Affidamento totale a Dio

Martini e il Pensiero alla morte di Paolo VI

di Marco Vergottini

Paolo VI scrisse queste pagine [del Pensiero alla morte] alcuni anni prima della sua morte, mentre si trovava ancora fortemente impegnato nel molteplice servizio della Chiesa. Io rifletto su queste cose con la tranquillità di chi non ha più impegni ufficiali e può prepararsi alla morte. Ringrazio Dio di avermi dato, dopo gli anni impegnati al servizio della Chiesa di Milano, un tempo relativamente lungo (ormai quasi sei anni) per pensare all’anima mia.

Di fatto mi trovo più vicino alla morte di quanto non si trovasse Montini quando scrisse queste pagine. Sono davanti alla prospettiva di una chiusura prossima dell’esistenza e quindi mi pare di sentire in maniera ancora più forte tutta la grandezza e l’oscurità di quel momento.

C.M. Martini, Paolo VI «uomo spirituale», Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 2008, 173.

In apertura dei lavori del Colloquio Internazionale La trasmissione della fede. L’impegno di Paolo VI (settembre 2007), organizzato dall’Istituto Paolo VI di Brescia, fu letto un messaggio augurale inviato da Gerusalemme da parte del cardinale Carlo Maria Martini. In quell’occasione mi colpì il tenore niente affatto convenzionale del breve saluto, da cui traspariva una forte sintonia dello scrivente con papa Montini. Nell’ascoltare quelle parole di augurio subito mi convinsi che sarebbe stato assai interessante esplorare l’ipotesi di raccogliere tutti gli interventi che Martini aveva avuto occasione di pronunciare o di scrivere su Montini/Paolo VI; lì per lì ipotizzai potessero esservene almeno una decina. Immaginavo un volumetto agile e di facile realizzazione. In realtà, dopo aver provveduto a un’attenta ricognizione, scoprii che i testi di Martini sulla figura del papa bresciano erano molti di più; alcuni furono ritrovati quando già erano state composte le prime bozze della pubblicazione. Alla fine dell’impresa, assai più impegnativa del previsto, la raccolta comprendeva ben 30 fra scritti e discorsi nell’arco degli anni 1983-2005.

D’intesa con i responsabili dell’Istituto Paolo VI di Brescia, che si fece carico di accogliere il volume nel catalogo delle sue pubblicazioni, si prese poi la decisione di corredare il testo con un apparato di oltre 400 note redazionali e con un dossier fotografico molto suggestivo, comprendente alcune immagini di papa Montini con il giovane gesuita ai tempi della sua docenza all’Istituto Biblico di Roma. Una volta raccolto il materiale, mi sono preoccupato che il cardinale Martini potesse effettivamente sentire «suo» il testo. Occorreva che fosse lui a scegliere il titolo e l’immagine di copertina; poi, in cuor mio, speravo di poter strappare all’autore un testo inedito. Tutto ciò fu reso possibile grazie a un viaggio in Terra Santa avvenuto nel febbraio 2008, quando mi recai a Gerusalemme per quattro intense giornate e fui ospite del Cardinale.

In quell’occasione, a proposito del titolo da scegliere, egli decise prontamente di adottare una cifra biblica – quella paolina di «uomo spirituale» – per definire l’esistenza cristiana del papa. Quanto all’immagine di copertina, dopo avere scartato tutte le riproduzioni che ritraevano Paolo VI in forma sofferta e ascetica, proprio con l’intenzione di rompere con il cliché di un Montini travagliato e austero, Martini optò per una soluzione vitale e rassicurante, il ritratto a opera di Dina Bellotti che mostra il pontefice in atteggiamento sereno e rilassato, tutto coinvolto nell’atto di insegnare. Infine, egli si mostrò assai meravigliato di fronte alla mia richiesta di aggiungere un inedito e, per quanto sorpreso, acconsentì alla mia proposta di commentare dal vivo il Pensiero alla morte di Paolo VI. Ricordo che mi chiese di leggergli a voce alta il testo, mentre egli si concentrava con gli occhi chiusi in poltrona ad ascoltare la struggente meditazione. Al termine della lettura dettò al registratore una sua riflessione sulla morte come affidamento totale a Dio.

L’ipotesi che mi ha accompagnato lungo tutto il lavoro redazionale è stata l’affinità e la sintonia che ha contraddistinto la relazione fra i due grandi personaggi. Certo, molto diversi sono i tempi in cui hanno vissuto, differenti le biografie e le sensibilità di Montini/Paolo VI e Martini, eppure molti sono i punti di contatto. Entrambi, da postazioni diverse, hanno inteso sollecitare un rinnovamento della coscienza credente e della testimonianza ecclesiale, riconoscendo che nel patrimonio della Scrittura e della tradizione fino al Concilio Vaticano II i cristiani sono chiamati a trarre fuori la novità sempre originale di Cristo Gesù che avvolge e interpella l’uomo di ogni tempo. Più ancora, Martini ha capito Paolo VI. Lo conferma già, del resto, la scelta del suo motto episcopale, Pro veritate adversa diligere, di chiara impronta montiniana. Più ancora, la circostanza di ritrovarsi suo successore sulla cattedra di Ambrogio ha fatto sì che in Martini scattasse il desiderio di mettersi alla scuola di Paolo VI, per assimilarne il gusto della preghiera come scoperta dell’intimità con Dio, per imitarne il desiderio di lasciarsi vincere dalla «dolce violenza dell’amore di Cristo», per condividere la tensione appassionata per la riforma della Chiesa nella scia del Concilio Vaticano II, per sperimentare l’interiore e criticamente sofferta assimilazione della cultura moderna da parte della coscienza credente.

Il 2 ottobre 2008 a Milano, presso l’Auditorium San Fedele, Martini intervenne per presentare il volume, dietro mia pressante richiesta. Quella sera era profondamente emozionato. Sapeva di incontrare dopo qualche anno la sua Milano, rappresentata da molte delle persone con cui aveva trascorso ventidue intensi anni di ministero episcopale. Per questo aveva chiesto, prima dell’incontro, che il riflettore fosse puntato su papa Paolo VI a trent’anni dalla sua scomparsa. Lo si poté accontentare, prevedendo di concludere l’incontro con la lettura scenica del Pensiero alla morte da parte di Ugo Pagliai. Tutti noi che eravamo presenti, immersi nella «fornace di affetti» di quell’incontro, fummo colpiti dalla schiettezza e dalla drammaticità con cui il Cardinale parlò dei suoi rapporti con Paolo VI. Inevitabilmente, nel suo intervento volle accennare all’esperienza della sua malattia, senza nascondere il carattere tragico della sofferenza e della fine che vedeva avvicinarsi.

Merita allora riportare alla lettera la parte conclusiva del suo intervento:

Sono stupito delle tante cose che ho detto su Montini, non sapevo di averne dette tante, né di saperne tante. Credo che questo libro contenga riferimenti a tante cose ma, come dice san Giovanni alla fine del suo Vangelo, molte altre si potrebbero aggiungere, riempiendo un po’ tutta la terra di libri, per dire le cose che Montini ha vissuto.

Vorrei richiamare cinque cose più una, che rendono la figura di Montini presente in questo momento.

1. Anzitutto era molto timido. Ricordo un’occasione in cui in un’udienza di qualche centinaio di professori da tutto il mondo, il Segretario monsignor Pasquale Macchi ci fece una sorta di «catechesi», raccomandando dopo i discorsi di non avvicinarsi al papa, «perché altrimenti si sente senza fiato; bisogna lasciargli spazio e che lui ricominci a parlare con ciascuno». Questo era il suo stile. Paolo VI non era tanto l’uomo per le masse, ma l’uomo del dialogo personale. In questo aveva una capacità di ascolto straordinaria.

2. E io ancora mi stupisco, vedendomi vicino a lui, mentre gli parlo: lui quasi trattiene il respiro per cogliere bene ciò che gli si dice, per interessarsi a ciò che viene esposto. In questo fu molto diverso dal suo successore. Lui ha voluto essere veramente l’uomo dell’ascolto del singolo, l’uomo che cercava di cogliere le sfumature dell’identità personale, diversissime per ciascuno. Quindi questa sua timidezza non era se non un altro aspetto della sua capacità di ascolto.

3. Ancora in questa linea vorrei ricordare il suo riserbo e il suo rispetto per il lavoro dei competenti. Una volta andai da lui – ero Rettore dell’Istituto Biblico – per comunicargli una possibile scoperta che avrebbe forse rivoluzionato un po’ anche la storia del Nuovo Testamento. Io ero entusiasta delle prospettive che si sarebbero aperte. Mi colpì il fatto che Montini rimase un po’ scettico, un po’ freddo. Poi disse: «Alla fine i competenti vedranno». Non si lasciava prendere dall’entusiasmo apologetico; era molto oggettivo e rispettoso.

4. Come quarta cosa vorrei ricordare il motivo per cui ho scritto nel libro che Montini fu per me un po’ come un padre. Non ho mai detto questo, forse non riesco a dirlo bene, forse non è neanche opportuno dirlo, però mi ha colpito e vorrei esprimerlo. Come gesuita facendo i voti, rinunciavo all’eredità paterna, a tutto quanto poteva essere di mia spettanza, e potevo quasi calcolare un po’ a occhio e croce la somma a cui rinunciavo. Ebbene, mi colpì molto il fatto che Montini una volta quando c’era una grave necessità dell’Istituto Biblico per ricostruzioni importanti mi diede più o meno la stessa somma. Quindi lo considerai come un padre, e mi dissi: «Colui veramente è stato capace di rendersi conto delle mie necessità e mi sta vicino»; e lo sentii maggiormente come un padre.

5. Come ultima cosa vorrei ricordare un altro punto della sua delicatezza. Quando ero Rettore dell’Istituto Biblico andai da lui e mi fece una proposta riguardo a una iniziativa molto prestigiosa che egli voleva affidare all’Istituto Biblico. Io gli feci notare che forse, com’era avvenuto in altri casi, se si affidava un compito importante solo a un singolo istituto, la cosa sarebbe stata snobbata nel resto della Chiesa. Capì immediatamente e di fatto creò poi una struttura ecclesiale che si occupò di questa iniziativa, così che venne accettata dalla Chiesa intera. Perciò anche in questo emergevano la sua prudenza, delicatezza, riserbo, rispetto.

Vorrei dire ancora un’ultima cosa sul suo Pensiero alla morte, che noi ascolteremo tra poco dalla voce di Ugo Pagliai, e che costituirà una splendida chiusura per questo momento così intenso d’incontro. Ho detto, nella mia riflessione conclusiva al volume, che ritengo che il Pensiero alla morte sia stato scritto vari anni prima della sua morte, quando la sentiva, come tutti noi la sentiamo, incombente, ma non imminente. Invece, io mi trovo a riflettere nel contesto di una morte imminente. Sono più o meno nell’ultima, o penultima, sala d’aspetto. Mi accorgo allora che se dovessi scrivere, non scriverei così. Troppo bello questo testo, meraviglioso, lirico… ma chi si trova dentro deve piuttosto sentirsi scarnificato nelle parole e nei sentimenti, trovandosi di fronte a difficoltà non facili da superare. Si tratta di descrivere una realtà tutta negativa con parole razionali che sempre hanno bisogno di qualcosa di positivo. Mi trovo perciò di fronte a questa esperienza che è definitiva, conclusiva e non riesco ancora a esprimerla. In questo mi ha aiutato lo stesso Paolo VI negli ultimi mesi della sua vita, quando gli ho dato gli ultimi Esercizi Spirituali (1978), e poi quando l’ho visto tragicamente cedere di fronte alla malattia, di fronte al morbo che lo opprimeva. Chiedo per sua intercessione di poter avere anche questo sguardo di verità.97

Così il Cardinale in quella serata indimenticabile non soltanto saldò il suo debito di riconoscenza nei confronti di Paolo VI, ma insieme testimoniò la sua fede nel Signore della vita, senza nascondere le sue fragilità nell’incamminarsi verso la morte, anzi confessandole e condividendole con quanti gli si stringevano attorno con commozione e trasporto.

97 Intervento del cardinale C.M. Martini in «Istituto Paolo VI. Notiziario», 56 (dicembre 2008), 139s.