo popolo verso il Padre. Ma possiamo dire di più. Dal momento che Gesù è Figlio dell’uomo egli fa sua e vive in sé la prova di ogni uomo e di ogni donna della terra; è il capo dell’umanità e le sue prove si allargano a questa moltitudine immensa di persone che hanno popolato, popolano e popoleranno la terra. […] Tutto questo ci pesa, talora ci irrita, ci inquieta perché vaglia la nostra fede, la nostra speranza, la nostra carità, la nostra pazienza, la nostra sopportazione, il nostro senso del limite. Ma sono proprio queste le prove di cui Gesù dice «mie». […] Le soffriamo con lui, amando lui, in intimità con lui. Egli ci domanda di entrare in questa via per identificarle e comprenderle meglio; è infatti importante riuscire a guardare in faccia le prove.

C.M. Martini, Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1990, 15-17.

Nel vocabolario personale del predicatore Martini sono impresse, registrate, migliaia di parole. Lo ha arricchito nel processo lungo, articolato, profondissimo del tempo dello studio e dell’insegnamento, vi accede con estrema facilità, sollecitato da un pensiero, da una domanda, da un dubbio, da uno stupore. A chi gli chiedeva quante lingue conoscesse, rispondeva: «All’incirca una dozzina!». Era verace in tutte le risposte. Pensava, infatti, che conoscere molte lingue, significasse parlarne almeno trenta. L’accesso al numero incredibilmente alto di vocaboli impressi nella sua memoria era sostenuto principalmente dalla conoscenza della loro etimologia. Avere dimestichezza con le radici semitiche, quelle greche o latine, gli consentiva di dare un «nome» ai movimenti della vita interiore e a quelli della vita fisica in modo preciso. L’uditore si sentiva pienamente partecipe della comunicazione, profondamente introdotto nella propria esperienza personale corredata da ricordi, immagini, eventi. Il passo biblico, di volta in volta commentato, era l’icona in cui specchiarsi: ciascuno ne traeva le conclusioni senza mai sentir violato lo spazio della propria libertà personale.76

Tre scenari, tre sfondi, stanno alle spalle dell’argomentare di Martini. Lo scenario dell’Essenziale: in un tempo in cui il numero delle parole cresce esponenzialmente rispetto allo sviluppo dei mezzi comunicativi Martini sente l’esigenza di raggiungere le parole più essenziali. È necessario andare al cuore di ogni questione, semplificare ogni concetto. Quello della Trascendenza: l’Europa e più in generale l’Occidente sono sempre più ecumenicamente immanenti, chinati sulla materia, sul corpo, sulla tecnologia, sui beni di consumo e manifestano segni evidenti di una «dieta» carente di mistero.77 Egli sa che la categoria di mistero è sempre anche ciò che precede ogni ricerca scientifica, medica, tecnologica. Non dunque solamente una prerogativa del pensiero teologico e filosofico. Terzo scenario, quello della Complessità: la coesistenza di un numero sempre più crescente di «princìpi» unificatori, di opinioni, di idee produce paradossalmente continue fratture. Fratture che diventano crepacci nei quali molti scivolano, dai quali gli giungono richieste di aiuto. Gettare la fune del discernimento, della Dimensione Contemplativa della Vita, significa offrire speranza a quanta più gente possibile.

Per i tre grandi scenari pandemici del suo tempo egli ha dunque la sola «cura» delle tre parole: cuore, mistero, discernimento.

Essere dotato di un bagaglio lessicale fuori dal comune gli semplifica il processo di sintesi. Omelie brevi, discorsi e conferenze non superano la forbice che va tra i cinque e i venti minuti. Le meditazioni, durante gli Esercizi, tra i trenta e i quarantacinque. Uno schema mentale preciso ordina le fasi del discorso in modo tale che l’uditore possa seguire il processo logico che la riflessione offre. Nessuna categoria umana è pre-concettualmente esclusa dalla sua osservazione. L’Umano, in qualsiasi situazione o postura si trovi, ha qualcosa da suggerirgli ed è sempre il qualcuno per cui cercare delle risposte. Un esempio è il discorso «sulle ginocchia»:

«Gesù, inginocchiatosi, pregava.» L’inginocchiarsi di Gesù non è usuale: nel tempio ordinariamente si pregava in piedi. Pregare in ginocchio significa un momento particolare di intensità e ritorna qualche altra volta nella Bibbia. Raccontando la morte di Stefano, l’autore degli Atti degli Apostoli dice: «Piegò le ginocchia e gridò forte: Signore non imputar loro questo peccato» (Atti degli Apostoli 7,60). Nell’istante drammatico e decisivo della sua morte, Stefano si inginocchia per pregare. La descrizione di Gesù inginocchiato ci dice però un’altra cosa importante: che c’è una relazione tra il corpo e la preghiera, tra il gesto e la preghiera, che va vissuta e ritrovata. Alcune forme sobrie del rapporto tra corpo e preghiera, sono quelle che esprimiamo nella liturgia alzandoci in piedi, inginocchiandoci, sedendoci e alzando le braccia […]. Ma è importante che ciascuno di noi, nella propria preghiera privata, ritrovi ed esprima in maniera più personale il rapporto tra preghiera e gesto, preghiera e corpo.78

In poche righe egli mette in relazione la preghiera di Gesù e la morte di Stefano, la postura fisica di entrambi «in ginocchio», evidenzia lo stato interiore del morente e dell’Orante: la forza del «grido». Descrive la misteriosa relazione tra corpo e preghiera. Non si trova riflessione martiniana che non abbia come sfondo i tre scenari: essenziale, trascendente, complesso.

Nell’ultimo anno di vita, con il corpo già gravemente provato dalla malattia, Martini chiede (al momento mi sembrava assurdo e irrealizzabile) di essere aiutato a stare in ginocchio per pregare. Lo vedo scivolare dal divano in un tentativo solitario, mentre provo a dissuaderlo e insieme ad aiutarlo. Penso siano stati i quindici secondi di equilibrio più instabile e difficile della sua vita di preghiera. Qualche istante dopo, testa e sguardo dicono in un solo gesto «no – non ce la faccio – tirami su».

Al predicatore Martini l’afonia giunge inaspettata dopo una settimana di ricovero in ospedale, che risolve un problema ma ne crea un altro. Il ricovero indebolisce il sistema respiratorio. Il diaframma è meno tonico, meno flessibile, meno capace di premere sulle corde vocali. Non in modo permanente s’intende. La voce va e viene, come quelle leggere folate di vento che tendono appena le vele di una barca e che non sono necessariamente un presagio di tempesta.

La salute è silenzio del corpo – osserva Martini – un silenzio da cui si esce quando ci si ammala, quando si avverte il dolore fisico […]. La malattia non è soltanto un «rumore degli organi»; è anche un rumore di pensieri che si accavallano e mi tormentano. Non sono utile a nessuno, non sono in grado di lavorare, temo di essere un peso per gli altri, mi rifiuto di farmi servire, di farmi aiutare […]. La malattia è parte della vita, non come crescita o soddisfacimento, bensì come interruzione, sospensione, peso, molestia. […] Rivela chiaramente ciò che è nascosto in me anche quando sto bene. E la temo, la malattia, perché non voglio che emerga la verità della mia limitatezza, della mia povertà […]. I malati, specialmente se cronici, verificano una rarefazione di partecipazione umana alla loro vicenda […]. [Questo] è il mio corpo, eppure posso riflettere su di esso, quasi mi fosse estraneo. Sembra che abbia molte voci segrete, voci che vogliono dirmi qualcosa su di lui e su tutto.79

Le parole inespresse cominciano a restare incatenate al corpo, offuscate dalle voci segrete che si fanno sempre più forti, che vogliono parlare a voce più alta della voce. Allo stesso modo accade alla voce della preghiera quando subisce persecuzioni.

Storicamente gli Atti degli Apostoli riferiscono che Pietro e Giovanni furono portati davanti al tribunale, interrogati, minacciati e che venne intimato loro di non parlare più nel nome del Signore. Essi ritornano nella comunità ed è a questo punto che ha luogo la preghiera. […] La preghiera non ha come occasione il male inflitto ai credenti in quanto tali, ma il fatto della parola incatenata, impedita dalla forza, soffocata dalla minaccia.80

Gli Apostoli, costretti al silenzio dalle minacce, vedono nascere il fiore della preghiera all’interno della comunità. Martini intuisce dal brano degli Atti qualcosa che sarebbe successo anche nella sua vita: a causa del Parkinson, esce dalla nube del linguaggio che avvolge tutti ed entra in un silenzio in cui si intravedono luci nuove.81 La voce che si affloscia piano piano diventa una parola «altra».

Una parola «altra» in relazione alla voce. L’uomo comunica anche con la mimica, con i gesti, con gli occhi.

Il corpo dell’uomo parla, parla e ascolta perché ogni altro corpo gli parla. Il nostro corpo è intimamente contrassegnato dalla parola: è il suo distintivo che gli conferisce la dignità di uomo. E parla non solo con le parole, ma con il suo stesso modo di essere […]. Vorrei sapere del corpo la parola non detta, che è iscritta in esso, che ne dice il significato e il destino […]. Il mio corpo ha una parola precisa iscritta in sé: questa parola è l’altro, è richiamo dell’altro, il corpo diviene se stesso davanti all’altro, mettendosi in relazione. L’altro è però il mistero che sfugge a ogni analogia e riduzione di similitudine; se voglio possederlo non è più «altro», e io resto solo, senza nessun altro.82

Non solo un comunicare diverso da quello della voce, ma parlare attraverso il «sé fisico» davanti all’altro, agli altri. L’evento delle apparizioni di Gesù, dopo la resurrezione, è descritto nei Vangeli come improvviso, inatteso, come uno «stette in mezzo» (Luca 24,36; Giovanni 20,19; Giovanni 20,26). Gesù occupa uno spazio al centro della scena in cui sono riuniti gli Apostoli. Prima ancora di parlare, prima ancora di offrire la pace (cfr. Giovanni 20,19), prima di inviare i discepoli (cfr. Giovanni 20,21), Gesù risorto occupa uno spazio fisico centrale.

Prima del Golgota Gesù è sempre costretto a rassicurare i discepoli sulla sua identità, sulla presenza fisica: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Matteo 14,27). Dopo la resurrezione, la presenza fisica del Maestro è di per sé rassicurante. Nessuno si spaventa. È talmente rassicurante da essere sempre non riconosciuta. I discepoli lo riconoscono solo dopo aver fatto esperienza della Parola che fa ardere il cuore (cfr. Luca 24,32), di gesti che ricordano quando era vivo (cfr. Luca 24,30), di verifica dei segni della passione: «Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco e non essere più incredulo ma credente» (Giovanni 20,27).

La coppia di termini ebraici (chashoh) + (charash) si può applicare con uguale intensità sia al silenzio di Dio sia a quello degli uomini (cfr. Salmo 27[28],1; Salmo 38[39],3; Salmo 49[50],3); così il (demamah) di Elia – voce di silenzio – letteralmente il silenzio come di un bambino nudo tra le braccia della madre, spogliato della sua identità, essenzializzato.83 Nel testo biblico, in particolare nei Salmi, essi non rappresentano un silenzio muto, pesante, sigillato. Si tratta piuttosto di un silenzio di preparazione, di riparazione, come chi si raccoglie su se stesso prima del grande balzo. Il silenzio contenuto in questa sequenza terminologica indica sforzo, tensione verso un fine che chiede una concentrazione previa di energia. Sul piano fisico questo istante si evidenzia nell’artista che trattiene il fiato, nello spettatore che è «tutto occhi e tutto orecchi». In questa fase di concentrazione l’organismo umano non ha altra risorsa che il silenzio. Ogni parola sarebbe tradimento della grandezza dell’istante. Il colpo secco della bacchetta del direttore sul podio blocca istantaneamente i rumori del pubblico e le accordature dei musicisti, il cigolio delle sedie e il passo dei ritardatari dell’ultimo minuto nei corridoi. Sta per accadere qualcosa per cui il silenzio non è fatto di nulla ma colmo di energia. André Neher codifica questo istante come «esperienza suprema del possibile».84 Cosa significa questo in relazione all’afonia del Predicatore? Martini commenta la pericope della donna cananea che insiste con Gesù chiedendo la guarigione della figlia (Matteo 15,21-28):

[…] una terza volta viene respinta in maniera durissima: «Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini» (v. 26). Parole che suonano come un insulto di tipo nazionalistico, tali da suscitare una ribellione, un’ira, una esasperazione interiore incredibile. La lotta tra Dio e l’uomo è all’acme. Il fatto è di una elevazione mistica profondissima ed è straordinario vedere come la donna, nell’obbedienza assoluta della sua mente, anziché maledire o scagliarsi contro Gesù, riesce persino a essere umorista, tanto si sente libera e fiduciosa: «È vero, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni» (v. 27). La risposta è di una superiorità incomparabile, indice di una persona che crede veramente in Gesù, nella misericordia di Dio, nella forza universale dell’alleanza, al di là delle stesse parole ascoltate. Così la donna vince. E Gesù vuole essere vinto. Il mistero della lotta con Dio sta proprio nel fatto che l’angelo è contento di essere vinto da Giacobbe (cfr. Genesi 32,23ss.). Come dice un apologo rabbinico: Dio è contento di essere superato e vinto dai suoi figli […]. Quale è la nostra capacità di lottare con Dio? Siamo di coloro che facilmente si deprimono, si sentono dimenticati, abbandonati, magari senza dirlo a se stessi ma nel sottofondo della coscienza? Oppure cerchiamo di imitare l’esempio di Maria e della Cananea, che sfidano Dio e, nel combattimento dell’esistenza, vanno di fede in fede; che accolgono il momento difficile, accolgono l’oscurità come il momento più alto del grido, in cui Dio prova nel fuoco la fede, affinché si esprima in pienezza come per Abramo?85

L’esperienza suprema del possibile si traduce per il Predicatore afono nella domanda radicale sul «perché» di questa ultima sua prova. Non in modo passivo, rassegnato. Due volte a settimana un medico rieduca il Predicatore all’uso delle corde vocali perché la voce torni a essere parola. Lascia all’Anziano esercizi quotidiani perché il rumore della malattia torni a tacere. Il silenzio della salute torni a essere parola del corpo. Le lotte si sommano: quella del corpo contro le sue crescenti fragilità; quella della psiche contro gli scogli di silenzi sempre più lunghi; quella dell’anima sul senso di questa peirasmós (esplorazione, tentativo, prova), per vedere quanto uno vale, quanto è fedele, quanto resiste, quanta forza ha. Il professore di critica testuale dell’Istituto Biblico di Roma deve ripetere sillabando parole come: gat-to, ca-sa, to-po, pa-ne, mam-ma. Non piega la testa in modo inerme, anche lui sta in mezzo, guarda in faccia la prova. Questo impegno quotidiano stanca e toglie alla già residua capacità vocale le riserve tenute da parte per i colloqui reali. Talora si innervosisce nel combattimento con la malattia e con Dio ma, in modo impercettibile, passa di fede in fede. Nella capacità di accogliere l’oscurità del suono accade che Dio prova la fede.

Uno dei lettori della rubrica mensile del «Corriere della Sera» accenna alla morte del proprio figlio in un incidente di montagna. Scrive che questo dramma lo ha reso muto davanti a Dio: «Capisco il suo silenzio davanti a Dio» risponde il Cardinale. «Credo che anche Lui ammutolisca davanti a ogni vita spezzata. Provi a ribaltare la prospettiva, provi a offrire il conforto che lei chiede ad altri […]. Dio nella sua persona e nella sua provvidenza non è meno addolorato di noi quando i suoi figli non riescono a realizzare a pieno la promessa della propria storia.»86 L’afonia lo conduce sul crinale della fragilità di tanti: «Quanto poi all’osservazione: “Mi piacerebbe avere la sua stessa certezza dell’esistenza di Dio; ma purtroppo non è così”, debbo dire che sento molto la fragilità di questa mia fede e il pericolo di perderla. Per questo prego molto il Signore e gli affido la mia vita, la mia morte e tutti quelli che vanno alla morte con poca fiducia nella potenza di Dio».87 Stupisce che se il silenzio di Dio davanti al male è, da sempre, l’argomentazione principe a sostegno della in-fermità di ogni «qualità» di fede, per Martini diventa fonte di una certa consolazione: «Mi aiuta la considerazione di un certo ritirarsi di Dio dalla sua creazione, perché Egli vuole che l’uomo sia libero. Anche l’impegno generoso e talora eroico di tanta gente che nelle catastrofi naturali trova uno stimolo per donarsi al prossimo mi sostiene nella mia fede. Ma, come ho detto altre volte, si tratta di misteri che non possiamo del tutto comprendere finché dura la storia».88

La storia umana di Martini si conclude il 31 agosto 2012 intorno alle 14.30. L’ultima omelia pubblica è tenuta il giorno di Pasqua del 2010. In Colti da stupore89 è pubblicata con una serie interminabile di barre verticali. Il Cardinale legge in italiano il testo del Vangelo della domenica successiva, lo confronta con l’originale greco, scrive qualche appunto su un file del computer. Lo riprende più volte nel corso della settimana e il sabato sera lo stampa. Rilegge ad alta voce e si accorge che il ritmo del respiro, la sua estensione, non corrispondono più alla punteggiatura. Con mano tremante segna barre verticali sul testo lasciando che siano i polmoni a decidere dove prendere respiro. La morte di Martini è uno di quei casi in cui non ci sono «ultime parole». Dio ha condotto lentamente nel suo silenzio-quiete il Predicatore. Non per punizione, né per sottrarre ai suoi uditori la consolazione della Parola, né per sottolineare un qualche «silenzio dell’idolo». Forse solo per completare il percorso della Parola detta e udita: orecchio-mente-cuore. Per affrontare la morte come esperienza suprema del possibile, non del nulla. Per dare spazio, corpo e «Parola altra» alle immense, silenti, riserve dell’essere Umano e del suo più intimo indicibile rapporto con Dio.

76 Cfr. C.M. Martini, Non è giustizia. La colpa, il carcere e la parola di Dio, Mondadori, Milano 2003, 89-90.

77 Cfr. C.M. Martini, P. Sequeri, Custodire il Mistero, In Dialogo, Milano 1988, 7-11.

78 C.M. Martini, Qualcosa di così personale. Meditazioni sulla preghiera, Mondadori, Milano 2009, 47.

79 C.M. Martini, Sul corpo, Centro Ambrosiano, Milano 2000, 19-35, passim.

80 C.M. Martini, Qualcosa di così personale, cit., 63.

81 Cfr. C.M. Martini, Parlate con il cuore, Rizzoli, Milano 2012, 66.

82 C.M. Martini, Sul corpo, cit., 35-51.

83 Cfr. A. Mello, La passione dei Profeti, Qiqajon, Magnano (Bi) 2000, 44-50.

84 A. Neher, L’esilio della Parola, dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, Marietti, Casale Monferrato (Al) 1983, 53.

85 C.M. Martini, Avete perseverato con me nelle mie prove. Riflessioni su Giobbe, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1990, 111-113.

86 C.M. Martini, Parlate con il cuore, cit., 47.

87 Ivi, 31.

88 Ivi, 39s.

89 Cfr. C.M. Martini, Colti da stupore, incontri con Gesù, Mondadori, Milano 2012, 181s. Il volume costituisce la raccolta delle ultime omelie pubbliche, pronunciate dal Cardinale nella chiesa della comunità Aloisianum dei gesuiti a Gallarate dall’agosto del 2008 all’inizio di aprile del 2010.