La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?
C.M. Martini, Intervista al «Corriere della Sera», 1 settembre 2012.
Il 10 febbraio 1980 Carlo Maria Martini, gesuita e biblista torinese di 53 anni, fino a quel momento rettore della Pontificia Università Gregoriana, prende «possesso» della diocesi di Milano andando a piedi per le vie della città fino a raggiungere una piazza Duomo stracolma. Nella predica di insediamento, intessuta di riferimenti biblici portati come coni di luce a illuminare le circostanze, il nuovo arcivescovo parla più della città che della Chiesa, la città come «cuore della Chiesa e della diocesi», non il contrario, e ne mette in evidenza la storica vocazione unificatrice, incoraggiandola a rimanere luogo della confluenza e dell’incontro soprattutto in un momento storico in cui la violenza e il conflitto sembrano dominare gli eventi e minare gli animi. Le parole dei Salmi servono a descrivere una Milano insanguinata. Viene citato il Salmo 11 assieme a Isaia 59: «Emergono i peggiori tra gli uomini e i loro piedi corrono a versare il sangue». Due giorni dopo, il 12 febbraio, mentre parla per la prima volta ai preti diocesani raccolti nell’aula magna della Cattolica, arriva la notizia dell’uccisione di Vittorio Bachelet per mano delle Brigate Rosse. Nell’audio di quell’incontro si possono ancora ascoltare, come un evento che accade ora, i bisbigli con cui la notizia gli viene portata all’attenzione e il fragore di quell’assemblea nell’apprenderla a sua volta. Sempre nell’omelia di due giorni prima, Martini descrive Milano lasciando parlare uno dei tanti anonimi che gli hanno scritto in segno di accoglienza e parla di una «città meravigliosa e terribile, tenera nel donarsi, crudele nell’imporre sistemi e ritmi di vita; qui si spara ogni giorno, ma si compiono anche grandi atti di amore». Incoraggia a una passione che «risveglia l’intelligenza della scienza e l’intelligenza della politica». L’omelia ha una trama incessantemente biblica, ma al contempo ha tutto di una vigorosa orazione civile.
Un’immagine, tra le molte divenute note di quel 10 febbraio, possiede una carica emblematica di cui a distanza di quarant’anni possiamo decifrare meglio le sfumature. Si tratta di uno scatto di Dino Fracchia che ritrae il futuro Cardinale mentre sul palco allestito in piazza Duomo si rivolge alla folla radunata per salutarlo. Si intravede la statua equestre di Vittorio Emanuele affollata di persone che, come tanti Zaccheo, vi sono salite per una vista migliore. Ma il monumento sembra lui stesso. Ripreso di spalle occupa lo spazio con fermezza statuaria. Eppure non è il suo volto che noi vediamo. Vediamo i mille volti che rendono traboccante la piazza e la teoria di insegne che si staglia dietro di essi come una costellazione elettrica di nuove divinità urbane. Le spalle di questo nuovo pastore ci consentono e quasi ci costringono a metterci occhi negli occhi con quella umanità che troviamo raccolta da una imprecisabile attesa e col mondo in cui fluttuano i suoi altrettanto imprecisati desideri. Siamo già in una parabola evangelica. E in quel modo di seguire Gesù che nella Scrittura finisce sempre per far incontrare «altri», i loro volti, le loro storie, le loro provenienze, per farsi meravigliare ogni volta di quanto la sostanza imprevedibile della loro unicità si trasformi in sorgente irripetibile delle parole che escono dalla bocca del maestro. Non si capisce nulla del fenomeno Martini senza mettere a fuoco questo protagonismo che, anche in ordine alla stessa testimonianza del credente e alla missione del pastore, deve sempre essere assegnato al «mondo degli uomini» come campo che il Dio di Gesù ha già disseminato dei suoi tesori.
La questione sempre impellente, quella che permette al tema della «tradizione» di essere pungolo fruttuoso e non incudine legata alla caviglia, resta di chiedersi continuamente quali «credenti» merita la città degli uomini, quella di oggi, perché anche tra le sue arterie concitate e nei suoi reticoli frenetici si senta passare il fremito dello spirito. Si tratta di ribaltare un riflesso mentale inveterato. Non è la compagine degli appartenenti, che può farsi chiamare «Chiesa» per attribuirsi una patente di esclusiva, a dover/poter modellare il mondo/umanità imprimendo lo stampo del proprio consolidamento istituzionale. È nella città dell’uomo che si trovano indizi utili a forgiare l’identikit dei credenti testimoni e tra di essi dei servi pastori. Di quali credenti ha bisogno questo mondo? Che cristiani si merita la città del tempo secolare?
A distanza di quarant’anni, e nonostante un gesuita martiniano sia diventato papa, la situazione in merito non corrisponde precisamente a quel «discernimento degli spiriti» che l’allora neoarcivescovo di Milano avrebbe avviato per la sua Chiesa inaugurando atteggiamenti che per molti restano tutt’oggi quasi leggendari. Se ci si possono permettere quelle generalizzazioni che derivano da uno sguardo complessivo, e devono quindi scusarsi col particolare, con le eccezioni, e con il mistero che agisce ingiudicabile nell’esperienza dei singoli, nella media delle sue espressioni pubbliche e dei suoi umori di base la presenza dei cattolici nella «città» sembra avere di questi tempi connotati quasi isterici. Va detto con senso di comprensione per sentimenti che a livello della loro autopercezione vivono di una forte presunzione di realtà. Il lutto per la cristianità estinta fatica a chiudere i tempi delle sue elaborazioni. Accumula anzi le sue risonanze con l’eco prodotta dalle inquietudini tipiche del nostro tempo di transizioni. Tra le fila cristiane si respira aria di disadattamento, estraneità, rancore. I credenti, nella media, patiscono la socialità. Si muovono nella Gerusalemme della secolarità, che ha crocifisso la loro gloria storica al palo della modernità, come quei due che scappano senza nemmeno sapere bene dove, sempre a parlarsi tra loro di brutti ricordi e nuovi disagi che si alimentano uno sull’altro come onde di un mare in agitazione. Ancora faticano a percepire «altro». Vivono perciò con la «città» un distacco di doppio segno. Uno ha i tratti della separazione militante. Vanno come tutti al centro commerciale, fanno anche loro la coda per il prossimo iPhone, si destreggiano distintamente nei circuiti dell’economia liberale, ma quando si tratta dei «grandi valori» erigono mentalmente invalicabili mura di isolamento e indossano idealmente la corazza del resistente. Sembra loro che testimoniare voglia dire combattere. Il secondo segno di distacco prende invece la forma della massificazione populista. Sciolgono il loro sale nella minestra del mugugno. Mentre da discepoli del maestro, Vangelo alla mano, dovrebbero essere quelli che vedono più lontano e incoraggiano tutti, vanno quasi in massa a infoltire il corteo che i nuovi messia della paura riescono a formare con un fischio ben piazzato a ogni emergenza sociale. Si arruolano anonimi alle crociate che oggi sono altri a predicare. Se oggi cerchi la «gente di Chiesa» la trovi più spesso lì, tra i militanti e i populisti.
E hai subito un’impressione: che sia la disperazione di qualcuno che si aggrappa a qualcosa. In più, una domanda: che a spaventarli non sia il recesso della cristianità, ma il subliminale terrore di non avere più niente a cui credere al di fuori di quel mondo antico chiamato in causa dalle nuove intelligenze della storia e dalle nuove evidenze del sapere. Paura di smarrire la formula magica che consentiva di aderire convintamente a una visione religiosa della vita che la sfrontatezza della cultura contemporanea mette in discussione in ogni modo. Paura della paura. Istinto a trattenere: prassi, retoriche, gerarchie, valori. Le istituzioni religiose, se si eccettuano rare variabili, per lo più sostengono questo istinto di protezione. Non esitano a mobilitarsi nemmeno adesso, come anticorpi chiamati alla battaglia antivirale, per arginare le «aperture» di un pontificato eccentrico, seppure con le strategie dell’inerzia e le tattiche dell’attrito. Nel senso comune, cattolicesimo è ormai sinonimo di inattuale, non nel senso di profetico, ma nel senso di insignificante. Non agisce dove si fa il senso. Rischia di parlare un gergo e di vivere in una riserva.
Nell’ultima intervista della sua vita, Carlo Maria Martini, con quella libertà che si può concedere uno che come lui l’ha veramente amata e servita, dice che «la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni», gettando nel dibattito cattolico un sasso che non ha ancora smesso di generare piccoli cerchi sulle sue acque spesso stagnanti. Pubblicata sul «Corriere della Sera» il 1° settembre 2012, ma rilasciata a Georg Sporschill l’8 agosto, qualche settimana prima della morte avvenuta il 31 di quello stesso mese, quell’intervista sembra intrisa di una malinconia quasi sintomatica e di un certo senso di resa che non offusca le ragioni della speranza ma che la affidano a un indirizzo ignoto: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza». Rispetto alla limpida essenzialità delle sue parole, che è sempre stata la prerogativa di una eloquenza cristallina ma che in questi ultimi tempi sembra essersi ulteriormente distillata in una franchezza spirituale quasi mistica, risaltano per inopportunità e manierismo i pedanti sofismi di molti detrattori sempre pronti a indiziare quelle parole di approssimazione teologica o di irenismo alla moda. Saccenti lezioncine sul nulla che nella corazza del loro teologhese d’apparato nascondono l’inquietudine dell’«uomo di Chiesa» toccato nelle sue retoriche d’ordinanza e lasciato anche solo per un istante nell’aria tagliente della realtà. Nell’intervista rilasciata a Gerusalemme, Martini implora lo slancio e il coraggio senza i quali la Chiesa può funzionare come area di sicurezza ma non come luogo del Vangelo: «Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala?». In mezzo a tanta «gente di Chiesa», se si vuol provare a esplicitare, si trova ancora della «gente di fede»?
La trama pastorale della testimonianza martiniana ha tessuto la sua tela andando costantemente alla ricerca di questa «gente di fede» che il pastore vero sa trovare anche fuori del recinto religioso e che riconosce da quella tenacia inconfondibile che anima la giustezza e la rettitudine di quanti «pensano» e «amano» il serio mestiere di vivere, della cui «verità» sono disposti a farsi carico insieme, senza farne una questione di formule, etichette, iscrizioni, ma un permanente incrocio di cammini, lingue, visioni. Gente che con la più grande naturalezza di questo mondo innaffia il terreno della storia comune con i semplici bicchieri della loro dedizione quotidiana, e che senza ostentare il proprio distintivo cristiano esulta ogni volta che in giro per la terra i semi del regno di Dio provano a sbucare, anche acerbi e fragili, dalla crosta del frenetico brusio della città umana. La fermezza di chi vedi che «ci crede», perché semplicemente non «si crede», non fa della propria adesione religiosa il format prestabilito in cui proiettare le proprie certezze di individuo «psichico»: ma una condizione che in primis abita la creazione, perciò anche il mondo e la città, con fiducia inscalfibile nella sua fondamentale bontà. Sono quelli che pensano, che amano, che comprendono, che soccorrono, che alleviano, che organizzano, che compatiscono, che riconciliano, che profetizzano, e che, per invisibile grazia di un comando che viene dall’alto, provano anche a perdonare. A questa «gente di fede» i discepoli di Gesù provano a dare una figura esemplare ma essi stessi devono riconoscere di doversi talvolta ritrovare ammirando altri. Si può trovare molta «gente di fede» anche tra la «gente di Chiesa», ma le due categorie non si sovrappongono, non coincidono, non combaciano, si incrociano fuori e dentro perimetri molto fluttuanti. La famosa «Cattedra dei non credenti», che in molti hanno equivocato come mero esercizio di cortesie intellettuali, aveva il senso di coinvolgere la «gente di fede» in questo andirivieni in cui le porte delle istituzioni e delle appartenenze potessero restare costantemente aperte e far abitare molti in una fraternità, termine sublime e anche così insidioso, che precede evangelicamente ogni differenza.
Adesso ancor più che allora si può avere la netta impressione, se lo si vuol vedere, che per rimanere tale la «gente di fede» debba come disertare lo spazio dell’istituzione e che la «gente di Chiesa» paghi, nel rimanervi, il prezzo di un’atrofia di cui non le è sempre consentito percepire l’entità. Quando si dice che quella di oggi deve essere una «Chiesa in uscita», non si tratta solo di incitarla a raggiungere il luogo di residenza dei cosiddetti «lontani», ma forse di indurla a seguire le tracce di quegli appartenenti che hanno già presto trovato letteralmente una loro «via d’uscita». Quanti sono i credenti ormai fuori dalla Chiesa? Non fuori per dispetto, per indifferenza, per conformità, ma fuori per poter continuare a credere, come uno che in acqua prova a disfarsi dei vestiti per poter nuotare. Erano solo i primi anni Settanta quando Michel de Certeau, gesuita e quasi coetaneo di Carlo Maria Martini, scriveva, non senza irritazione di molti, Debolezza del credere. Leggendo le trame di un presente sempre più secolarizzato attraverso la lente delle strategie mistiche del Seicento e del Settecento, egli aveva già intravisto come di nuovo le prassi vive di un cristianesimo ancora in circolazione fossero in cerca di nuove forme di vita fuori da quelle ormai impraticabili dell’istituzione. Senza intrattenere particolari relazioni con il suo confratello francese, Martini agisce secondo un’intuizione simile, sebbene nel tentativo, sincero e convinto, di poter coinvolgere le prassi dell’istituzione in questo processo di conversione. Il regno di Dio è grande quanto la città dell’uomo. Lì sono emigrati tutti quelli che ancora si pongono il problema di come dare alla propria vita la forma del Vangelo e di come poterlo fare in questo momento della storia. Perciò lì, seguendo il loro istinto, deve andare anche la Chiesa. Allo stesso modo, il biblista diventato pastore trova modo di scongiurare gli effetti di quel «biblicismo» che Michel de Certeau indiziava di un nuovo scientismo esegetico che tendeva a fare della Scrittura il luogo eminente di una sorta di «dittatura del passato», in cui la parola biblica si sarebbe ridotta a spazio di emersione di una «verità» meramente archeologica. La Scrittura al contrario, proprio grazie alla scoperta delle sue stratificazioni ermeneutiche, deve restare luogo che autorizza il possibile della fede nel presente. Il grande fuoco acceso dal cardinale Martini con la legna della Bibbia, divenuta elemento centrale di un’intera pastorale diocesana, arde di questa stessa preoccupazione, sebbene non espressa nei termini di una critica epistemologica applicata a metodi dell’esegesi, ma implicitamente attiva nella restituzione al «popolo di Dio», credenti o non credenti, di una parola biblica da attraversare come luogo di illuminazione e di sapienza per la fede possibile degli uomini e delle donne di questa città secolare.
I legulei di numerose discipline teologiche, che non hanno esitato a mettere i loro puntini sulle «i» a un disegno pastorale che ha fatto respirare molti, sono stati solo sintomi secondari di un’aria destinata a essere sempre meno ospitale per sogni ecclesiali di questa portata. L’ultima intervista di Carlo Maria Martini, coi suoi toni innegabilmente malinconici, arriva dalla presa di coscienza di una sconfitta «politica» da accogliere senza risentimenti ma anche da riconoscere senza troppe finzioni. Il vecchio pastore, che nel suo ritiro gerosolimitano ha persino deposto ogni insegna tipica dell’istituzione ecclesiastica e si limita a vestire panni da uomo, nonostante tutto rinnova la sua fiducia per quello che resta pur sempre più grande di noi. Offre indicazioni. Incita al coraggio. Invoca la speranza. Ma sembra chiedersi, e noi con lui, se la Chiesa sia ancora un posto per credenti.