Un’indiscriminata affermazione di autonomia – da parte del malato e, di rimbalzo, da parte del medico – non è adeguata alla realtà della situazione. I due soggetti non si trovano su un piano di parità e dunque di reciprocità simmetrica. In questa condizione, il rispetto doveroso dell’autonomia del malato non produrrebbe effetti vantaggiosi per la sua salute, se fosse interpretata solo la logica del «contratto» o dello scambio mercantile: il rapporto terapeutico esige piuttosto di ispirarsi all’idea di alleanza tra medico e paziente. Il termine, di risonanza anche biblica, suggerisce e propizia una vicinanza, una prossimità dei soggetti affine per certi aspetti al rapporto di amicizia.
C.M. Martini, «Etica in geriatria», in Idem, Ripartire da Dio, EDB, Bologna 2005, 601.
Alleato. Questo vocabolo, tratto dalla citazione martiniana, definisce in modo appropriato il bellissimo rapporto che ho potuto avere con il Cardinale. Tra noi non si è mai istituita una relazione medico-paziente prescrittiva e distaccata, ma fin da quando lo conobbi, il 26 novembre 2004, nacque un rapporto alla pari di continuo scambio e confronto; le nostre conversazioni non si limitavano mai a commentare aspetti sanitari, ma si estendevano sempre ad argomenti ben più ampi. Per questo posso affermare che il cardinale Martini non fosse solo un paziente, ma lo consideravo e lo considero tuttora un amico.
Carlo Maria Martini mi dichiarò di essersi ammalato di malattia di Parkinson nel 1996, tuttavia, basandomi sui dati clinici inequivocabili, presumo che la patologia non fosse insorta più di due anni prima del nostro incontro, essendo stata però preceduta, verso la fine degli anni Novanta, da una forma di «tremore essenziale». Fu proprio la sua malattia a farci incontrare, dal momento che si rivolse a me in quanto neurologo parkinsonologo e presidente dell’Associazione Italiana Parkinsoniani (come ebbe a dirmi suor Germana molto chiaramente). Il Parkinson è una malattia cronica, evolutiva, per cui non esiste una terapia curativa, ma soltanto la possibilità di controllare i sintomi grazie a farmaci sostitutivi. Si tratta di una malattia, prevalentemente, del movimento, che comporta lentezza, rigidità, in alcuni casi tremore a riposo (anche se non sempre, a differenza di quanto comunemente si pensi), postura curva, problemi di equilibrio e impaccio motorio nel cammino. Al contrario, solo in una minoranza dei pazienti (circa il 30 per cento dei malati della stessa età anagrafica di Carlo Maria Martini) la malattia coinvolge la sfera cognitiva; il Cardinale non fu mai interessato da questa problematica, mantenendo intatte la sua lucidità e la sua intelligenza sino alla fine. Fu colpita invece la voce, che divenne inintelligibile, ma non al punto di impedirgli di esprimere con stentorea chiarezza il proprio pensiero. La compromissione della voce non è però da attribuirsi alla malattia di Parkinson, che non colpisce la voce in modo così importante, ma a esiti di danni di origine cardiovascolare, che hanno interessato le aree cerebrali deputate alla fonazione. Queste problematiche erano tenute parzialmente sotto controllo da un pacemaker cardiaco.
Si discusse molto degli ultimi giorni di vita del cardinale Martini, si scatenò una vera e propria diatriba in merito alla sua scelta di non accettare accanimenti terapeutici. Qualcuno parlò addirittura di eutanasia, interpretando in maniera inappropriata l’accaduto, perché il trapasso del Cardinale avvenne in maniera naturale. Semplicemente, Carlo Maria Martini rifiutò terapie fortemente invasive, che gli vennero presentate e proposte. Ebbe la consapevolezza e la forza spirituale di comprendere di essere giunto alla fine del proprio cammino terreno e di accettare con grandissima pace interiore il momento del passaggio.
Carlo Maria Martini non si lagnava mai dei suoi sintomi e dei disturbi che lo affliggevano; si limitava a riferirli con precisione e a commentarli come fatti scientifici e oggettivi, per comprenderli e risolverli laddove possibile, ma senza mai caricare la sua conversazione con me di alcun tipo di lamentela.
Oltre ad andare regolarmente a visitarlo presso la sua abitazione di Gallarate ogni due settimane circa, spesso organizzavamo gite fuori porta nella giornata di giovedì. Nelle nostre uscite avevamo il piacere di coinvolgere anche i nostri collaboratori più stretti; io portavo con me i medici specialisti in nutrizione e apparato gastroenterico del mio team, che si occupano di complicanze nutrizionali della malattia di Parkinson: la dottoressa Michela Barichella, la dottoressa Agnieszka Marczewska e negli ultimi anni anche la dottoressa Erica Cassani; mentre il Cardinale coinvolgeva la cara suor Germana che gli era sempre fedele e devota, l’infermiera Marisa e il suo segretario don Damiano Modena. Le mete delle gite erano le più svariate, generalmente luoghi in cui si potesse godere del panorama e stare a contatto con la natura. Carlo Maria Martini amava passeggiare all’aria aperta, immergersi nel paesaggio e non disdegnava il buon cibo. Come in ogni aspetto della sua vita, era parsimonioso anche a tavola (come dimostrato dalla sua figura sempre longilinea), ma, nelle occasioni conviviali, non disdegnava concludere il pasto con un buon dessert.
La mia amicizia col Cardinale e, di conseguenza, il nostro rapporto medico-paziente si fondavano su fiducia e stima.
Erano evidenti il suo equilibrio e la sua capacità di approcciarsi sempre con la giusta misura alle persone, alle situazioni e alle decisioni, anche a quelle che lo riguardavano da vicino. Quando lo conobbi, viveva ancora a Gerusalemme, che è indubbiamente il luogo in cui avrebbe desiderato rimanere fino alla fine della sua vita. Andai a trovarlo più volte, furono viaggi davvero piacevoli e interessanti, capii quanto amasse la Terra Santa e quanto sentisse di appartenere a quella regione del mondo. Ebbi occasione di recarmi al Santo Sepolcro insieme a lui, per la mia prima e per la sua ultima volta, come lui ebbe modo di considerare. Nonostante ciò, quando nell’anno 2008 le sue condizioni di salute resero impossibile il prolungarsi della sua permanenza a Gerusalemme, a causa della comparsa di una lieve insufficienza cardiaca, decise con risolutezza di tornare in Italia, senza opporsi e accettando nel profondo quell’evento di vita. Il suo equilibrio si manifestava anche quando esprimeva giudizi sulle persone, non temeva mai di esporre con franchezza la propria idea, rimaneva saldo nelle sue opinioni senza preoccuparsene.
Un’altra virtù per cui era impossibile non ammirarlo era la sua umiltà, per esempio quando suor Germana lo lodava presso altri, dicendo che sua Eminenza sapeva parlare undici lingue, lui si schermiva commentando «Lei lo dice!».
Più di ogni cosa, Martini amava la Verità. Ricordo una chiacchierata in cui, commentando un suo articolo sul «Corriere della Sera», mi disse che secondo lui la Menzogna rappresentava il peggiore dei peccati. Io commentai esponendogli il mio parere e dissi che, secondo me, il peggior peccato era invece l’estremismo. Ripensavo alle lotte politiche a cui avevo assistito durante la giovinezza, all’ideologia che acceca e impedisce di interpretare correttamente la realtà. Il Cardinale mi disse che avevamo affermato lo stesso concetto, perché indipendentemente da quale sia la causa che ci tiene lontano dalla Verità – estremismo, menzogna, ignoranza, ottusità – l’uomo non può vivere una vita piena senza avere accesso alla Verità stessa. La capacità di mediare e comprendere le opinioni altrui era un’altra delle sue grandi virtù. Ricordo il suo racconto in merito a una lunga conversazione che aveva intrapreso con un monaco buddista: «Io parlavo di Dio e lui del Nulla» diceva il Cardinale. «Ma capii presto che parlavamo della stessa cosa.»
Continuò a scrivere e a collaborare con la stampa fino a poche settimane prima di morire, nonostante la malattia fosse diventata negli ultimissimi anni veramente pesante da gestire.
Il Cardinale aveva trovato la sua Verità grazie alla sua fede incrollabile, che lo ha sostenuto fino alla morte. Appariva chiaro a chiunque quanto la fede del cardinale Martini fosse autentica, sincera, vissuta, inattaccabile dalla malattia di Parkinson o da qualsiasi altra fragilità umana, in ogni giorno della sua vita.