Chiesa e Israele

Dialogo e autocomprensione

di Piero Stefani

Un dialogo, uno scambio vitale con il mondo ebraico è essenziale per la Chiesa. Mi permetto di tornare, a questo proposito, su ciò che ho accennato all’inizio: io sono convinto che una profonda penetrazione all’interno dell’ebraismo sia vitale per la Chiesa non soltanto per superare l’ignoranza vecchia di secoli e per avviare un dialogo fruttuoso, ma anche per approfondire l’autocomprensione di sé. In altre parole, vorrei sottolineare l’importanza, per la teologia e la prassi cristiana, dello studio dei problemi che derivano dall’interruzione del contributo che la teologia e la prassi dei giudeocristiani avevano dato alla primitiva comunità cristiana.

Ogni scisma e divisione nella storia della cristianità priva la Chiesa di contributi che avrebbero potuto essere preziosi e produce una certa carenza nell’equilibrio vitale della comunità cristiana.

Se questo è vero per ogni grande divisione che si è verificata nella storia della Chiesa, lo è particolarmente per il primo grande scisma che ha privato la Chiesa del contributo che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica.

C.M. Martini, Israele, radice santa, Centro Ambrosiano, Vita e Pensiero, Milano 1993, 45s.

Carlo Maria Martini, uomo di dialogo chiamato a relazionare in un contesto programmaticamente orientato a favorire l’incontro tra cristiani ed ebrei, sottolinea, con inedita forza, che, per la comunità dei credenti in Gesù Cristo, la prima istanza è quella dell’autocomprensione. Accanto a un movimento volto verso l’«altro» compare una riflessione diretta verso se stessi. La tendenza si sviluppa, oltre che in relazione alla situazione presente, pure guardando a un riferimento storico relativo a quello che si usa chiamare il «protoscisma».

Il termine, più ripetuto che compreso, di «protoscisma» è applicato, di solito, in senso generale all’antica rottura avvenuta tra ebrei e cristiani. Con esso quindi ci si riferisce alla separazione tra due comunità religiose assunte nel loro complesso. Osservata con maggior attenzione, l’accezione è piuttosto superficiale. La parola «scisma» si applica a una separazione avvenuta a partire da una realtà pensata unitaria anche se non necessariamente monolitica. Nel nostro caso essa va perciò riferita a una dimensione interna rispettivamente all’ebraismo e al cristianesimo. Nel I secolo d.C. vi erano molte componenti e correnti ebraiche, spesso anche in aspra polemica reciproca, ma tutte si riconoscevano come espressioni di un unico popolo, quello d’Israele: non si entra in polemica con chi ci è assolutamente estraneo. Analogamente tra e dentro le varie Chiese (dotate di norma di una dimensione locale) vi furono, fin dall’origine, tensioni e a volte fratture, tuttavia si trattava pur sempre di modi diversi, e non di rado perfino contrapposti, di interpretare la fede in Gesù Cristo, una convinzione quest’ultima che accomunava verso l’interno e distingueva rispetto all’esterno. In breve, si potrebbe riassuntivamente sostenere che erano tutte forme di cristianesimo.

Il tardo e discusso termine di giudeocristianesimo è tendenzialmente una «parola ponte» divenuta, paradossalmente, indice di scissione. Occorre soffermarsi con attenzione sulle valutazioni proposte da Martini. L’espressione che parla del «primo grande scisma che ha privato la Chiesa del contributo che le sarebbe venuto dalla tradizione ebraica» tenderebbe a far pensare a una separazione tra ebrei e cristiani. Al contrario se si guarda all’«interruzione del contributo che la teologia e la prassi dei giudeocristiani avevano dato alla primitiva comunità cristiana» occorre obbligatoriamente richiamarsi a una frattura interna. Quest’ultima valutazione costituisce un riferimento chiave. Di solito l’interesse si concentra (anche attraverso discusse interpretazioni di passi giovannei, cfr. Giovanni 9,22; 12,42; 16,2) sull’allontanamento dei cosiddetti giudeocristiani da parte delle comunità ebraiche; Martini non entra in queste discussioni, egli piuttosto osserva il fenomeno dall’altro lato rammaricandosi dell’avvenuta sterilizzazione della linfa giudaica all’interno dell’albero cristiano. L’allora arcivescovo di Milano auspicava l’effettuazione di ricerche storiche, ma è ovvio che il suo orientamento di fondo prescindeva dall’esito, per forza di cose sempre specifico e perfettibile, di pur meritorie indagini. Egli infatti proponeva subito orientamenti di largo respiro indicando tre conseguenze attuali legate a questo mancato apporto:

a) La prassi cristiana ha una permanente difficoltà a focalizzare esattamente il giusto atteggiamento dei singoli e della comunità nei confronti del potere tecnico, economico e politico del mondo.

b) La prassi cristiana fa fatica nel trovare il giusto atteggiamento nei confronti del corpo, del sesso, della famiglia.

c) La prassi cristiana non riesce a trovare il giusto rapporto tra la speranza escatologico-messianica e le speranze, le aspettative degli individui e delle comunità, in relazione alla giustizia, ai diritti umani e così via.

Le discussioni senza fine sulle applicazioni pratiche e sugli atteggiamenti in questi settori – non tanto, quindi, sui principi teologici generali – che caratterizzano anche l’attuale situazione, hanno le loro radici in quella ferita non guarita del primo scisma. Possiamo allora comprendere perché san Paolo diceva che la riunione degli ebrei sarà come «una vita da morte», come ritornare in vita dalla morte.

È assai importante, per i cristiani, promuovere la comprensione della tradizione ebraica per riuscire a capire più autenticamente se stessi.90

All’inizio del suo intervento, Martini aveva già sostenuto che la posta in gioco, oltre alla continuazione di un dialogo, era l’acquisizione, nella coscienza dei cristiani, dei loro legami «con il gregge di Abramo» e delle conseguenze che ne derivano per la dottrina, la disciplina, la liturgia, la vita spirituale e «addirittura» per la missione della Chiesa «nel mondo d’oggi». La posizione va correlata all’altra secondo la quale un’interruzione di questo legame è avvenuta attraverso l’abbandono dell’apporto arrecato alla Chiesa dai giudeocristiani, una componente peraltro progressivamente respinta anche a opera del giudaismo rabbinico. In questo contesto era inevitabile che ci fossero delle oscillazioni interpretative anche all’interno del pensiero di Martini. Le istanze del dialogo e quelle dell’autocomprensione non sono sempre omogenee. Per capire più autenticamente se stessi occorre promuovere la conoscenza della tradizione ebraica e questa operazione comprende anche il giudeocristianesimo, una realtà storica e un riferimento valoriale accolti in genere con disagio, se non addirittura rifiutati, da parte ebraica. In epoca contemporanea la fede in Gesù Cristo affermata dai goyim (gentili, non ebrei) non suscita in genere alcun problema per gli ebrei, anzi essa spesso è valutata positivamente; assai diverso è il discorso per la valutazione prevalente riservata agli appartenenti al loro stesso popolo che hanno ricevuto volontariamente il battesimo; raramente a queste persone è attribuita la funzione di ponte, al contrario è più facile che esse siano giudicate transfughi (per evitare di usare parole ancora più pesanti).

Il cardinal Martini sembra assumere, in un certo senso, una posizione paragonabile, sia pure a parti rovesciate, a quella proposta da Paolo nei capitoli 9-11 della Lettera ai Romani. In essa l’ebreo apostolo delle genti articola prospettive di abissale profondità sul dramma da lui vissuto a causa del fatto che la maggior parte del suo popolo, che continua comunque a essere scelto e amato da Dio a causa dei padri (Romani 11,28), non ha accolto l’evangelo. Dal canto suo, nella sua riflessione il «goy» Martini prospetta, sia pure in un orizzonte contraddistinto da una tensione escatologica evidentemente molto meno forte di quella di Paolo, il dramma di una Chiesa gentilica che, pur restando comunque strumento di salvezza, ha allontanato da sé la componente giudaica. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di fratture interne, una prossima, l’altra remota. In entrambe le situazioni il loro risanamento è prospettato come un passaggio cruciale.

Martini stesso ha avuto modo di porre in rilievo che un conto è rivolgersi a Israele in qualità di professore di Sacra Scrittura legato a un circuito accademico e altro è farlo da pastore di una grande diocesi. Per spiegare l’intensificarsi dell’attenzione rivolta al popolo ebraico sarebbe però riduttivo appellarsi solo a questo mutato contesto; dietro a ciò vi è anche il dispiegarsi di un approfondimento interiore e comunitario che individua la necessità di un rapporto vitale con il popolo ebraico al fine stesso di definire la Chiesa. Su questo fronte, a detta del Cardinale, c’era ancora molto cammino da compiere: «Un ritardo che ci deve pesare molto è non aver considerato vitale la nostra relazione con il popolo ebraico. La Chiesa, ciascuno di noi, le nostre comunità non possono capirsi e definirsi se non in relazione alle radici sante della nostra fede e quindi al significato del popolo ebraico nella storia, alla sua missione e alla sua chiamata permanente».91

Queste indicazioni pastorali, nel significato alto del termine, attestano il fatto che una perdita antica abbia ricadute precise sull’oggi. Tuttavia, accanto al depauperamento, occorre dar spazio a un legame tuttora presente. Su questo fronte Martini concede una qualche legittimazione, forse eccessiva, all’espressione «verus Israel» riservata alla Chiesa; a suo avviso quest’ultima formulazione non comporta, di necessità, lo svuotamento dell’antico Israele, piuttosto essa indica la perennità di un legame. Allorché ribadiva che i cristiani si sentono in continuità con tutta la storia ebraica, compresa quella sviluppatasi in epoca postbiblica, l’allora arcivescovo di Milano sollevava una questione che lo avrebbe condotto, dopo una citazione tratta da Isaia, ad alludere ai capitoli 9-11 della Lettera ai Romani: «Forse oggi non è ancora chiaro come la missione della Chiesa e quella del popolo ebraico possono arricchirsi e integrarsi reciprocamente senza venir meno a ciò che l’una e l’altra hanno di essenziale e di irrinunciabile. C’è tuttavia un obiettivo finale: quando saremo un unico popolo e il Signore ci benedirà dicendo: “Benedetto sia l’Egitto mio popolo, la Siria opera delle mie mani, Israele mia eredità” [Isaia 19,25]. Dice san Paolo che le promesse di Dio sono senza pentimento! [cfr. Romani 11,29]».92 Il contenuto del passo profetico, un unicum in tutta la Scrittura, indurrebbe però a concludere in senso un po’ diverso da quello proposto da Martini; i popoli infatti qui restano tre: Egitto, Assiria e Israele, e tra essi nessuno può rappresentare, neppure simbolicamente, i cristiani. Inoltre Gerusalemme in questa sezione non svolge alcun ruolo, Israele è una terra di transito, la sua funzione è quella di essere mediatore/riconciliatore tra antichi nemici: «In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra» (Isaia 19,24).

L’onestà della ricerca mette in luce temi tanto cruciali quanto ancora bisognosi di approfondimento. Nei passi ora citati è d’obbligo notare in Martini un’oscillazione dovuta a un nodo non sciolto. In particolare occorrerebbe definire quali rapporti intercorrono tra lo scisma originario legato all’emarginazione dei giudeocristiani e la relazione positiva e costante che va instaurata con l’attuale popolo ebraico. Anche in riferimento a Martini ci si può infatti appellare all’espressione tradizionale di «mistero d’Israele» intesa, sulla scorta dell’insegnamento di Jacques Maritain, nel senso di azione compiuta da Dio per la redenzione dell’umanità.93 Immediata è dunque la connessione tra la missione affidata al popolo ebraico e il compito salvifico proprio della Chiesa.

In un discorso pronunciato una decina di anni dopo la relazione di Vallombrosa, Martini si è domandato: «Può ancora oggi il popolo ebraico essere posto sotto la categoria teologica di “popolo di Dio”, cioè ricevere lo stesso appellativo che la Chiesa dà a se stessa?».94 Più avanti nello stesso intervento, egli citava un brano del documento della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo noto come Sussidi (III, 10). Si tratta di un passo incentrato sulla complessa possibilità di pensare a un unico popolo di Dio sia pure diviso in due distinte comunità di fede: l’ebraica e la cristiana. Seguendo questa linea pare, però, inevitabile rendere tra loro omogenee e dunque paragonabili due realtà, vale a dire il popolo d’Israele e la Chiesa, le quali, in effetti, non lo sono. In un’altra occasione, Martini, riferendosi alla Lettera ai Romani (cfr. 11,16-18), ha affermato che, secondo Paolo, Israele continua a essere un «buon olivo» anche «se alcuni non hanno creduto a Gesù Messia e Salvatore. I popoli pagani, descritti come “oleastri”, diventano anch’essi popolo di Dio (“Ecclesia ex gentibus”) perché, credendo a Gesù Messia e Salvatore, per la sua mediazione sono innestati nel “buon olivo” di Israele. Tale concezione dell’unica Chiesa, dell’unico popolo di Dio, con riferimento a Cristo e Israele, pare andare più in profondità rispetto alla concezione delle due chiese-comunità giustapposte nell’icona di Santa Sabina».95 Quest’ultimo riferimento si chiarisce tenendo conto che nella chiesa romana di Santa Sabina vi è un mosaico in cui due matrone identiche rappresentano rispettivamente una l’Ecclesia ex circumcisione, l’altra l’Ecclesia ex gentibus. Si tratta, con ogni evidenza, di una profonda autocoscienza ecclesiale raffigurata in forma iconografica. Dopo aver esposto il contenuto dei due mosaici Martini aveva aggiunto: «Se è così, che cosa dobbiamo pensare del popolo ebraico attuale, accanto alla Chiesa?».96

L’insieme dei riferimenti delineati dal Cardinale rende chiaro come egli abbia avuto difficoltà a percepire la diversità radicale presente nel modo di concepirsi comunità proprio, da un lato, del popolo ebraico e, dall’altro, della Chiesa. Per comprendere questo punto basterebbe un unico riferimento: secondo la legge ebraica si nasce ebrei, vale a dire l’ebraicità si trasmette per via genealogica; di contro, secondo l’autocoscienza ecclesiale, si nasce sempre non cristiani, la fede cioè non si trasmette mai attraverso la generazione. In linea di principio ciò è stato vero pure allorché dominava il regime di cristianità; anche quando si parlava di popoli cristiani, l’etnia non era giudicata un veicolo per trasmettere la fede. L’incertezza sul modo di articolare la categoria di «popolo di Dio» costituisce il fattore che, con ogni probabilità, ha maggiormente influito sull’atteggiamento remissivo assunto da Martini nei confronti dell’espressione «verus Israel». Si è perciò di fronte all’ambiguità di trovarsi a respingere un’idea e al contempo ad accogliere il simbolo più pregnante di quella che viene definita la teologia della sostituzione. Per quest’ultima non c’è qualifica più adatta alla Chiesa che quella di essere definita il «vero Israele». Questa visione teologica è fondata infatti su tre convincimenti di base: a) fino alla venuta di Gesù Cristo, il popolo d’Israele è stato titolare dell’elezione; b) questo popolo ha perduto l’elezione a causa del suo rifiuto di Gesù Cristo; c) l’elezione è passata alla Chiesa la quale si presenta, quindi, come vero (o nuovo) Israele.

In realtà, l’immagine delle due matrone raffigurate a Santa Sabina è fondamentale nella misura in cui è indice di una specifica autocoscienza ecclesiale volta ad affermare l’opera di Cristo che, all’interno del mistero della Chiesa, dei due ha fatto un unico uomo nuovo (Efesini 2,14-15). È decisivo tenere sempre in massimo conto che si tratta non di un unico popolo nuovo, bensì dei chiamati che, siano essi ebrei o gentili, diventano in Cristo nuove creature. La preoccupazione di dar spazio all’elezione del popolo d’Israele al di fuori della Chiesa è assolutamente giusta, tuttavia essa non è affatto incompatibile con la duplice presenza di una Ecclesia ex circumcisione e di una Ecclesia ex gentibus. Anzi, proprio questa caratteristica può far sì che la Chiesa si pensi come una comunità tanto diversa da Israele da non essere in alcun modo nelle condizioni né di sostituirlo, né di rompere ogni legame con lui. Appunto in questo senso un peso determinante va attribuito alla fondamentale presenza di quell’«ex». La Chiesa infatti va definita, fin dalle origini, come la comunità dei chiamati da Israele e dalle genti (cfr. Romani 9,24). Questa prospettiva pone al centro il nodo fondamentale della relazione che passa tra, da un lato, l’autocoscienza ecclesiale di fronte a Israele e, dall’altro, il dialogo instaurato (e da instaurarsi) tra ebrei e cristiani. Solo nel secondo caso è dato parlare in termini di identità e autonomia; nel primo invece la comunione passa attraverso la diversità.

Per ricorrere a uno schema si potrebbe affermare che per la teologia della sostituzione Chiesa e Israele sono due realtà simili e quindi incompatibili in quanto l’una ha preso il posto dell’altra, mentre per la visione incentrata sull’«ex» sono, all’opposto, realtà tanto dissimili quanto correlate. Vi è però anche una terza alternativa, quella di trovarsi di fronte a realtà simili (sia la Chiesa sia Israele possono ricevere, a buon diritto, la qualifica di popolo di Dio) ma cooperanti. Quest’ultima posizione è la più prossima al pensiero di Martini. Essa appare più feconda in termini sia di dialogo sia di ecclesiologia. Perciò, nonostante il fatto che l’allora arcivescovo di Milano avvertisse con inedita urgenza la portata ecclesiologica del problema, il suo nome è associato, da parte tanto cristiana quanto ebraica, soprattutto al dialogo con il popolo d’Israele, prospettiva di indubbia e grande positività; tuttavia la prassi dialogica non è tale da risolvere, di per sé, tutti i problemi ecclesiologici (in sostanza ancora tutti aperti) prospettati (o intravisti) dal cardinale Martini riguardo al decisivo nesso Chiesa-Israele.

90 C.M. Martini, Israele, radice santa, cit., 46s.

91 C.M. Martini, Popolo in cammino, Àncora, Milano 1991, 79.

92 C.M. Martini, Israele, radice santa, cit., 51.

93 C.M. Martini, «Parlare di riconciliazione dopo Auschwitz», in Centro Ecumenico per la Pace (a cura di), Quale riconciliazione? I cristiani d’Europa si interrogano, Centro Ambrosiano, Milano 1997, 65.

94 C.M. Martini, «Il popolo, l’esilio, il cammino», in Idem, Verso Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2002, 118s.

95 C.M. Martini, «Parlare di riconciliazione dopo Auschwitz», ivi, 66.

96 Ibidem.