Benedetta maledetta città

Storia di un’identità sempre da ricostruire

di Fabio Pizzul

Mai infatti come in questo tempo stiamo sperimentando, più ancora che la forza, la debolezza delle nostre città. Eventi drammatici che hanno toccato altre metropoli, il riproporsi recente di oscure minacce e più in generale la complessità dei processi in atto nei grandi agglomerati urbani sembrano indurre a un senso di sgomento di fronte alla difficoltà di reggere alle sfide che pone la grande città. Eppure la città è un patrimonio dell’umanità. Essa è stata creata e sussiste per tenere al riparo la pienezza di umanità da due pericoli contrari e dissolutivi: quello del nomadismo, cioè della desituazione che disperde l’uomo, togliendogli un centro di identità; e quello della chiusura nel clan che lo identifica ma lo isterilisce dentro le pareti del noto. La città è invece luogo di un’identità che si ricostruisce continuamente a partire dal nuovo, dal diverso, e la sua natura incarna il coordinamento delle due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica dell’apertura e la dolcezza del riconoscimento.

C.M. Martini, «Paure e speranze di una città», Discorso al Comune di Milano, 28 giugno 2002, in Idem, Perché il sale non perda il sapore, EDB, Bologna 2003, 454s.

Le città sono realtà complesse e possono essere costruite, indagate e vissute in molti modi. Ogni città ha una storia composta da diversi elementi che si intrecciano tra loro in modo enigmatico e spesso misterioso. Ci sono elementi necessitati, legati alla natura del luogo in cui la città sorge, inevitabilmente portati dalla conformazione del territorio, dal clima, dalle forze naturali che insistono sul luogo in cui sorge. Ci sono elementi sognati, collegati al progetto che fa nascere e prosperare la città, a un’idea che ha accompagnato chi l’ha immaginata e voluta. Ci sono elementi progettati, frutto di tecniche di costruzione e del lavoro di uomini che hanno deciso o sono stati costretti a legare il loro destino a un determinato luogo e tempo.

La città non è però solo questo e il cardinale Martini lo ha ricordato a più riprese con il suo magistero, inserendoci in un’antica e feconda tradizione che, dalla Bibbia in poi, ha considerato le città come luoghi speciali per rappresentare la vita dell’uomo e la sua relazione con Dio. Basti pensare alla città di Gerusalemme, non a caso scelta da Martini come approdo del suo percorso umano e spirituale, forse proprio in virtù della potenza, simbolica e reale, di un luogo che racchiude in sé le più forti contraddizioni della storia degli uomini e i più autentici sogni di un’armonia che sfugge alle fatiche quotidiane, ma propone un possibile esito felice e pieno di senso per la vita dell’uomo.

Credo che Martini, figlio dell’austera e apparentemente fredda borghesia sabauda che trovava in Torino un’efficace rappresentazione, a base di rigoroso e formale rispetto delle regole e industriosa capacità di utilizzare le tecniche, abbia costruito, attraverso le città che ha incontrato nella sua vita, una compiuta riflessione sulla città stessa come metafora e luogo della pienezza di vita per l’uomo. Entrando a Milano a piedi, con il Vangelo tra le mani, Martini si è voluto mettere in ascolto della città rileggendone le tensioni alla luce della Parola. Un percorso non facile in anni segnati da violenza, sofferenze e crisi che hanno lasciato segni profondi, ma non hanno interrotto il cammino verso la città sognata, quella Gerusalemme che per il Cardinale è stata meta terrena, ma soprattutto spirituale.

Senza pretendere in alcun modo di sintetizzare le ricche e variegate riflessioni di Martini sulla città, che si possono ritrovare nei discorsi alla vigilia di Sant’Ambrogio o nei tanti interventi di fronte alle istituzioni, provo a suggerire una possibile lettura escatologica del rapporto con la città intesa, in questo senso, come luogo in cui poter sperimentare una pienezza che per il cristiano non può essere di questo mondo, ma in esso trova elementi preziosi per sostenere il cammino verso il Regno. La città è un luogo denso di contraddizioni: è minacciosa per chi non la conosce e amica per chi vi trova di che vivere. Non è un caso che le grandi civiltà abbiano sempre trovato il loro motore nelle città o che nei prossimi decenni la stragrande maggioranza della popolazione mondiale finirà per vivere in città diventate ormai enormi megalopoli. Ci possono essere molti modi di vivere la città e da essi dipende la percezione e il giudizio che ciascuno di noi matura sulla città stessa.

La città si può usare. I sociologi definisco «city users» le centinaia di migliaia di persone che arrivano in città per godere dei servizi che essa offre. Usare la città significa apprezzarne le comodità e sfruttarne le potenzialità, privilegiando modalità di scambio economico ad altri tipi di relazioni. Per chi dispone di risorse sufficienti, la città è luogo di opportunità e di soddisfazione. La città da usare deve funzionare al meglio, essere gradevole, semplice e immediata. Una città di questo tipo è particolarmente adatta a essere organizzata secondo le tecniche che la rivoluzione digitale ha portato a livelli di efficienza estremamente alti. Una città così ha bisogno di manager che sappiano farla funzionare e correre sempre più, all’insegna della soddisfazione dei clienti che decidono di usarla per ottenere i servizi che ricercano. La città da usare è una città bella, ma rischia di essere fredda e impersonale. Come lo stesso Martini ha più volte avuto modo di sottolineare nei suoi interventi, una città da usare rischia di creare molti esclusi e di selezionare gli uomini che la vivono sulla base della loro possibilità di avere le risorse necessarie per farlo. Certo, una città che funziona è anche in grado di creare servizi per chi non ce la fa, sempre secondo il criterio della transazione economica o funzionale. Già nel 2002 Martini avvertiva il rischio della fredda standardizzazione delle regole.

Le città vanno costruite. L’azione del costruire può assumere moltissimi significati e si concretizza nell’espansione sempre più vasta della città. Si può costruire con regole e progetti precisi o in modo casuale e disordinato. Gli edifici possono essere pensati per le persone o per le aziende, per lo svago o per la residenza. L’atto del costruire è in sé nobilissimo, si avvicina anche all’atto creativo di Dio, ma si possono costruire città sante o torri di Babele. Città ben costruite offrono alta qualità della vita, ma costruire una città non è sufficiente perché questa prosperi e offra opportunità a chi la abita. Le città vanno anche governate e il buon governo è condizione necessaria perché esse possano elevarsi oltre il puro dato architettonico e urbanistico e trasformarsi in luoghi di vita buona per chi le abita. Costruire, allora, è importante, ma non basta, anzi, talvolta è un atto che condanna le città perché porta sfruttamento e degrado. Soprattutto quando alla costruzione non segue la cura del costruito. Molte periferie delle nostre città sono, purtroppo, lì a ricordarcelo.

Le città si possono anche conquistare. La storia ci offre migliaia di esempi di città assediate, bombardate, saccheggiate, svuotate. Si può conquistare una città con la violenza delle armi, ma anche con l’abbondanza del denaro, l’arroganza o la sottile forza persuasiva del potere politico, la subdola onnipotenza della finanza, la gioiosa e vuota spensieratezza del consumo, la potente passione della religione. La città è così luogo di scontro e di sentimenti forti, luogo in cui schierarsi da una parte o dall’altra per conquistare un’autonomia che dipenderà sempre dalla potenza di qualcuno, magari anche dalla propria. Conquistare la città significa poter realizzare i propri sogni di potere, magari anche grazie a imprese sportive o alla capacità di coagulare interessi economici e finanziari. La logica del confronto, che spesso diventa scontro, è il motore della città, le fazioni che si oppongono scatenano forze competitive e accrescono la potenza del luogo in cui si esercitano, salvo poi, talvolta, perdere il controllo di questa forza e concentrarsi più sulla necessità di distruggere il nemico che di far prosperare la città.

La città può essere scelta, come luogo di vita o meta turistica. In questo caso, il criterio che regola questa decisione potrebbe essere sintetizzato con la parola «bellezza». Una città che punta sul bello invita a sceglierla come luogo in cui abitare o come meta da raggiungere per il proprio tempo libero. Il marketing territoriale, in un’epoca globalizzata come la nostra, è un acceleratore straordinario per lo sviluppo delle città. La dimensione estetica è un motore fondamentale dei flussi internazionali che spostano uomini, merci e denaro. Una città bella è gradevole da visitare, appetibile come luogo di residenza, piena di valore dal punto di vista economico. Lo stesso Martini, d’altronde, aveva dedicato profonde riflessioni alla bellezza come elemento da non trascurare per promuovere una città più vivibile. La bellezza può però anche essere gelida, lontana dalla vita concreta delle persone e la sua ossessiva ricerca rischia di emarginare tutto ciò e tutti coloro che non corrispondono ai suoi canoni.

Pensando alle città che hanno accompagnato la vita di Martini, Torino, Roma, Milano e Gerusalemme, troviamo in esse le tensioni che ho appena provato a descrivere, insieme a molte altre correnti più o meno sotterranee che ne hanno orientato la storia e determinato la vita. Lo stesso Martini ne è stato interprete come studioso, pastore, guida spirituale e intellettuale. Credo, però, che il suo magistero ci abbia suggerito un modo per andare oltre queste tensioni e accedere a una dimensione più alta della città, quasi a voler entrare in punta di piedi nella «settima stanza». Nel suo cammino verso Gerusalemme, il Cardinale gesuita credo ci abbia suggerito la possibilità di interpretare la città e il nostro modo di viverla secondo la categoria della pienezza che, nel linguaggio cristiano, altro non è che l’anelito alla santità, ovvero alla possibilità di attingere a un rapporto pieno con Dio attraverso i fratelli che ci sono accanto. Lo ricordava lui stesso nella straordinaria ultima omelia nel Duomo di Milano in occasione della celebrazione dei suoi venticinque anni di episcopato: il cristiano non ha che un orizzonte, quello della vita eterna, tutto il resto non può che essere relativo, ma proprio per questo diventa fondamentale, proprio perché orientato alla pienezza del Regno. «Allora» diceva Martini in Duomo l’8 maggio 2005 «si compirà il giudizio sulla storia, e sapremo chi aveva ragione. Allora le opere degli uomini appariranno nel loro vero valore, e tutte le cose si chiariranno, si illumineranno, si pacificheranno.» Anche il modo di vivere e costruire la città può rientrare in questo cammino.

Nel testo citato all’inizio, pronunciato davanti al Consiglio Comunale di Milano in occasione della consegna della Grande medaglia d’oro, il massimo riconoscimento della città, Martini suggerisce un possibile percorso per giungere a vivere in pienezza la città, senza trascurare i suoi problemi e la sua bellezza, ma trasfigurandoli in quella che potremmo definire regola aurea per la buona cittadinanza. Una città desiderabile, secondo Martini, è quella che si apre, riconosce le differenze e fa sorgere un’amicizia che «in sede civile prende il nome di concordia e che si prende cura non solo di realizzare il programma stabilito con i propri amici, ma del terreno comune che sussiste tra questi progetti e quelli dell’altro, del cosiddetto “nemico”». La città può diventare il luogo della mediazione tra valori che deve essere continua e paziente se si vuole evitare che «si coltivi nella città il germe della astiosa rivincita e della conflittualità perenne».

Per il cristiano si apre, allora, nella città il compito di creare un tessuto comune di valori su cui possano essere elaborate e composte posizioni e differenze che non sarebbero così più fonte di conflitti devastanti e distruttivi. Non è il sogno, che poi si trasformerebbe in incubo, della città alveare, in cui tutti, edifici compresi, sono standardizzati e asserviti a una logica livellante e alienante, è piuttosto la fatica di riconoscere il bene che abita vicino, direi anche nel vicino, e di lavorare, con pazienza e tenacia, per promuovere una «concordia civile» che non è semplice rispetto delle regole, ma cammino verso un bene condiviso più alto e comune. In questo modo la città non è più palcoscenico per il proprio narcisismo o rampa di lancio per le proprie ambizioni, ma luogo propizio per il riconoscimento dell’altro come amico, compagno in un viaggio comune verso una vita più degna e felice. Ancora Martini: «La paura urbana si può vincere con un soprassalto di partecipazione cordiale, non di chiusure paurose; con un ritorno a occupare attivamente il proprio territorio e a occuparsi di esso; con un controllo sociale più serrato sugli spazi territoriali e ideali, non con la fuga e la recriminazione. Chi si isola è destinato a fuggire all’infinito, perché troverà sempre un qualche disturbo che gli fa eludere il problema della relazione».

Una città come luogo propizio per le relazioni, di ricomposizione delle fratture e di riconoscimento della diversità come opportunità di crescita: «La città non è il luogo dove abitare il meno possibile, ma il luogo nel quale imparare a vivere».

La drammatica esperienza della pandemia di Covid-19 ci ha posto di fronte a una città spettrale, che non riconoscevamo nella sua gelida assenza di legami tra le persone, bloccata dall’impossibilità di esercitare qualsiasi tipo di relazione. Abbiamo allora scoperto come a fondamento della città ci sia anche il prendersi cura degli altri, il farsi carico delle debolezze e il riconoscere un limite che può essere superato solo grazie all’aiuto degli altri. Non è un caso che il cardinal Martini abbia voluto lasciare come sua eredità alla città di Milano la Casa della carità, luogo di cura, di amicizia civica e di attenzione alle relazioni, all’insegna della bellezza materiale e spirituale e dell’attenzione ai più fragili. Un vero e proprio centro di gravità per la pienezza della città a partire, per dirla con papa Francesco, dalle periferie esistenziali e urbane.

La città, ricca di relazioni, aperta alla bellezza del confronto e capace di cura dei più deboli, può così diventare, nella lettura sapienziale del credente, una prefigurazione della Gerusalemme celeste perché, come diceva La Pira, citato da Martini nel suo discorso agli Stati Generali del Comune di Milano nel giugno del 1998, le città «non sono cumuli occasionali di pietra: sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in un certo modo, misteriose abitazioni di Dio: Gloria Domini in te videbitur».